La parola greca krisis, da cui la nostra crisi, solo marginalmente aveva il significato di “punto di svolta di un problema”. I significati principali rimandavano al separare, distinguere, discernere, quindi al giudizio, alla scelta, alla messa alla prova delle proprie competenze e della propria forza. Oggi è necessario scegliere rispetto a un tema centrale: lavorare meno, tutti, meglio.
È così ancora oggi. Ci è voluta una crisi epocale per mettere le classi dominanti del nostro paese di fronte al monstrum (doppio significato: cosa mostruosa o meravigliosa). Parliamo della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Parliamo di lavorare meno, tutti, meglio.
In questo articolo proveremo a capire come una proposta apparentemente accademica abbia sollevato il velo sul nodo centrale dei rapporti di produzione e della possibile via d’uscita dalla crisi. Proveremo a capire che cosa vogliamo noi e che cosa non vuole chi ci vuole morti, o schiavi.
Ebbene sì: quello che per anni compariva solo come slogan di cortei e volantini della sinistra – sconfitta, marginale, fuori dal tempo, dicevano – appare a lettere cubitali sulla prima pagina dell’Avvenire del 6 Maggio.
Lavorare meno, tutti, meglio.
Il quotidiano della CEI si riferisce ad un rapporto prodotto da una parte della task force del Ministero dell’Innovazione, una delle 50 messe in piedi da fine febbraio.
Gli autori – economisti del calibro di Giovanni Dosi, Andrea Roventini, Mauro Napoletano, Francesca Chiaromonte – scrivono una cosa semplice: uno degli strumenti per riavviare la produzione in sicurezza è ridurre l’orario di lavoro mantenendo inalterato il salario.
Meno ore per più turni, quindi anche meno cassa integrazione a zero ore (che spesso è l’anticamera del licenziamento). Lavorare meno, tutti.
Insomma, invece di ripartire portando i dipendenti da 200 a 100, ripartire portando le ore di lavoro giornaliero da 8 a…6? 4?
La compensazione salariale sarebbe a carico dello Stato e – udite, udite! – costerebbe meno della cassa integrazione.
L’Italia è:
- il terzo paese dell’Unione Europea (dopo Grecia e Irlanda) per numero di ore lavorate: 1723 (OCSE, 2018)
- il penultimo (peggio fa la Grecia) per tasso di occupazione: 59,3% (media UE: 69,5%) (OCSE, 2019)
- il terzultimo (davanti a Spagna e Grecia) per tasso di disoccupazione: 9,6% a fronte di una media UE del 6,1% (OCSE, 2019)
I dati sono alla portata di tutti: chi lavora fa più ore di quasi tutti in UE, ma il rapporto tra lavoratori e totale della popolazione è il più basso.
Come mai nessuno ha mai pensato che la riduzione dell’orario di lavoro avrebbe potuto abbassare il numero di ore lavorate per anno, alzare il tasso di occupazione e diminuire il tasso di disoccupazione?
È semplice.
Il mondo produttivo italiano ha costruito la sua relativa fortuna nella concorrenza mondiale attraverso un altissimo tasso di sfruttamento della propria manodopera, legale o illegale.
Diversamente, molte aziende “fiore all’occhiello” sarebbero già fallite. Non potevano competere sul piano dimensionale, né sul piano dell’innovazione produttiva. Risultavano, inoltre, perdenti sul piano della capacità di proiezione internazionale o dell’accesso alle materie prime.
Aggrappati alla barca che affonda
La naturale conseguenza, dunque, è la disperata difesa di un modello che vedeva all’interno “pochi” lavoratori ipersfruttati. “Fuori”, invece, un considerevole numero di disoccupati pronti a prenderne il posto.
Solo questa guerra tra poveri ha consentito e consente al capitale italiano di mantenere le proprie posizioni, le rendite, i tassi di profitto.
Questa è, del resto, la molla che ha spinto Stirpe, vice di Bonomi a Confindustria, a reagire così male a quella che per ora è solo un’idea di un comitato di esperti. Stirpe dichiara: “Proporre la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è come voler dire alle imprese ‘litighiamo’ ”.
Strano. A quanto emerge circa la proposta del comitato di esperti, la quota di salario “eccedente” le ore lavorate sarebbe pagata dallo Stato. Inoltre finanzierebbe non il famigerato “divano” – dove chi lavora vorrebbe riposare – ma ore di formazione e aggiornamento per favorire l’innovazione.
Insomma: non una riduzione dell’orario per legge, anzi. Si tratta della proposta di prevedere nei contratti la possibilità di farlo, a spese dello Stato.
Perché a Confindustria non piace? Perché preferisce che lo Stato paghi la cassa integrazione piuttosto che le ore di formazione?
Un problema politico
Il problema è ideologico, quindi politico. I padroni non possono accettare nemmeno lontanamente l’ipotesi che si possa lavorare meno di 8 (10, 12, 14…) ore al giorno. Non importa che questo limite massimo risalga ad una convenzione dell’ILO di…101 anni fa.
Non possono perché ciò metterebbe in discussione il fondamento della loro ricchezza, dei loro cocktail in villa, dei loro Ferrarini: quale?
L’appropriazione massiccia di ore di lavoro non pagate. Il furto di lavoro che avviene nel momento in cui il lavoro di un dipendente produce 200 ma viene pagato 20. Il resto, al netto delle spese, finisce pulito nelle loro tasche.
Del resto, a loro parziale discolpa, va detto che la riduzione dell’orario al di sotto delle 8 ore al giorno è merce rara, nel mondo. Il problema, quindi, non è solo italiano.
Perché rubano. Lavoro, prima che altro. Lo abbiamo visto prima. Non a caso la media OCSE di ore lavorate si discosta poco dal valore italiano.
Ci sono paesi, come la Russia o il Messico, dove si va ben oltre le 1723 ore nostrane: 1972 le ore per la prima, 2148 per il secondo.
Ci sono anche paesi dove la settimana lavorativa non dura 40 ore, bensì 35: è il caso dei cugini francesi, che lavorano mediamente 200 ore meno di noi ogni anno. Può capitare che facciano settimane di oltre 40 ore, ma poi recuperano l’eccesso con giorni di riposo compensativo.
Quanto dura davvero la giornata di lavoro?
Il tema è complesso, ma c’è un punto fermo: nessuno è mai veramente sceso al di sotto delle 8 ore. Ma c’è di più (e di peggio): nella maggior parte dei paesi un limite alla giornata lavorativa non esiste.
Pochi, infatti, aderiscono alla Convenzione ILO del 1919. Gli altri fanno riferimento al concetto di “orario medio”, che consente di andare ben oltre le otto ore.
In Italia si considera come limite massimo 13 ore, ma anche questo può essere superato a fronte di misure compensative future.
La divisione sognata dai lavoratori di tutto il mondo circa due secoli fa – otto ore di lavoro, otto di riposo, otto per sé – è sempre di più un sogno. Le giornate lavorative di molti sono invece sempre di più un incubo: zero tempo per sé, poco per dormire, il resto a lavorare.
Ore di lavoro e progresso tecnologico
Eppure ne ha fatti di passi avanti, l’industria, in un secolo. Il ciclo produttivo di ogni singola merce ha subito accelerazioni enormi grazie alle macchine, all’automazione, alla robotica, all’intelligenza artificiale.
La giornata lavorativa potrebbe essere dimezzata senza nessuna conseguenza negativa, se non per i profitti dei padroni.
Questo è il motivo per cui i ricchi sono ricchi: perché non cedono di un millimetro sul punto cruciale del loro sistema, lo sfruttamento umano, per il quale l’unico limite è la resistenza fisica, e la vita.
Ecco dunque le ragioni per cui i padroni si sono imbestialiti così tanto, molto più per questo che per l’allargamento dei criteri per il reddito, ad esempio.
La riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario non è UN tema, è IL tema. In una società non orientata al profitto, con un’economia pianificata, il lavoro sarebbe equamente diviso tra tutti e così il salario.
Le decisioni su cosa, come e quanto produrre sarebbero basate sui bisogni e decise collettivamente. Ma questa non è la società in cui viviamo. E non è nemmeno quella in cui ci troveremo a vivere, se restiamo immobili.
Che cosa vogliono i padroni?
I padroni non hanno trentasei vie d’uscita dalla crisi in atto, ne hanno una. Innanzitutto vogliono l’applicazione di un darwinismo feroce al loro interno. Le imprese che non ce la fanno a resistere devono soccombere, le spoglie saranno divise da chi resta.
Poi vogliono la strage sociale, operata riducendo drasticamente l’occupazione, sottopagando chi lavora e lasciando milioni di persone fuori dal ciclo produttivo.
Devono farlo per restare competitivi, rubando quanto più tempo di lavoro è possibile.
Infine, non vogliono in alcun modo fare sforzi per salvare il pianeta in cui viviamo (e quindi noi stessi). La terra, l’acqua, il cielo, le piante, gli animali, i virus e le malattie sono materia prima da sfruttare fino all’esaurimento.
Interessi contrapposti
È evidente che non abbiamo gli stessi interessi: da un lato c’è la stragrande maggioranza degli esseri umani che vuole vivere, e vivere bene. Dall’altra c’è un pugno di affamati di profitto che sta minando le possibilità della nostra riproduzione in quanto specie nel pianeta, pur di guadagnare.
Dal momento che non possiamo convincerli, dobbiamo vincerli.
1. La vita viene prima del guadagno
Ricchi e governanti di tutto il pianeta hanno urgenza di tornare a produrre come hanno sempre fatto. Non che si siano mai fermati davvero, ma l’imperativo resta quello di recuperare quanto sono stati costretti a perdere in questi mesi.
Per farlo, le lavoratrici e i lavoratori si possono sacrificare. Noi dobbiamo impedirlo.
Mai più Vincenzo Lanza!
Non possiamo accettare di tornare a lavorare nelle condizioni di prima, o in condizioni peggiori. E’ intollerabile che si torni in fabbrica e non se ne esca più.
Non possiamo sopportare altri casi come quello di Vincenzo Lanza, operaio della Adler di Pomigliano, 55 anni. Vincenzo è morto per un’esplosione avvenuta il 5 maggio 2020, il giorno dopo l’inizio della cosiddetta Fase 2.
Non vogliamo fare la conta dei morti a fine anno, e accorgerci che non cambia niente, se non in peggio. Non vogliamo ammalarci per lavorare.
Unire le forze
Per questo dobbiamo mettere insieme le nostre forze ed aiutarci l’un l’altro per:
- controllare le condizioni di lavoro
- chiedere che gli abusi vengano sanzionati e che i responsabili siano puniti
- pretendere che lo Stato spenda per la sicurezza di chi lavora.
È necessario che attivisti, lavoratrici e lavoratori, rappresentanti sindacali e organizzazioni si uniscano per esercitare forme di controllo popolare sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, la salute, i diritti individuali e collettivi.
2. La vita viene prima del lavoro
Lavoriamo per vivere, non il contrario. Lo abbiamo dimenticato. Lo ha dimenticato chi pretende di estendere tempo e spazio di lavoro a tutte le 24 ore, sette giorni su sette.
Finge di non saperlo chi gongola per lo smart working, che dietro minimi vantaggi per chi lavora – per i pendolari innanzitutto – nasconde più lavoro, più spese, più controllo e in futuro – ma non tanto futuro – meno salario.
Lo ignora volutamente chi si scandalizza all’idea che si possa lavorare meno. Lo detestano i padroni di ogni bandiera che, in ogni nazione, fanno fuoco e fiamme contro l’ipotesi di riduzione (Italia) o la legge per la riduzione (Francia, dov’è quotidianamente contestata dai ricchi).
Assumere il tema
Noi dobbiamo smettere di ignorarlo. Adesso che la crisi economica spalanca le porte sui vari scenari possibili, dobbiamo renderci conto che, a differenza dei padroni, noi abbiamo una via d’uscita, e non è l’inferno che ci stanno preparando.
Noi sappiamo che ridurre l’orario di lavoro è giusto, possibile e doveroso. E’ possibile lavorare meno, tutti, meglio. Se ciò significa un cocktail o un Ferrarino di meno per il padrone di turno bene, è un sacrificio lodevole. E’ giusto che inizino, finalmente, a sacrificarsi.
La nostra battaglia
La battaglia per la riduzione dell’orario a parità di salario dev’essere la nostra battaglia, e dev’esserlo ad un livello immediatamente europeo, come minimo. Lavorare meno, tutti, meglio deve diventare la nostra battaglia.
Anche su questo dobbiamo unire le forze, mettendo insieme il contributo del sindacalismo di classe, di singole RSU e lavoratori/trici, delle forze dell’opposizione sociale e politica, di intellettuali ed economisti d’accordo con questa proposta.
Contemporaneamente dobbiamo iniziare ad incalzare e denunciare la tiepidezza, se non addirittura l’opposizione, delle principali organizzazioni sindacali rispetto a questo obiettivo.
La risposta alla crisi che pretendiamo non è un ulteriore debito a rafforzare il cappio intorno al collo del popolo, ma è un ripensamento globale del modello produttivo. Partiamo dalla possibilità di orientare le innovazioni di processo non a favore dei profitti, ma a favore dei salari e dei tempi di lavoro.
3. Non abbiamo un altro pianeta
Non morire di lavoro è il minimo. Lavorare meno è un primo passo. Quello successivo è dire la nostra sul perché lavoriamo, su cosa facciamo, su cosa sia giusto produrre e cosa no, e in che quantità.
Non vogliamo uscire dalla crisi vendendo armi (anche perché così non ne usciremmo).
Pensiamo non si possa uscire dalla crisi con produzioni inutili e dannose per l’essere umano e per il pianeta.
Diciamo basta a portaerei sfavillanti e flottiglie di F35 se poi i nostri anziani muoiono senza terapia intensiva, o chiusi nelle RSA a contagiarsi.
Il lavoro utile
Ci sono centinaia di lavori utili che non si fanno perché non sono profittevoli. Curare la manutenzione di strade, edifici, parchi. Aumentare il trasporto pubblico, rafforzare il sistema sanitario e di quello d’istruzione. Migliorare l’efficienza e il risparmio energetico. Pensare all’arricchimento umano e culturale che viene dal teatro, dal cinema, dall’arte, dalla musica, dalla letteratura.
In ognuno di questi settori ci sono innumerevoli occasioni di lavoro buono. C’è poi un pianeta da salvare, perché andare su Marte è lontano e lì fa troppo caldo.
La transizione ecologica
Abbiamo bisogno di pianificare una transizione ecologica del modello produttivo, decidendo a monte e per anni su cosa investire e su cosa, invece, disinvestire
Lo Stato può occuparsi direttamente di tutto questo, sostituendosi al fallimentare capitale privato e intervenendo con le nazionalizzazioni per dettare la linea della trasformazione ecologica.
Anche su questo i padroncini impazziscono: i soldi dello Stato li vogliono solo regalati e in silenzio, per poi continuare a produrre ciò che vogliono senza altri criteri che non siano il guadagno. Non glielo consentiremo.