Napoli Est: un possibile laboratorio della transizione socio-ecologica da area con forte degrado sociale ed ambientale a territorio riqualificato e sostenibile
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Forte, anche se non meccanico, è il collegamento tra i vari inquinamenti ambientali ed i cambiamenti climatici in corso che insieme stanno devastando e distruggendo la biosfera.
Sia gli inquinamenti che i gas serra, responsabili dei cambiamenti climatici, non dipendono da un unico settore. Accanto alle emissioni di CO2, e ad altre sostanze inquinanti, per combustione diretta di combustibili fossili dovute ad attività industriali, trasporto, produzione di elettricità e di calore, altre attività antropiche come agroindustria ed allevamenti intensivi, deforestazione, consumo di suolo, gestione impropria dei rifiuti solidi, influiscono sia nei confronti degli inquinamenti ambientali che nei confronti dell’effetto serra. È necessario quindi un approccio trasversale, senza illudersi che agire in un solo settore possa essere sufficiente.
Molte grandi opere sono basate direttamente sull’investimento nei combustibili fossili (p.es. Depositi di Carburante, Tap e Trivelle), altre producono quantità considerevoli di CO2 per la loro costruzione, tutte loro violentano il territorio minando l’equilibrio e le capacità di adattamento della biosfera. La maggior parte degli impianti industriali generano gas Serra con all’apice quelli energetici e per l’incenerimento dei rifiuti. Le fonti di energia restano prevalentemente quelle fossili. Lo sfruttamento chimico della terra e la pratica delle monocolture ad opera dell’agroindustria (tra l’altro fortemente energivora) così come il suo inquinamento ad opera di sversamenti di rifiuti tossici oltre ad agire negativamente sulla salubrità dei prodotti agricoli e sulla salute degli abitanti di quei territori, riducono fortemente l’assorbimento di CO22 e la produzione di ossigeno. L’inquinamento delle falde acquifere, delle sorgenti, dei fiumi e del mare oltre a compromettere la vita della fauna e della flora che li attraversano limita fortemente la compensazione di anidride carbonica che gli oceani operano nei confronti delle sue variazioni nell’atmosfera. Ci sono molte produzioni inutili, come quella delle armi, che producono grandi quantità di CO2 durante la produzione e durante l’utilizzo; anche i trasporti (p.es. di container), spesso di merci inutili, producono molta anidride carbonica.
Occorre ridurre da subito, come da tempo la Commissione Scientifica dell’ONU invita tutti gli Stati a fare, il consumo energetico e le emissioni di CO2 . Vanno profondamente modificati i modi di produrre e di consumare fermando la dipendenza dai fossili, modificando i sistemi di trasporto, mettendo fine al consumo di suolo, ridando importanza al diritto al territorio (città e campagna), riducendo drasticamente la produzione di rifiuti e riprogettando i suoi sistemi di smaltimento.
Gli elementi fondamentali dell’ambiente naturale come l’aria, l’acqua, la terra e l’energia sono beni comuni che appartengono a tutti e di cui nessuno, soggetto singolo o collettivo, organizzazione o stato, può ritenersi proprietario. L’appropriazione furtiva di questi beni di tutti per il profitto di pochi, così come avviene negli inquinamenti e nell’estrattivismo dei processi produttivi, rappresenta una indebita privatizzazione gratuita operata da multinazionali, banche, imprese a danno delle donne e degli uomini che sono i naturali fruitori di quei beni; insomma a livello sistemico viene perpetuato uno sfruttamento dei lavoratori (occupati, disoccupati, precari, neet, etc.) da parte del padronato e del suo sistema economico.
La questione ambientale, fatte le debite proporzioni, è come la guerra: colpisce tutti ma solo alcuni, che certamente non si ritrovano tra le masse popolari, sono quelli che l’hanno determinata per i loro interessi ed attraverso l’appropriazione furtiva di beni comuni naturali.
La devastazione ambientale così come la devastazione climatica si pongono quindi come questioni sociali (di classe) sia perché derivano da una originaria appropriazione indebita dei beni comuni naturali e sia perché vengono generate per i propri interessi da chi gestisce i poteri economici, da un sistema economico finalizzato al profitto e non alle persone. A ciò si aggiunge poi che i primi ad essere colpiti dalla devastazione ambientale sono sempre gli ultimi, i ceti meno abbienti delle società industriali del Nord e gli abitanti del Sud del mondo, anche perché i vari governanti economici e politici scaricano non soltanto le conseguenze ma anche i costi della crisi ambientale su di essi.
Dentro a questa consapevolezza sulla natura di classe della questione ambientale viene a cadere anche la vecchia (ma ancora presente) contrapposizione tra lavoro ed ambiente laddove si individua il sistema economico capitalistico come il responsabile delle loro rispettive devastazioni ( sfruttamento, disoccupazione, inquinamento, biocidio). Ambiente e Lavoro confliggono nell’attuale modello di sviluppo, nei modi di produzione capitalistica in cui l’organizzazione, gli strumenti ed i prodotti della produzione (tecnologie, macchinari per la produzione) sono modellati in base al profitto e non alle esigenze delle persone, alla salvaguardia dell’ambiente.
Potere al Popolo aspira a un sistema economico socialmente ed ambientalmente sostenibile nonché basato sulle persone e non sul profitto, in cui l’economia lineare dei combustibili fossili e dell’estrattivismo venga soppiantata dall’economia circolare delle fonti rinnovabili e del riciclo della materia, un sistema economico cioè alternativo a quello attuale nella consapevolezza che all’interno del sistema capitalistico, dominato dalle leggi del profitto e dei mercati, non c’è il rispetto dei diritti dell’uomo e della natura e persino il futuro del nostro pianeta viene compromesso.
A tal fine occorre lottare oggi e domani per i diritti sociali e per il clima, contro lo sfruttamento e l’inquinamento ambientale che ci impoverisce e ci ammala ogni giorno di più soprattutto nelle aree di forte disagio sociale ed ambientale, come Napoli Est, dove la povertà sociale si accompagna ad un inquinamento diffuso (anidride carbonica, ossidi di carbonio, benzene, materiali tossici e polveri supersottili prodotti dagli scarichi/depositi di carburanti fossili, dalla centrale elettrica, dalle aree inquinate delle ex-raffinerie, della ex-manifattura tabacchi, dei fondali marini e dello scarico/carico di container).
Occorre però sostanziare le nostre rivendicazioni con proposte alternative sostenibili (socialmente, ambientalmente ed economicamente) e con i relativi percorsi mobilitativi che puntano alla riqualificazione sociale ed ambientale del territorio.
La Transizione Ecologica e Sociale dell’Economia e cioè la riconversione dell’agricoltura, delle imprese, degli impianti, dell’energia, della mobilità, dell’architettura delle città, etc. è il percorso da perseguire per fermare l’impoverimento sociale ed il cambiamento climatico, creare lavori e produzioni eco-socio-sostenibili, migliorare il mondo lavorativo e l’ambiente, unificare le spinte e le lotte per il lavoro e per l’ambiente. Ci sta insomma tanto da fare nel Paese ed in particolare in una area fortemente colpita da degrado socio-ambientale e da crisi occupazionale come quella di Napoli Est. Ed allora necessita unificare le lotte per l’ambiente e per il lavoro attraverso l’obiettivo condiviso e convergente della Transizione Ecologica e Sociale
Bisogna allora individuare una strategia atta a contrastare insieme le diseguaglianze sociali e le devastazioni ambientali e quindi sia ad opporsi a quelle misure del Governo, della Regione Campania e del Comune di Napoli che causano danni alle popolazioni, all’ambiente ed alla salute dei territori sia a mobilitarsi per scelte politiche ed economiche coerenti con la Transizione Ecologica e Sociale.
Il dramma di Napoli Est dall’esplosione del deposito Agip del 1985 alle bombe ecologiche di oggi, tra bonifiche mai realizzate, patologie tumorali conseguenti e nuovi progetti socio-economici (ZES) ed energetici (deposito GNL)
Il disastro ambientale di Napoli Est iniziò il 21 dicembre 1985 con l’esplosione di 25 dei 41 serbatoi costieri dell’Agip che causò 5 morti, 165 feriti, 2594 senzatetto, 100 miliardi delle vecchie lire di danni, e conseguenze sulla salute delle persone difficili da stimare, causate dalle colonne di fumo che per sei giorni continuarono a bruciare prima che le fiamme venissero domate definitivamente. L’inquinamento che derivò sia da quella esplosione che dalla presenza delle raffinerie (dismesse solo nel 1983), del Terminal Petroli e dei depositi ancora attivi di idrocarburi, oli combustibili e GPL (allocati nell’area costiera prospiciente la darsena di Levante), del “depuratore dello scandalo” che per oltre 60 anni ha riversato nelle acque di San Giovanni buona parte dei liquami provenienti da Napoli e della centrale elettrica di Vigliena ad oli combustibili (poi, rilevata dalla Tirreno Power, riconvertita a biogas ed entrata in funzione nel 2008) fu tale che il Parlamento già nel 1998, con l’entrata in vigore della legge 426, individuava l’intera area orientale di Napoli come zona
«ad alto rischio ambientale» e quindi come Sito d’Interesse Nazionale (SIN), tra i più inquinati d’Italia. In quegli stessi anni (1996) il Consiglio Comunale di Napoli prepara e vara una variante del Piano Regolatore per l’area orientale che prevedeva l’eliminazione del Terminal Petroli, la dislocazione dei depositi di combustibili, la chiusura della centrale elettrica ad oli di Vigliena e quindi il recupero del rapporto tra la popolazione ed il mare e la realizzazione di
attrezzature ed infrastrutture per il turismo ed il tempo libero, per il settore della formazione
universitaria, etc. al fine di sostenere la riqualificazione
della zona orientale. La variante del Piano Regolatore prevedeva anche la
bonifica di oltre 100 mila metri quadrati occupati ed inquinati per decenni dalla centrale
elettrica ed in cui è situato il Forte di Vigliena,
un monumento nazionale e teatro di uno degli episodi più noti e significativi della Repubblica
napoletana del 1799.
Ma dal 2000 in poi Istituzioni Pubbliche ed Aziende Private smantellano nei fatti il piano di riqualificazione di Napoli Est: il Comune di Napoli autorizza la Interpower
(oggi Tirreno Power), a costruire a Vigliena, al posto della vecchia centrale elettrica ad oli, una nuova centrale
a turbogas eludendo la procedura di VIA e quella per la bonifica dei suoli; Regione Campania, Comune di
Napoli e Kuwait decidono la permanenza degli impianti petroliferi (terminal e depositi) per almeno altri
venti anni; la Kuwait smaltisce in maniera illecita 42mila metri cubi di acque oleose (per un risparmio di 240 milioni di euro sequestrati dalla magistratura) che inquinano ulteriormente i terreni e le falde acquifere del territorio ; Regione Campania, Comune di Napoli, Autorità Portuale,
Capitaneria di Porto, Università Federico II, Ministero dei trasporti,
Ministero dei lavori pubblici, al fine di movimentare migliaia di container nel porto di Napoli, attraverso un accordo di programma decidono di realizzare il nuovo Terminal di Levante che viene edificato, nonostante il parere negativo (per mancanza nel progetto del Rapporto Ambientale) del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, attraverso una cassa di colmata in cui verranno immessi i sedimenti altamente inquinati dragati dallo stesso Porto di Napoli.
Ad oggi poi sul piano del trasporto-depositi di carburanti fossili la situazione non è certo migliorata. A Vigliena (Area orientale di Napoli) si trova il Terminal Petroli del Porto di Napoli. La società Kuwait Petroleum Spa (Kuwait) gestisce l’area destinata al traffico dei prodotti petroliferi (benzine, jet fuel, gasoli, oli combustibili). Solo per la società Kuwait si movimentano su quest’area ogni anno oltre 3 milioni di tonnellate di carburanti destinati allo approvvi-gionamento energetico del Sud e di parte del Centro Italia. L’attività del terminal si sviluppa su due segmenti: il principale riguarda il trasferimento dalle navi cisterna, attraverso un oleodotto lungo circa 4 km, dei prodotti petroliferi e gas liquido alle aree di Deposito; un secondo, il trasferimento di olio combustibile e gasolio agli scali di Napoli e Salerno per il rifornimento di traghetti, aliscafi, navi da crociera e portacontainer.
All’interno della linea di costa, in via Nuova delle Brecce, si trova il Deposito Fiscale della Kuwait: circa 1 milione di m2 di area tra gli edifici di direzione e di controllo, i 43 serbatoi per lo stoccaggio della “merce” e le 26 aree di carico delle autobotti per la distribuzione. A poca distanza poi, in via Galileo Ferraris, si aggiungono altri 18 serbatoi e 5 aree di carico nel Deposito ex Benit, , sempre della Kuwait e in cui vengono stoccati oli combustibili.Ma a Napoli Est sono presenti anche 4 società: Energas, Petrolchimica partenopea, Italcost e Eni che gestiscono il trasporto e lo stoccaggio di GPL dalle navi cisterna ai Depositi posti a pochi km dalla banchina. Ognuna delle società ha un proprio Deposito. Da qui riforniscono, attraverso autobotti, direttamente i loro clienti: piccoli serbatoi per civili, una serie di reti di utilizzatori, le loro stazioni di servizio (400 sul territorio nazionale. Il 50% del loro prodotto è GPL “combustione” (riscaldamento, gas per cucina, agricoltura) e 50% è GPL “autotrazione” (carburante per auto). Ogni anno da questi Depositi si movimentano circa 850 mila tonnellate di GPL, il 25% del mercato nazionale.
Infine la compagnia di Stato algerina, “Sonatrach”, ha acquistato, nel 2018, alcuni asset della società ”Esso” del Sud Italia, dando vita alla società “Sonatrach Raffinerie Italia” con sede ad Augusta in Sicilia. Nel porto di Napoli, la società possiede un Deposito attraverso cui movimenta prodotti raffinati bianchi, quali benzina, jet fuel e gasolio. Il mercato cui si rivolge è tutto il Sud e Centro Italia.
Insomma Napoli Est si presenta oggi come un insieme accatastato di padiglioni industriali abbandonati, un agglomerato urbano, a ridosso delle raffinerie, densamente popolato ma privo di servizi e di spazi di aggregazione, un litorale ed un mare antistanti gravemente inquinati; la presenza di livelli quattro volte superiori a quello massimo consentito (dati Arpac) del batterio Escherichia coli nelle acque di Vigliena ha ovviamente portato a negare la balneabilità per l’intera costa ed a farla diventare una discarica; i pochi tratti di spiaggia non occupati da insediamenti industriali vecchi e nuovi sono attraversati da canali di scolo, vere fogne a cielo aperto, che inquinano il mare e impuzzolentiscono l’aria. Napoli Est attende una bonifica da oltre 20 anni; ad oggi, però, ci si è fermati alle conferenze di servizio ed al finanziamento di studi di fattibilità ambientali, con la maxi-bonifica che resta un affare incompiuto. Le uniche prospettive concrete sul tappeto sono peggiorative dell’attuale disastrosa situazione:
• la realizzazione di un Impianto di Compostaggio Anaerobico, e quindi inquinante, di 60mila tonnellate l’anno progettato dalla Regione ed avente per stazione appaltante la Città Metropolitana di Napoli
• il completamento del mega porto commerciale che incrementerà le attività del Porto di Napoli del 350% e determinerà un grave impatto (inquinamento acustico, del mare e dell’aria, nuovi spazi per la movimentazione delle merci) lungo un considerevole tratto di costa che si snoda da via Marina dei Gigli fino allo Sperone
• la eventuale (discussione in corso) approvazione da parte dell’Adsp di un progetto della Edison e della Kuwait per la realizzazione di un nuovo deposito costiero di Gas Naturale Liquido che, qualora fosse approvato, si aggiungerebbe ai tanti depositi già esistenti di carburanti
• il progetto di ristrutturazione (al posto della delocalizzazione) della Darsena Petroli che prevede la costruzione di una piattaforma marina, collegata mediante condotte sottomarine all’oleodotto, per l’attracco di navi cariche di combustibili
• la realizzazione nel porto di Napoli e nell’area industriale logistica di Napoli Est della ZES* (prevista dal Piano di Sviluppo Strategico per le ZES con delibera n. 175/2018 della Regione), su cui già nei giorni scorsi c’è stato un incontro di merito tra il Presidente dell’Adsp ed i segretari dei sindacati confederali
Per invertire il progressivo attuale degrado sociale ed ambientale di Napoli Est occorre un Piano di Riconversione Ecologica e Sociale che avvii da subito la bonifica del sito e la revoca dei progetti insostenibili in essere e che proceda gradualmente ad una possibile riconversione di quelle attività, logistica, impianti non sostenibili ma non sostituibili “tutti e subito”.
L’ala orientale del porto di Napoli per esempio si presenta come uno scalo strategico per la movimentazione, lo stoccaggio e la distribuzione del GPL nell’Italia centro meridionale e in parte anche del Nord Italia e questo certo non aiuta nel richiedere una immediata chiusura o dislocazione dei vari depositi. Così come la Centrale Elettrica di Vigliena non può essere chiusa senza che ci sia qualcos’altro che ne assuma la funzione.
Pertanto occorre proporre e mobilitarsi per un Piano che da subito:
• blocchi la realizzazione del previsto Impianto di Compostaggio Anaerobico per realizzare invece al suo posto un piccolo (10 mila tn/annue) impianto aerobico collocato lontano da abitazioni ed in prossimità della tangenziale
• blocchi la realizzazione di un nuovo deposito costiero di Gas Naturale Liquido proposto da Edison e Kuwait
• blocchi la ristrutturazione della Darsena Petroli e quindi la costruzione di una piattaforma marina
• realizzi una bonifica degli oltre 800 ettari di area inquinata (ex Kuwait – ex manifattura tabacchi) e del litorale con una preventiva individuazione degli inquinanti ed una programmazione degli interventi specifici da effettuare
• destini finanziamenti europei (PNRR) e nazionali ad investimenti pubblici a Napoli Est finalizzati alla ristrutturazione (anche energetica con pannelli fotovoltaici) della ex-Corradini ed all’apertura/sostegno di aziende manifatturiere ad alta tecnologia (prodotti farmaceutici, elettronica delle comunicazioni, ricerca sulla produzione di idrogeno verde e di tecnologie ambientali per l’industria, etc.)
• attui un contrasto alla disoccupazione con l’applicazione della clausola sociale per tutti gli appalti pubblici; incentivi la creazione di cooperative sociali per una valorizzazione del territorio, una qualificazione dei siti di interesse storico, il ripristino della spiaggia pubblica ed una fruizione ecologica e strutturata della fascia costiera; finanzi un piano di riqualificazione degli alloggi popolari di edilizia pubblica con una sanatoria per gli occupanti che vogliono essere legalizzati
• finanzi interventi straordinari per la lotta alla dispersione scolastica ed all’abbandono giovanile con l’apertura di asili nido, l’estensione del tempo pieno nell’obbligo, il sostegno e l’apertura di laboratori didattici, spazi di aggregazione giovanile, etc.
Ma ovviamente la Transizione socio-ecologica richiede ben altro e le proposte per attuarla gradualmente devono ovviamente guardare ad un’area di intervento più ampia di un quartiere. Mi riferisco in particolare alla Transizione Energetica che occupa un ruolo preminente per la difesa dell’ambiente in generale e sicuramente per Napoli Est. Per questa transizione occorre avviare un percorso in grado di sostituire ai combustibili fossili ed al gas naturale le fonti fotovoltaiche ed eoliche per la produzione di energia elettrica e per quella dell’idrogeno** “verde” attraverso l’elettrolisi dell’acqua.
Se lungo le dorsali dei gasdotti che portano il gas naturale da Napoli Est a tutto il Sud Italia ed a parte anche del Centro e del Nord Italia si realizzano, a partire da San Giovanni, piccoli e diffusi Impianti PEM** (Elettrolisi con Membrana a scambio Protonico) alimentati dall’energia elettrica prodotta dai parchi eolici e solari (esistenti e/o da realizzare) o prelevati dalla rete, si può gradualmente immettere nei gasdotti e trasportare dalle fonti (impianti PEM) alle destinazioni (autotrasporto, riscaldamento ed industria) l’idrogeno verde al posto del gas naturale. Così come la Centrale Elettrica di Vigliena a gas naturale potrà essere facilmente convertita in una Centrale ad Idrogeno Verde (affiancata da un impianto PEM) quando parallelamente si svilupperà sul territorio una installazione adeguata e diffusa di piccoli impianti di energia rinnovabile. Questi ultimi per esempio potrebbero essere installati sia sui tetti degli edifici comunali e dei tanti capannoni esistenti (senza causare cioè altro consumo di suolo) che soprattutto sui padiglioni della Ex-Corradini che va ristrutturata sia in quanto megastruttura di archeologia industriale sia per un recupero del rapporto tra la popolazione ed il mare. Il recupero della Ex-Corradini rientrerebbe poi nella realizzazione di
attrezzature ed infrastrutture per il turismo ed il tempo libero, per il settore della formazione
universitaria, etc. al fine di sostenere la riqualificazione
di un’area ad elevata potenzialità turistica. E’ inutile evidenziare come il suddetto piano di riconversione, insieme alla riqualificazione del quartiere, comporterebbe migliaia di nuovi posti di lavoro e quindi una ripresa economica e sociale del territorio.
La ZES, o Zona Economica Speciale, è un’area geografica individuata e definita da organi istituzionali, al cui interno sono concesse agevolazioni fiscali, vengono ridotti i salari previsti dalla contrattazione nazionale, viene garantita una semplificazione della burocrazia e una riduzione dei controlli.
Le Zone Economiche Speciali si inseriscono in un quadro più ampio, di dimensioni europee e globali, che è quello della riorganizzazione del modello economico in corso già da svariati anni, in questa lunga fase di crisi sistemica. Ancora una volta le grandi infrastrutture sono al centro del nuovo piano per rilanciare l’economia.
A differenza del passato, quando le grandi opere non sempre erano collegate tra loro, questa volta si è di fronte a piani omnicomprensivi orientati a consentire una rimodulazione della produzione, del trasporto, della logistica orientati alla “produzione e consegna just in time”, sul modello di Amazon Prime, tanto per capirci. Questo non per generare maggiore redistribuzione o benessere a livello globale, ma per permettere una maggiore estrazione di ricchezza a vantaggio di una elite sempre più ristretta. Il rallentamento del commercio globale, nella lettura di chi propone questi progetti, ha bisogno di nuovi stimoli. L’obiettivo è l’ottimizzazione di tempo e spazio dell’asse produzione-consumo, creando pochi hub di commercio globale, spesso all’interno di mega-corridoi costruiti ad hoc. In questo senso i megacorridoi infrastrutturali sono una combinazione di espansione di porti, sviluppo di ferrovie per il trasporto merci, costruzione di navi sempre più grandi e veloci, istituzione di ZES e di “smart cities” in zone strategiche del pianeta, unici luoghi in cui dei servizi (a pagamento) verranno offerti per i cittadini “ricchi” e tecnologici del futuro.
Le ZES dei Porti di Napoli, Salerno e Castellammare si inseriscono nel naturale strumento di connessione con il sistema logistico costituito dal Megacorridoio East-Med che fa parte della rete TEN-T che collega i porti della Germania settentrionale (Amburgo e Rostock), i porti del Danubio (Vienna), i porti del Mediterraneo (Gioia Tauro, Napoli, Taranto) ed i porti del Mar Nero.
Oggi secondo l’ultimo rapporto dell’IEA (International Energy Association) il consumo globale di questo combustibile è di circa 70 milioni di tonnellate l’anno, per oltre il 90% ricavato attraverso il reforming di gas naturale o la gassificazione del carbone, con elevata produzione quindi di emissioni inquinanti e clima-lteranti: è il cosiddetto “idrogeno grigio”. Con l’adozione poi di sistemi di sequestro dell’anidride carbonica in coda al reforming si potrebbe abbattere il suo impatto ambientale, ottenendo quello che viene definito “idrogeno blu”. Ma anche in questo caso si pone un problema di sostenibilità, sia economica, in quanto i costi della cattura e sequestro della CO2 sono ancora proibitivi, sia ambientale perché il ciclo di produzione non è in grado di sequestrare tutta la CO2 prodotta ed è comunque soggetto, lungo la sua filiera, a rilasci in atmosfera di metano, un altro gas climalterante.
L’unico idrogeno sostenibile al 100% è pertanto quello definito “verde”, che viene ottenuto mediante l’elettrolisi dell’acqua in speciali celle elettrochimiche alimentate da elettricità da fonti rinnovabili.
L’idrogeno verde può essere utilizzato come un tradizionale combu-stibile gassoso per combustione diretta. L’idrogeno infatti è un ottimo combustibile e brucia combinandosi con l’ossigeno. Il prodotto di questa combustione è acqua, in forma di vapore acqueo. Questa metodologia di sfruttamento, permette di utilizzare l’idrogeno in centrali termoelet-triche praticamente identiche a quelle alimentate a metano, siano esse tradizionali centrali termoelettriche o a turbogas o a ciclo combinato.
In questa metodologia di utilizzo l’idrogeno potrebbe sostituire quasi tutte le applicazioni del metano o del gpl che implicano combustione, anche non legate alla produzione elettrica, dall’autotrazione alla produzione di calore per riscaldamento, con il vantaggio delle emissioni nulle di CO2. La combustione diretta rappresenta un tipo di sfruttamento facilmente implementabile, basato su tecnologie già ampiamente utilizzate e collaudate e che vanno solo ottimizzare per il nuovo combustibile.
Gli impianti che producono idrogeno dall’acqua tramite elettrolisi si chiamano PEM (Elettrolisi con Membrana a scambio Protonico) ed essi per funzionare utilizzano l’energia oppure il surplus energetico prodotti dai parchi eolici e solari (la natura intermittente dell’energia solare ed eolica fa sì che ci siano sempre dei periodi in cui tali fonti riescono a produrre più elettricità di quanta non sia necessaria ai consumatori).