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La pandemia e la filiera agroalimentare (parte 2): Chi ci guadagna?

Come in tutte le situazioni di emergenza, anche nel corso di questa pandemia salta fuori che c’è chi prova ad approfittarsene per trarne un guadagno personale. È così che in queste settimane abbiamo letto sui giornali italiani di furti di materiale sanitario dagli ospedali a fini di rivendita privata, di truffe milionarie per aggiudicarsi i bandi per la fornitura di milioni di mascherine, e perfino di tentativi di rivendite di partite di gel igienizzanti scadute negli anni ’80.

Tuttavia non serve spingersi verso questi casi limite – tanto estremi da essere sanzionati dalla legge – per trovare esempi di come la pandemia stia giovando alle tasche di alcuni soggetti. Pensiamo ai significativi incrementi del loro valore di borsa che stanno vivendo Amazon, Netflix e altri grandi gruppi legati ad esempio alla sicurezza informatica e al cloud computing, vale a dire a quelle infrastrutture che rendono possibile il lavoro da casa a milioni di lavoratrici e lavoratori – incrementi dunque direttamente legati al confinamento che più o meno tutto il mondo sta sperimentando, e senza la necessità di dover infrangere alcuna legge…è il mercato, bellezza.

Se poi guardiamo più da vicino al nostro paese, ci accorgiamo che qualcosa di simile sta accadendo anche in un preciso settore di quella che viene chiamata economia reale: la distribuzione di beni alimentari, vale a dire la vendita al dettaglio, il punto terminale di una filiera agroalimentare che comincia molto lontano, nei campi lavorati dai braccianti.

Le rilevazioni effettuate settimanalmente dagli istituti di ricerca ci mostrano un incremento costante delle vendite di prodotti alimentari a partire da fine febbraio. Però attenzione, perché parliamo di un incremento che non riguarda tutti i canali di vendita indiscriminatamente, ma uno in particolare: la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), ovvero supermercati, ipermercati, discount e simili. Il motivo è chiaro: nel momento in cui la maggioranza della popolazione è costretta a consumare ogni pasto in casa, siamo costretti anche a comprare più cibo rispetto al solito, e per farlo preferiamo recarci in un supermercato, dove sappiamo di poter trovare una maggiore disponibilità di prodotti e prezzi più convenienti rispetto ad altre rivendite al dettaglio.

Tuttavia questo dato non dovrebbe stupirci, dato che il confinamento non fa che accentuare una tendenza in corso da tempo, inserendosi in un quadro che vede la quota di mercato occupata dalla GDO in crescita costante da decenni. Nel 2016 gli oltre 26.000 supermercati presenti in Italia vendevano il 73,5% di tutto il cibo e le bevande consumate nel paese (come rilevava nel 2018 l’Oxfam nel rapporto “Al giusto prezzo”). A questa concentrazione delle vendite ne corrisponde una ulteriore: dentro la stessa GDO, infatti, assistiamo all’imporsi di pochi grandi marchi che concentrano quote di mercato sempre maggiori (nel 2017 le prime cinque aziende controllavano più del 50% del mercato). Ciò significa che per approvvigionarci di cibo dipendiamo sempre di più da un numero ristretto di imprese, che di conseguenza detengono un potere sempre maggiore.

Cosa è successo quindi con il coronavirus? Nelle quattro settimane dal 17 febbraio al 15 marzo – dunque dalle prime misure di lockdown nei confronti di pochi comuni in Lombardia e Veneto alla sua estensione a tutto il territorio nazionale – le vendite nei supermercati sono aumentate del 23% rispetto allo stesso periodo del 2019. Nelle stesse settimane aumenti ancora maggiori sono stati registrati per la spesa online: il +57% della prima diventa addirittura un +97 dell’ultima (tutti i dati vengono dal rapporto ISMEA pubblicato a fine marzo 2020). Tra il 9 e il 15 marzo la variazione tendenziale è addirittura del +16,4%, e anche se le ultime rilevazioni ci parlano di una “normalizzazione” (aumenti tra il 2 e il 3%) il processo va avanti.

Tutti questi numeri significano una cosa molto semplice: che nelle stesse settimane in cui una larga parte dell’economia lamenta la paralisi o la crisi, milioni di euro stanno finendo nelle casse della GDO. Le nostre spese sono aumentate per forza di cose, certo, ma allo stesso tempo non possiamo non notare che nei supermercati sono state di fatto sospese tutte le promozioni che prima contribuivano ad alleggerire il costo del carrello, e che nel mese di marzo l’aumento dei prezzi di frutta e verdura è stato di quaranta volte superiore rispetto all’aumento del tasso di inflazione – aumenti non giustificabili da riduzioni della fornitura o da eventi eccezionali. Ma di fronte a questo fiume di soldi, quello che ci dovremmo chiedere è: dove vanno a finire? Come dicevamo prima, la vendita nei supermercati rappresenta il punto terminale della filiera agroalimentare: una filiera che, considerata nel suo insieme, rappresenta il 1° settore economico del paese, con un fatturato di 538,2 miliardi di euro, 3,6 milioni di occupati e 2,1 milioni di imprese (dati dal rapporto 2019 della Fondazione Ambrosetti; per intenderci, il fatturato sarebbe oltre quattro volte superiore a quello del comparto automotive).

Ma se è vero che il fatturato della GDO è in costante aumento e che i prezzi degli alimentari in Italia sono del 12% più alti della media europea (nonostante un basso potere d’acquisto delle famiglie), il problema è però che non tutti i soggetti di questa lunga e composita filiera partecipano in egual misura alla “festa”. Chi produce direttamente i beni alimentari che poi vengono trasformati e distribuiti da altri (cioè il comparto agricoltura, silvicoltura e pesca), ha visto i propri occupati diminuire del 3,3% e il numero di imprese del 7,6% nel periodo 2011/2017 (ricerca Fondazione Ambrosetti).

L’anello debole è, in particolare, rappresentato dal settore agricolo, costituito in massima parte da imprese a conduzione familiare e con meno potere contrattuale: basti pensare che il 47% delle imprese agricole (cioè quasi la metà) si deve spartire poco meno dell’8% del fatturato del comparto. In molti casi, tale situazione è dovuta al fatto che la GDO impone delle pratiche commerciali con cui riesce a spuntare sconti e promozioni, che poi si ripercuotono negativamente a monte sulla filiera: un’inchiesta dell’Autorità garante della concorrenza di mercato (AGCIM) del 2013 ha rilevato che nel 67% dei casi il distributore propone e ottiene modifiche delle condizioni contrattuali già pattuito, e che il 74% dei fornitori intervistati percepiva queste proposte come vincolanti (il rischio è di essere tolti dalla lista dei fornitori). E dal 2013 ad oggi la situazione non è certo mutata, anzi: a partire da fine febbraio e per tutto il mese di marzo, Eurospin – principale catena di discount in Italia – ha lanciato una serie di aste online al ribasso per aggiudicarsi beni alimentari al costo minore possibile e rivenderli a colpo sicuro alle milioni di persone in coda fuori dai supermercati, e tanto peggio per i fornitori (“Le aste dei discount nelle settimane della pandemia”, pubblicato il 30 marzo su Internazionale).

Conclusione: tutti i soldi che stiamo riversando nelle casse dei punti vendita della GDO rischiano di andare a consolidare la posizione dominante che questi soggetti detengono dentro la filiera agroalimentare, e di conseguenza lo schiacciamento dei salari e dei diritti dei lavoratori su cui questa posizione è stata costruita.

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