Per gli operai GKN di Campi Bisenzio le cose vanno veloci, c’è poco spazio per le riflessioni. Da quanto la proprietà è fuggita c’è da fare tanto, tantissimo. Ci sono i turni per tenere una fabbrica all’avanguardia in sicurezza; c’è da organizzare ordinatamente la vita, dalla pulizia, alle guardie, alla preparazione del cibo; c’è poi l’assemblea permanente che si riunisce ogni fine turno, perché qui si decide tutti e tutte insieme; c’è da decidere come portare avanti la vertenza con l’azienda, cosa dire ai giornalisti, organizzare manifestazioni da 40mila partecipanti.
Già questo è un lavoro immenso.
Ma non basta, perché una vertenza contro un fondo di investimento che vuole portarsi via lavoro e macchinari è necessariamente una vertenza politica, perché solo il Governo può impedire d’urgenza che ciò accada e solo il Parlamento può cambiare regole vecchie di trent’anni, che oggi lasciano carta bianca alle multinazionali. I lavoratori lo sanno, non si fidano del Governo Draghi, che non è certo qui per loro. Per cui mentre tengono lo stabilimento, gli operai hanno fatto lo sforzo ulteriore di mettere su carta una legge giusta, scritta non “sulle” loro teste, ma “con” le loro teste, una legge a cui abbiamo avuto l’onore di contribuire grazie al team legale del Telefono Rosso.
Con questo scritto entriamo nel merito di una questione correttamente affrontata dalla legge operaia: quella del rischio di smantellamento del tessuto produttivo in relazione alla transizione ecologica, o meglio, del perché il destino di quella fabbrica e più in generale del comparto industriale italiano riguarda tutti e tutte noi.
Non è solo una questione di licenziamenti
Una azienda che delocalizza per sfruttare meglio altrove, comporta prima di tutto un impoverimento del potere contrattuale dei lavoratori nei confronti dei titolari d’impresa. Permettendo alle multinazionali di trasferirsi in paesi dove i salari sono più bassi, i nostri governi e l’Unione Europea hanno dato il via a una rincorsa al ribasso delle condizioni di lavoro. In un mondo in cui i capitali possono muoversi liberamente mentre i diritti dei lavoratori sono rinchiusi entro i confini nazionali, ciò può innescare un peggioramento potenzialmente infinito delle condizioni di lavoro, in tutti i paesi. Questo è certamente uno degli aspetti centrali di questa vicenda che abbiamo affrontato altrove, quando abbiamo parlato dei limiti della bozza Orlando Todde e della francese Loi Florange.
C’è però un secondo aspetto altrettanto centrale che non riguarda direttamente i rapporti di forza tra capitale e lavoratori. Una fabbrica che chiude comporta infatti una perdita di competenze, di hardware, cioè di macchinari e tecnologie, spesso all’avanguardia, e di una comunità umana, quella composta dai lavoratori e dalle lavoratrici, potenzialmente vitali per più grande sfida che abbiamo davanti, quella della svolta ecologica.
L’industria è un settore centrale per la trasformazione ecologica
Prendiamo il caso della GKN, della Vitesco, della Timken o della Giannetti Ruote. Si tratta di fabbriche di componentistica auto perfettamente funzionanti, che i titolari hanno deciso di chiudere o sono in fase di forte ridimensionamento (è il caso della Vitesco). Si collocano dunque all’interno dell’automotive, ossia di un settore pienamente investito dalla svolta ecologica. Si calcola infatti che in Italia il settore dei trasporti (e in particolare del trasporto su strada), sia da solo responsabile del 25% delle emissioni totali di CO2. È chiaro dunque che occorre intervenire direttamente sulla produzione dei mezzi di trasporto potremo sperare di ridurre le emissioni climalteranti. Perché la transizione ecologica non resti solo un elenco di desideri, ma sia effettiva, occorre infatti dotarsi della possibilità concreta di decidere cosa produrre, come farlo, e come distribuirlo. È evidente che la perdita di tecnologie e competenze può diventare un ostacolo difficilmente sormontabile se si permette la fuga di tecnologie e la dispersione di comunità operaie in possesso di una grande competenza collettiva. Anche perché non possiamo lasciare che siano le multinazionali dell’auto a guidare la “conversione” dell’automotive, anzi, è più che mai necessario che siamo noi – lavoratori, lavoratrici, e più in generale chi abita il territorio – a indirizzare la trasformazione ecologica. Vediamo perché.
Limiti e pericoli della “conversione ecologica” guidata dalle multinazionali
Limiti ambientali
La strategia di conversione dei grandi marchi si basa principalmente sulla sostituzione dell’intero parco auto a combustione interna con l’elettrico. In Unione Europea, le emissioni di CO2 delle autovetture dovranno diminuire, rispetto ai valori di quest’anno, del 50% entro il 2030 e del 100% entro il 2035. Apparentemente, ciò dovrebbe portare all’eliminazione totale delle emissioni provenienti dalle auto. In realtà, il regolamento europeo si riferisce solo alle emissioni finali delle autovetture, ossia a quello che esce dal tubo di scappamento. Non vengono considerate né le emissioni prodotte durante la costruzione delle auto, né tantomeno le emissioni prodotte per garantire la fornitura di energia elettrica. Ciò comporta un primo problema: se la produzione di energia elettrica viene portata avanti in centrali termoelettriche che bruciano idrocarburi, è evidente che il maggior consumo di elettricità dovuto alla circolazione di auto elettriche rischia solo di spostare la produzione di CO2, non di eliminarla. Ad oggi, il fuel mix (ossia la miscela energetica), nel nostro paese è sbilanciata a favore dei combustibili fossili, che sono dunque alla base della maggior parte dell’energia elettrica prodotta, il che ha effetti paradossali. Infatti ogni kWh consumato, usando direttamente il gas come combustibile si producono 0,18 kg di CO2, usando l’elettricità se ne producono 0,35 (!). Occorre dunque operare una transizione nella produzione energetica in particolare verso le rinnovabili, perché l’elettrico possa essere considerata come una soluzione reale. Anche dove la produzione di energia elettrica avviene da fonti completamente rinnovabili, le auto elettriche producono inquinamento ed emissioni climalteranti anche nella fase di estrazione delle materie prime necessarie alla produzione di batterie, quanto nella fase di smaltimento di queste ultime. Oggi l’estrazione di litio, cobalto, nikel e terre rare, necessari alla produzione delle batterie elettriche, è altamente impattante per l’ambiente, come ha ricostruito qualche tempo fa un’inchiesta di Presa Diretta. Mentre siamo ancora molto indietro nella capacità di recuperare i minerali contenuti nelle batterie esauste: in Europa solo il 5% del litio viene recuperato dalle batterie a fine vita, mentre il resto viene incenerito o gettato nelle discariche.
Anche se la tecnologia sta evolvendo rapidamente, ad oggi il minor livello di emissioni prodotte dalla singola auto ibrida o elettrica viene ampiamente compensato dalla crescita dei trasporti a livello mondiale. Una crescita trainata dalla globalizzazione, dal just-in-time e da una pianificazione urbanistica fondata sul traffico su gomma e sull’auto privata. Lo stesso CEO di GKN, Liam Butterworth, stima che nel 2030 saranno fabbricate 102 milioni di auto contro gli 89 milioni del 2019. Se vogliamo affrontare la crisi climatica non possiamo dunque basarci sulla transizione del parco auto dall’endotermico all’elettrico. Solo una riduzione consistente del traffico privato e su gomma può consentirci di rendere il trasporto mondiale sostenibile. Per farlo occorre ripensare le filiere produttive e commerciali, e soprattutto porre fine alla centralità del mezzo privato come mezzo di locomozione, favorendo i mezzi pubblici e collettivi, a partire dai mezzi su rotaia, le bici elettriche o il car-sharing. Questa soluzione chiaramente non piace ai grandi trust dell’automotive, perché implica la negazione dell’assunto su cui si basano i loro profitti: produrre sempre più auto possibili, da sostituire nel più breve tempo possibile, whatevere it takes. Un assunto che rischia di rendere una vera conversione ecologica impossibile da realizzarsi.
Pericoli sociali
Oltre ai limiti ambientali di una conversione guidata dalle corporation, esistono pericoli sociali che sono già in atto. La conversione infatti, a livello della singola azienda, richiede una ristrutturazione della produzione. Questa ristrutturazione vuole essere condotta dall’azienda al minor costo possibile e anzi, possibilmente risparmiando e guadagnando nuove fette di mercato, espellendo cioè ingenti quantità di manodopera e delocalizzando la produzione in paesi con basso costo del lavoro e fiscalmente vantaggiosi. In Toscana fa scuola il caso della Vitesco di Pisa, un sito produttivo da di 950 dipendenti, che produce iniettori per motori diesel e fa parte del gruppo multinazionale Continental, con sede in Germania. Nel 2019 Continental annunciava la volontà di mettere fine alla produzione di iniettori benzina e diesel con la conseguente perdita di tutti i posti di lavoro dello stabilimento di Pisa. I sindacati qui si attivavano immediatamente con uno sciopero di 5 giorni, volto a spingere l’azienda a riconvertire il sito pisano alla componentistica elettrica. Secondo il protocollo siglato tra Regione e multinazionale, parte dei costi di questa transizione sarebbero stati coperti dalla Regione Toscana, che già in passato aveva conferito oltre 15 milioni di euro alla Vitesco. Nonostante la promessa di finanziamenti regionali e la formazione di ben 100 lavoratori in vista del passaggio all’elettrico, la dirigenza aziendale ha messo sul piatto il minor costo di produzione nei paesi low cost dell’Est Europeo (caratterizzati da bassi salari), chiedendo ulteriori aiuti pubblici pur di restare in Toscana, ma senza dare a tutt’oggi garanzie per il futuro dello stabilimento pisano, ed anzi lasciando a casa 139 lavoratori interinali in staff leasing, in seguito al calo produttivo imposto dalla crisi dei semiconduttori.
Anche nel caso di chiusure improvvise come quella di GKN o della Gianetti Ruote, le aziende hanno addotto come motivazione, tra le altre, quella del costo della transizione ecologica. Lo hanno fatto nonostante sia evidente a chiunque che le auto di nuova generazione, pur non avendo bisogno di iniettori diesel, continueranno ad aver bisogno dei semiassi prodotti da GKN o delle ruote prodotte dalla Gianetti. E’ evidente dunque che le multinazionali, dove possibile, puntino ad utilizzare la transizione all’elettrico come un’occasione per scaricare i costi sugli operai, licenziandoli, delocalizzando dove i salari sono da fame, mettendo così in concorrenza operai di paesi diversi, con lo scopo di aumentare ritmi e tempi di lavoro.
Il caso italiano
In Italia i limiti ambientali e i costi sociali della transizione all’elettrico si pongono come problema ancora più urgente. L’industria automotive nel nostro paese vive una fase differente rispetto a quella di altri paesi a capitalismo avanzato come gli USA o la Germania, leader nel settore dell’industria automobilistica. Là i grandi marchi stanno sfidandosi a colpi di innovazione tecnologica, con il sostegno totale dei Governi, per sottrarsi a vicenda fette del nascente mercato mondiale dell’auto elettrica e digitalizzata. I sindacati tedeschi e statunitensi sostengono acriticamente il passaggio all’auto elettrica come (falsa) soluzione alla crisi climatica, perché sperano che i “loro” capitalisti vincano la sfida tecnologica consentendo così di mantenere alti livelli occupazionali nel loro paese, a detrimento degli altri, rimandando così nel tempo lo spettro della crisi e della disoccupazione di massa. In Italia questo tipo di “neo-corporativismo” – ossia di adesione operaia all’interesse aziendale – non ha nessuna base per svilupparsi per il semplice motivo che noi non abbiamo nessuna azienda leader nel settore automobilistico. O meglio, abbiamo stabilimenti, know-how, linee produttive funzionanti, un discreto arcipelago di aziende che forniscono componenti, manca la volontà di FIAT, (oggi Stellantis), di utilizzare queste forze produttive. Gli osservatori attenti sanno ormai da tempo che i dirigenti di quella che chiameremo FIAT hanno deciso di delocalizzare tutta la produzione fuori dall’Italia. La pandemia ha solo accelerato questo passaggio. Gli ultimi segnali provenienti dall’azienda sono eloquenti: la fusione con la francese PSA – ma dovremmo dire piuttosto l’acquisizione da parte della francese PSA – prevede un tacito accordo perchè la subfornitura della componentistica venga nei fatti indirizzata dalla francese Faurencia, il che porta all’accelerazione della dismissione dell’indotto italiano, la cui vita è legata alla presenza di un’industria automobilistica di prossimità. Lo smantellamento del tessuto produttivo legato all’automotive renderebbe impossibile nel nostro paese possedere un effettivo potere di indirizzamento della transizione ecologica nella mobilità, perché nel giro di pochi anni in Italia non ci sarà più nessuno in grado di produrre né auto elettriche, né tantomeno i treni e gli autobus, ossia quello di cui abbiamo realmente bisogno.
L’unica conversione possibile: quella per mano pubblica, controllata dal basso e senza sprechi
Nel nostro paese dunque affidarsi alla volontà di Stellantis non conviene a nessuno. La sola soluzione possibile per impedire che il patrimonio industriale vada perso è che sia il pubblico a prendere in mano la situazione. Come? È molto semplice. Invece di continuare a riempire di soldi l’industria privata con la vana speranza che questo si traduca in continuità produttiva e occupazione, occorre che lo Stato obblighi le aziende non in crisi che voglio andare via e licenziare, a lasciare stabilimento e macchinari sul territorio, cedendo allo Stato stesso il ramo d’azienda che si intende “tagliare”. E’ questo quello che prevede la legge antidelocalizzazioni scritta “con” le teste degli operai GKN. La crisi dell’automotive si tradurrebbe così in un’occasione per un rinnovato intervento pubblico nell’economia, non a fini di consenso elettorale, come era stato negli anni Settanta e Ottanta della storia italiana, ma controllato dal basso, ossia dai soggetti che hanno interesse diretto a veder funzionare tale opzione. La costruzione di un polo della produzione trasportistico nazionale a guida pubblica è una possibilità reale. Pensiamo solo al fatto che alcune importanti fabbriche come l’ex Irisbus o la Menarini Bus (oggi Industria Italiana Autobus) sono formalmente già in mano pubblica, ossia sostenute con capitale di Invitalia, pur non essendo ancora inserite all’interno di una pianificazione industriale, bensì solo di salvataggio finanziario da parte del pubblico nell’ottica della riprivatizzazione. Assorbire fabbriche abbandonate dai loro vecchi padroni dentro tale polo non avrebbe solo l’effetto, certamente positivo, di garantire continuità occupazionale, ma anche quella di dotare il nostro paese di una capacità di intervento nella trasformazione ecologica, che vada nel senso di produrre non solo auto per il mercato privato (a benzina, diesel o eletteriche che siano), ma soprattutto autobus, treni, tram, biciclette o auto per il car-sharing metropolitano.
Non si tratta di utopia perché già oggi noi abbiamo la possibilità tecnologica di fare questo, mettendo a disposizione non solo i macchinari, ma anche le comunità lavorative dei lavoratori e delle lavoratrici dell’automotive. A differenza di altri settori infatti l’automotive ha una grande capacità di conversione dovuta alle stesse caratteristiche del settore. A partire dagli anni Ottanta la saturazione del mercato ha indotto i grandi trust a rubare fette di mercato introducendo sempre nuovi modelli di auto e inducendo i consumatori a comprare auto di ultima generazione. Ciò comporta che, con intervalli di tempo sempre più brevi, le linee produttive vadano riconvertite per produrre sempre nuovi modelli. Questa capacità di conversione fa parte dunque delle competenze dei lavoratori dell’automotive, sta a noi usarla per gli scopi giusti: non per comprare auto all’ultimo grido, riducendo le vecchie in rottami, ma per una vera transizione ecologica che metta finalmente al centro una mobilità collettiva, sostenibile e verde, senza perdita di posti di lavoro, ma lavorando meno e lavorando tutti e tutte.
La transizione all’ecologico dunque si può fare. Manca solo la volontà politica di pianificarla da parte dei partiti attualmente al governo e una mobilitazione che coinvolga i lavoratori, le lavoratrici e i movimenti ecologisti di questo paese che la imponga all’ordine del giorno.