[Si fa un gran parlare, in seguito al lockdown, dello Smart Working. Che cos’è? Il “lavoro furbo”, smart, è smart per chi? Di seguito un contributo di riflessione a cura del Tavolo Lavoro di Potere al Popolo!]
Le sorti progressive del lavoro “smart”
Con l’emergenza covid19 il governo ha sollecitato le imprese a utilizzare la modalità lavorativa chiamata “smart working” e normativamente regolamentata dalla legge 81 del 2017.
L’Osservatorio per lo Smart Working della Bocconi ha mostrato che dal 2017 al 2019 si è raggiunto il numero di 570.000 lavoratori “smart” con un incremento del 20% rispetto all’anno precedente (2018). Con il coronavirus si è raggiunto il mirabile numero di 2 milioni di lavoratori.
Quali sono i vantaggi percepiti? Cosa fare perché non siano illusori ma effettivi?
Da quando l’epidemia ha imposto a molti il lavoro da casa, il dibattito sullo smart working si è inevitabilmente intensificato. I principali vantaggi percepiti dalla maggioranza dei lavoratori sono quelli relativi alla possibilità di un maggiore bilanciamento tra tempi di vita e di lavoro.
In particolare, il lavoratore godrebbe del tempo guadagnato con la riduzione degli spostamenti e della diminuzione dei loro costi, aspetto ancor più rilevante per i pendolari costretti a lunghe tratte di percorrenza, nonché della riduzione delle emissioni inquinanti.
Di recente, la celebrazione di questo strumento da parte dei principali organi di informazione ha aperto un ulteriore scenario sull’impatto che il lavoro agile potrebbe avere sull’emigrazione dalle regioni del sud Italia, limitando i danni, in termini tanto economici quanto affettivi, dell’esodo di massa che lo caratterizza da decenni a questa parte. I benefici possono essere innegabili in molti casi, ma notevoli sono anche i rischi che nasconde e che tanti lavoratori hanno sperimentato sulla propria pelle in questi mesi di emergenza.
Cosa fare, quindi, per far si che i vantaggi in termini di miglioramento dei ritmi di vita dei lavoratori siano effettivi e non illusori?
Di fronte alla possibilità che lo smart working non si realizzi in un’opportunità di avanzamento ma in occasione per un pericoloso ritorno al passato sul piano dei diritti, ci sembra essenziale analizzare gli effetti di questo strumento sulla produzione ed i reali interessi alla base del suo sviluppo e, al contempo avanzare un piano di rivendicazioni concrete che ci consentano di renderlo uno strumento utile nelle mani dei lavoratori e non l’ennesima trappola per massimizzare i profitti aziendali.
Come viene raccontato il lavoro “smart”?
Non potendo addentrarci nei diversi commi, qui ci dedicheremo a smascherare la retorica mainstream sul fantastico mondo dello smart working approfittando proprio dell’emergenza sanitaria. Vedremo come tutto il segreto dello smart working sta nel capovolgere la formula con cui viene presentato.
Esso viene vi presentato ai capitalisti come una garanzia di produttività e di riduzione dei costi, mentre viene presentato al lavoratore come una modalità lavorativa che dovrebbe conciliare la vita col lavoro rendendo il lavoro più flessibile rispetto agli spazi e i tempi del lavoro “sul posto” e, quindi, permettendo al lavoratore di adattarlo al meglio con le sue esigenze di vita.
Finalmente il lavoro si adegua alla vita. Come si vedrà, lo smart working nasce per far sì che la vita si adegui al lavoro, senza più tempi, senza più spazi di autonomia.
Come accennato, lo smart working è una specifica modalità lavorativa che impegna il singolo lavoratore ad un rapporto subordinato al suo datore di lavoro. La legge stabilisce che un determinato lavoro venga fatto in un qualunque luogo scelto dal lavoratore e obbligando al raggiungimento di determinati obiettivi lavorativi. La libertà assoluta non vale invece per il tempo: la legge, infatti, garantisce il “diritto alla disconnessione”, cioè all’irreperibilità in certe ore. Fatto salvo da questa piccola eccezione, comunque, la libertà temporale rimane abbastanza indeterminata. Ora, ci sono innanzitutto alcune cose da notare.
Tutto il lavoro da casa è smart?
All’epoca del covid nel discorso mediatico dominante smart working è diventato tutto il lavoro fatto da casa. Il che è fuorviante per più motivi. Innanzitutto, perché ha venduto l’impressione che tutti lavorassero da casa, casomai persino i lavoratori “essenziali”, che invece rischiavano di morire. Inoltre, questo ha semplicemente nascosto il fatto che molti lavoratori obbligati a lavorare (ora direttamente da casa) non avevano alcuna tutela normativa.
Basti pensare agli insegnanti pubblici per i quali non c’è stata alcun accordo con lo Stato per estendere la normativa “smart”. Il che significa che sono stati violati i minimi standard di legalità che persino il sistema capitalistico ha inaugurato nella storia. Sostanzialmente, si è lavorato al di fuori di ogni contratto di lavoro, il che ha avvicinato il lavoro contrattualizzato – così importante nel discorso sociale – al servaggio medievale. Una sorta di obbligo (corveé) ad un padrone che si fa perché si deve fare, perché lo si è sempre fatto, perché è tradizione che avvenga, perché è coscienza civica si faccia…
Chi è davvero libero?
In secondo luogo, all’epoca del covid il lavoro “smart” è diventato sinonimo di libertà, flessibilità, intraprendenza, modernità, innovazione etc. etc. La cosa è nota: si ripete ogni volta che viene introdotto un termine inglese. Basti pensare alla figura del “rider”.
Ma anche questa si rivela una straordinaria bugia. Il lavoro “smart” è, come detto, un lavoro obbligato e subordinato e la legge tutela non tanto il lavoratore, ma il fatto che anche da casa il lavoro rimanga subordinato. Che si venga obbligati alla flessibilità – e vedremo cosa questo significa – non significa essere liberi: significa essere obbligati alla flessibilità, subordinati ad essa.
La narrazione liberista, invece, prepara il terreno ad un immaginario collettivo in cui il lavoro “smart” non è un lavoro comandato, bensì un lavoro liberamente scelto e liberamente accordato col datore di lavoro, riproponendo la vecchia ideologia dell’accordo tra classi diverse con l’aggravante che qui il lavoratore stabilisce individualmente l’accordo col suo datore. Cioè: è fondamentalmente solo e, per di più, isolato in casa. Ma su questo ci torneremo.
Il comando del lavoro sulla vita
Insomma, il Covid19 ha semplicemente portato alla luce ciò che lo smart working è sempre stato: non la possibilità di lavorare anche da casa, ma la possibilità di obbligare a lavorare persino da casa, l’abbattimento dei confini privato-pubblico, casa-lavoro, salute-malattia, e l’estensione del comando al lavoro (e quindi sul lavoratore) anche in tempi di malattia. In altri tempi, quelli in cui non c’era o non si sapeva ancora come usare il digitale per fregare il lavoratore, il tempo di malattia coincideva col tempo di riposo. Oggi il tempo di malattia è diventato il tempo del lavoro generalizzato, della messa a lavoro di tutti gli spazi e di tutti i tempi dell’individuo.
Infine, gli sbandierati vantaggi relativi all’impatto sul lavoro femminile, laddove il lavoro smart consentirebbe alle donne di poter passare più tempo dedicandosi alla propria famiglia e alla gestione della propria casa, vanno a scontarsi ancora una volta con una concezione patriarcale del lavoro di cura, che grava solamente sulle spalle delle donne. Anche su questo versante, i vantaggi si riveleranno illusori se il ricorso al lavoro smart non andrà di pari passo con la rivendicazione di altri obiettivi, come l’equa ripartizione del lavoro di cura tra uomo e donna, un solido welfare pubblico e la battaglia, che resta centrale, per la riduzione dell’orario di lavoro.
Chi lavora usualmente in modalità smart?
Stando ad una recentissima pubblicazione di Etica ed economia, solo il 30% dei lavoratori italiani potrebbe lavorare da casa in modalità “smart”. Al restante 70% è preclusa questa possibilità innanzitutto per ragioni tecniche. L’opzione del lavoro da casa è praticabile per il 60% dei lavori tradizionalmente a più alto salario (manager, professionisti intellettuali, tecnici e amministratori etc.). L’opzione non è praticabile per il 95%-100% dei lavori a più basso salario.
Quindi, le magnifiche sorti progressive dello smart working, ammesso che ci siano, hanno finora toccato pochi e, guarda caso, fasce economicamente già abbastanza protette.
Come si vede, lo smart working qui è segno di frammentazione della forza lavoro secondo categorie, tanto da poter essere utilizzato come parametro per distinguere i lavoratori più agiati e privilegiati dai lavoratori che immediatamente chiamiamo sfruttati, perché ci presentano le piaghe dello sfruttamento fin nei loro occhi e dai loro volti o quando sono in terapia intensiva essendosi ammalati di Covid sul luogo di lavoro (Ma lo sfruttamento era “essenziale”…).
Smart worker = Privilegiato?
“Smart”, dunque, è sinonimo di privilegio perché effettivamente fino ad oggi la stragrande maggioranza dei lavoratori smart era una fascia privilegiata. In generale, questo significa dire che lavorare per un padrone è un privilegio. Inoltre, che esistono lavoratori privilegiati e lavoratori non-privilegiati e che tu, privilegiato, stai sopra, mentre l’altro, non privilegiato, sta sotto di te, anche se ti devi sempre ricordare che sopra di te c’è chi gentilmente ti concede il privilegio di lavorare “smart”: il padrone.
Questa bomba atomica buttata sulla solidarietà tra lavoratori mediante concrete differenze salariali e relative alle modalità lavorative, esplode quando, con il covid, tutto questo viene generalizzato, obbligando anche chi prima non era smart a diventarlo. Perché ora anche il lavoratore nient’affatto privilegiato si può sentire un privilegiato: lui un lavoro non l’ha perso nonostante il covid, e questo “grazie” alla straordinaria bontà del proprio datore di lavoro.
Ma sono effettivamente privilegiati i lavoratori smart? Cioè: non sono sfruttati? Ma cos’è lo sfruttamento?
Permetteteci qualche precisazione. Lo sfruttamento non è un concetto morale, anche se giustamente si carica di questi connotati.
Esso indica innanzitutto un rapporto (saggio di sfruttamento) tra il valore prodotto dal lavoratore che non gli ritorna sottoforma di salario (plusvalore) e il valore che gli ritorna sotto forma di salario.
Lo sfruttamento si distingue dal profitto, che indica il rapporto (saggio di profitto) tra il plusvalore e la quantità di denaro che il capitalista investe in macchinari, materie prime (capitale fisso) e in salari (capitale variabile). Se questo è vero, per aumentare i profitti i capitalisti devono:
- aumentare il plusvalore, quindi lo sfruttamento, e lo possono fare: o estendendo l’orario di lavoro in assoluto (plusvalore assoluto) o intensificando la produttività e quindi estendendo il lavoro in relazione al tempo lavorato (plusvalore relativo)
- ridurre il capitale investito in salari (il che aumenta lo sfruttamento) e i costi “fissi”.
Lo smart working permette al capitalista di ottenere tutto questo in una volta
- Scarica i costi fissi sul lavoratore. Ci raccontano che risparmieremo il costo del biglietto del pullman o della benzina, ma nessuno pone l’accento sull’enorme risparmio che lo smart working garantisce all’azienda, facendole scaricare i costi fissi sulle spalle del lavoratore. La presenza contemporanea di un numero minore di dipendenti in sede comporta bollette più basse per luce, acqua e gas, la possibilità di pagare affitti minori per locali più piccoli, di tagliare sui costi di pulizia, manutenzione, mensa, sicurezza. Tutti costi che oggi ricadono sul lavoratore, che dovrà provvedere, inoltre, alla connessione internet e alle apparecchiature informatiche.
- Aumenta la produttività del lavoro ed estende all’infinito l’orario di lavoro. Il lavoro “smart”, infatti, è prevalentemente un lavoro ad “obiettivi” (un tempo: lavoro a cottimo): sei più smart quanto più raggiungi velocemente (ricordate l’intelligenza “smart”?) l’obiettivo, il che ti permette di raggiungerne degli altri e poi altri ancora e poi altri ancora. Ed è altrettanto chiaro che quanto più sei smart, cioè raggiungi obiettivi, tanto più il datore di lavoro ti compenserà. Il che, va da sé, non solo spinge all’intensificazione del lavoro, ma anche all’estensione dell’orario di lavoro. Che, infatti, ti venga riconosciuto un diritto alla disconnessione in una certa fascia oraria, non solo non significa che tu non possa ignorare eventuali richieste – come sicuramente farai oberato di lavoro che tu stesso ti starai dando – ma anche che tu possa completamente disinteressarti di qualsiasi limite temporale. Niente ti vieta, infatti, di lavorare anche di notte. Ma si sa che lavorare di notte, e poi anche di giorno, seduti da casa è segno di comodità.
- Riduce i salari. Dal punto di vista del lavoratore, il proprio salario si riduce perché deve affrontare più spese prima a carico del datore di lavoro. Dal punto di vista del capitalista, la spesa in salari si riduce perché tra quelle spese scaricate sul lavoro ce ne sono alcune che prima erano a carico diretto del datore di lavoro e rientravano indirettamente nel salario, come, ad esempio, i buoni pasto. Inoltre, si riduce la forza lavoro che egli deve impiegare per mandare avanti l’azienda. Alcuni lavori come quelli di pulizia o manutenzione di luoghi, macchine etc. diventano inutili, perché scaricati sul lavoratore. Il lavoro è “smart” per alcuni, soprattutto per il datore di lavoro, ma per quelli non-smart può essere un flagello.
Il ciclo continuo
E questo ci riporta al punto di sopra, cioè allo “sfruttamento della macchina” per ammortizzare i costi fissi. Con questa modalità, infatti, il capitalista riduce del tutto un altro costo che gli sta a carico: quello che viene dal fatto che la macchina non sia utilizzata o, per dirla alla loro, “valorizzata”. La macchina non è il singolo computer che tu hai in mano e che sarebbe di tua “proprietà”.
La macchina è l’intero processo lavorativo in cui tu sei inserito e che non dipende affatto dal tuo singolo computer, ma che si interconnette con infiniti altri singoli processi a cui il tuo deve essere coordinato, pena il mancato raggiungimento dell’obiettivo. Questa coordinazione deve essere quanto più precisa, quanto più perfetta, quanto più sincronica possibile. Sulla base di questa necessità storica nasce la “macchina” per come noi la conosciamo, cioè come “sistema” di macchine organizzate tra loro e autonome dal lavoro del lavoratore.
Ora, se questa macchina, questo processo, questo sistema non è in funzione, essa non è “produttiva” e questo comporta un costo, una perdita, una mancanza al proprietario di questa macchina. Il fatto che tu, ora, ci lavori tutta la giornata sulle, con, insieme alle macchine, significa che tu valorizzi quella macchina sempre e comunque. Insomma: lo smart working è il raggiungimento del sogno di ogni padrone: il ciclo continuo, la messa a lavoro continua di macchine e uomini. L’armonia universale tra macchinario e umanità diventa qui l’orgasmo del padrone. Non a caso, sono le aziende più tecnologicamente avanzate, che hanno cioè grandi investimenti in macchinari, quelle che hanno inaugurato il lavoro smart.
Padrone e servo
L’orgasmo del capitalista, però, è severamente sofferto nell’alienazione del lavoratore. La cosa più feroce di questa storia, in effetti, sono i costi psicologici che tutto questo comporta. Già da quando le prime forme di lavoro “cognitivo” erano state inaugurate, si cominciava a parlare della scissione che il lavoratore viveva rispetto alla propria personalità. Diventare, allo stesso tempo, padrone e servo di sé. Significa, in soldoni, che spinti dall’ansia della prestazione ci si auto-comanda il lavoro produttivo: il “Super-Io” non è più il padrone fuori di te, bensì il padrone dentro di te e che di spinge (autospinge) a lavorare indefinitamente fino a che non raggiungi l’obiettivo, e poi l’altro, e poi l’altro.
Paradossalmente, chi subisce fisicamente la presenza del padrone sul luogo di lavoro, è molto meno “a rischio” di questa scissione interna di chi, invece, non “vede” più il padrone ma uno schermo con tabelle e numeri che gli appaiono come suo compagno di lavoro.
“Smart” significa in inglese non agile, come viene tradotto malauguratamente nella normativa italiana, ma “intelligente” nel senso di un’intelligenza immediata, intuitiva, acuta. Beh, lo smart working è l’acume del capitale a sfruttare il lavoro.
Se da questo quadro risultano evidenti gli interessi in gioco e le potenzialità del lavoro smart in termini di sfruttamento della forza lavoro, un’ulteriore riflessione non può che riguardare il fatto che a questo maggiore sfruttamento corrisponde un depotenziamento della capacità di organizzazione sindacale. La frammentazione del lavoro, avviata da decenni, raggiunge la massima espansione con il lavoro da casa. Ciò rende estremamente difficile la possibilità di confrontarsi, organizzarsi e lottare insieme per avanzare rivendicazioni sindacali e sviluppare consapevolezza politica.
Too bad?
A conclusione bisogna riconoscere un fatto. Dietro il lavoro “smart” c’è un beneficio in termini di autonomia. Grazie alle macchine, il lavoratore potenzialmente si riesce a gestire da sé il lavoro e, quindi, dimostra de facto che il capitalista è assolutamente inutile affinché il processo produttivo vada avanti.
La sua funzione ora è diventata unicamente “politica”: quella di comandare al lavoro per non lavorare definendo obiettivi e tempi. La sua funzione “economica” o direttiva per far funzionare il processo correttamente è garantita dalla macchina, dal processo automatico a cui tutti possono (ora) liberamente interconnettersi. La funzione direttiva è, per il capitalista, quella di definire i tempi del processo, i suoi obiettivi. Controllare che tutto funzioni correttamente rispetto ai tempi e agli scopi che lui definisce. Il potere di definire tempi e scopi della produzione deve essere la conquista politica della classe dei lavoratori.
È proprio questo ciò che la modalità “smart” più blocca isolando reciprocamente i lavoratori e dando l’apparenza che essi possano essere “autonomi” solamente perché isolati. Autonomia, invece, significa collettività. Solo nella e con la collettività si è autonomi. Ci si dà le regole insieme per il corretto funzionamento del lavoro e, quindi, per la riproduzione della società. Il covid ha dimostrato, da un lato, la necessità della riproduzione della società attraverso il lavoro. Dall’altro lato, il fatto che gli interessi privati vanno contro questa necessità. La libertà di fare i profitti va contro la necessità di vivere, e di vivere bene.
Che fare?
Alla luce di tutto questo, appare assolutamente necessaria una regolamentazione dello smart working che sostituisca la decretazione d’urgenza e la sua conseguente decontrattualizzazione.
Una piattaforma dovrebbe nell’immediato:
- Rivendicare la necessità che il ricorso allo smart working sia una scelta e non un obbligo per il lavoratore. L’adesione volontaria del lavoratore potrebbe garantire l’adeguamento della modalità di svolgimento della prestazione lavorativa con particolari esigenze di vita del lavoratore.
Il lavoro smart potrebbe essere favorito, in particolare, per lavoratori fragili e i lavoratori pendolari. Per gli altri lavoratori, prevedere un limite di una o due giornate massimo a settimana per garantire la coesione e la partecipazione alle attività sindacali. - Rivendicare che i costi “fissi” siano sempre e solo a carico del datore di lavoro. Non solo i costi relativi alla utenze, ma anche tutti quelli relativi alla sicurezza (schermi, sedie, scrivanie).
- Rivendicare la regolamentazione dell’orario di lavoro smart: non deve essere a cottimo, ma continuare ad essere legato al tempo di lavoro. Deve coincidere con il tempo di lavoro dei lavoratori non in smart ed avere quindi un limite massimo giornaliero.
- Rivendicare l’utilizzo della tecnologia a tutela dell’orario di lavoro: il rispetto delle pause potrebbe essere garantito da uno stop programmato e non eliminabile dell’applicativo. Chiedere l’inserimento della propria matricola aziendale al momento dell’accesso e della disconnessione su una piattaforma informatica pubblica, collegata all’ispettorato del lavoro. Ciò potrebbe consentire un controllo statale sul rispetto delle ore lavorate.
- Rivendicare la costituzione di spazi sociali per il lavoro smart. Creare “luoghi di lavoro smart” diffusi capillarmente nelle città in cui lavoratori di diversi settori possano andare a lavorare uscendo da casa. Questo ridurrebbe l’impatto ambientale e ridurrebbe il “costo politico” dello smart working, cioè l’isolamento fisico tra lavoratori, e l’isolamento intercategoriale. Servirebbe ad abbattere le frontiere del posto di lavoro e legando nello stesso luogo lavoratori di settori diversi. Si potrebbe cominciare una sperimentazione con l’amministrazione pubblica, ridefinendo gli uffici delle municipalità.