Come già espresso in un documento per la tematica ambientale, torniamo sul PNRR, sul luogo di questo delitto di cui subiremo le conseguenze per anni, questa volta per analizzare la parte che riguarda Cultura, Spettacolo e Turismo.
Vedremo successivamente i punti di intervento, ma una domanda ci sorge spontanea: cosa si intende per industria creativa e culturale?
Già il fatto di chiamarla industria fa scivolare il settore in una necessaria competitività produttiva invece che assumerla a settore necessario al benessere collettivo.
Ci piace definire il comparto settore culturale e non industria culturale. Non un semplice lapsus ma una precisa scelta di politiche da attuare.
Analizzare scrupolosamente e punto per punto gli interventi diretti verso questo mondo, da subito ci ha portato a sbugiardare alcune delle “rivoluzioni” promesse.
Il continuo sbandieramento della tematica ambientale connessa ad ognuno degli interventi appare come una parola di facciata che non si concretizza mai in azioni reali, nonostante venga evocata in ogni punto.
Ci aspettavamo almeno qualche esempio concreto nel capitolo sul turismo ma anche lì totalmente taciuta. Quello che invece ci aspettavamo e abbiamo ritrovato è un rafforzato percorso di privatizzazione del settore, dovremmo dire dei settori, in cui si lascia sempre più spazio a soggetti esterni.
- Alcuni appunti che balzano agli occhi prima di entrare nel merito:
• Mancanza di un’idea di riforma del settore Cultura e Spettacolo - Con 2,40 mld di euro, il punto sul Turismo 4.0 prende più di un terzo dei fondi dedicati insieme alla Cultura e al Turismo. I fondi per la cultura vengono visti sempre in un’unica ottica di sfruttamento economico, motivo per cui da un lato dal PNRR è escluso lo spettacolo dal vivo e dall’altro si vede così di buon occhio l’investimento in questo settore.
- Ci sono tanti obiettivi interessanti che però finiscono per bloccarsi sulla concretezza della proposta, che diventa fumosa o si svolge solamente in esternalizzazioni. Troviamo un pressapochismo di raggio d’azione, le cui linee guida sembrano volutamente confuse e superficiali.
- Si possono ricapitalizzare tutti gli enti di promozione territoriale, si possono attrezzare i musei di moderni strumenti tecnologici, e le città di moderni sistemi di informazione, promozione e commercializzazione, ma senza cambiare modello di produzione non cambia nulla.
- Non si parla mai di lavoratori e lavoratrici, dei diritti che non hanno, di andare a intervenire su questo, di mettere criteri di salvaguardia del lavoro e dei diritti di chi lavora per le imprese che andranno a prendere i fondi.
- Pensiamo sia importante aggiungere anche una critica alle parole utilizzate, uno dei leitmotiv di questo documento è già nel titolo, quella R di resilienza che proprio non ci va giù. Si tratta di accettare e riconfermare una situazione inammissibile.
Abbiamo fisso in testa una sola R, quella di Resistenza, che pratichiamo durante gli scioperi, le iniziative di mobilitazione, quando ci mettiamo a studiare e criticare le nefandezze che il governo e i grandi imprenditori pensano e applicano. Una R che continueremo a ribadire e portare in piazza ad ogni occasione possibile, la stessa che per un anno ha alimentato la mobilitazione dei lavoratori e lavoratrici dello spettacolo e della cultura e che speriamo si riaffacci presto nelle piazze e nei luoghi di lavoro/sfruttamento italiani.
Potere al Popolo! – Tavolo Cultura e Spettacolo
Con questo titolo roboante la domanda sorge spontanea: chi fa parte, per il governo, dell’industria culturale? Scopriamo che l’unico settore in cui vi è un minimo, e assolutamente non sufficiente investimento, è quello dell’audiovisivo. Che fine hanno fatto il teatro, la musica, la danza, i circhi, l’arte di strada, l’opera, la pittura, la fotografia, l’arte, la scultura, l’editoria, la produzione libraria? Non pervenuti. Come non pervenuti gli interventi a favore delle lavoratrici e dei lavoratori se non per essere citati in maniera confusa e non chiara senza nessun dato preciso di intervento occupazionale e formativo. E la chiamano anche riforma! Ci dobbiamo soffermare nuovamente sulla volontà politica di far risultare questo settore un settore di facciata: nel testo è sottolineato come sia importante investire in questo ambito per l’immagine e il brand del Paese a livello internazionale. Del fatto che in questo settore agiscano migliaia di lavoratori e lavoratrici non sembra interessare. Quello che interessa è attrarre investitori privati, rendere tutto un mero profitto nelle mani di pochi.
Ci domandiamo infine cosa vogliano dire quando parlano di coinvolgimento di privati, cittadini e comunità in termini di sponsorship: vogliono farci credere che saranno prese in considerazione le esigenze delle persone che vivono la mancanza della diffusione delle attività culturali (come accade nelle periferie delle grandi città o nei piccoli centri di provincia)? O semplicemente useranno, ancora una volta, la buona volontà di cittadini e cittadine che vivono i loro territori e lavorano volontariamente, sopperendo alla mancanza di azione delle istituzioni, per migliorare la qualità di vita di tutte e tutti?
Adozione di criteri ambientali minimi per eventi culturali
In questo punto si dice come la sedicente riforma si pone lo scopo di migliorare l’impronta ecologica degli eventi culturali (mostre, festival, eventi culturali, eventi musicali) attraverso l’inclusione di criteri sociali e ambientali negli appalti pubblici per eventi culturali finanziati, promossi o organizzati dalla pubblica autorità.
E ancora ci fa sapere che questo permetterà di avere una diffusione di tecnologie/prodotti più sostenibili e supporterà l’evoluzione del modello operativo degli operatori di mercato, spingendoli ad adeguarsi alle nuove esigenze della Pubblica Amministrazione.
Ci viene da chiederci per quale motivo le tematiche ambientali ed ecologiche debbano essere inserite nel punto culturale invece di essere incluse in una seria riforma strutturale che coinvolga gli interi aspetti del settore produttivo e sociale del Paese. Ma poi non ci è dato sapere quali siano questi specifici criteri sociali e ambientali, come non ci è detto quali siano le tecnologie e i prodotti più sostenibili che dovrebbero essere sviluppati. Questo sarebbe l’intervento sugli eventi culturali! Non una parola su come incentivare la diffusione di tali eventi per far sì che diventino capillari e diffusi sul territorio. Non una parola sulla tenuta occupazionale delle operatrici e degli operatori culturali che tengono in vita tali eventi. Una vera riforma su tale punto avrebbe dovuto stanziare i fondi del PNRR per un intervento della pubblica amministrazione nel sostentamento della creazione, produzione, operatività e fruizione degli eventi culturali. Ma questo punto è a costo zero: come fare niente col niente!
Sviluppo industria cinematografica (Progetto Cinecittà e Centro Sperimentale) (Misura 3.1 – 300 Milioni)
Qui il testo introduttivo parla di competitività, occupazionalità e crescita economica per il settore dell’audiovisivo, con uno stanziamento di 300 milioni di euro, individuando 3 linee di intervento: potenziare gli studi di Cinecittà che sono gestiti da una società partecipata al 100% dal Mef e di cui il Mic è socio, l’Istituto Luce Cinecittà srl. L’intento dichiarato è quello di attrarre produzioni internazionali e migliorare la quantità e qualità delle produzioni italiane.
Non possiamo non valutare positivamente lo stanziamento di fondi pubblici in favore di una società a controllo ministeriale, la domanda che sorge spontanea è per quale scopo e a favore di chi? Non ci è dato sapere cosa voglia dire “potenziare gli studi cinematografici”. Gli studi di Cinecittà, che sono scampati non da molto ad una speculazione edilizia, sono per la maggior parte inutilizzati. Il potenziamento vuol dire la modernizzazione dei teatri di posa o l’ampliamento dell’hub per ettari di terreno circostante? Bene investire nell’audiovisivo, bene investire in Cinecittà, ma veramente questo può essere considerato il rilancio di un settore? Lo sperato rilancio produttivo che, se fatto da compagnie produttive locali, produrrà inevitabilmente un certo tasso occupazionale quale cinema riguarderà? Sicuramente quello delle grandi industrie cinematografiche. Cosa si è pensato di fare per tutto quel cinema indipendente sparso sul territorio che consta di alti tassi di qualità ma che non riceve né finanziamenti pubblici né opportunità distributive? Come si fa a tenere insieme qualità e quantità che tendenzialmente non vanno di pari passo? In conclusione, come si intende realizzare questo rilancio? Non ci è dato saperlo. Un rilancio non può avvenire senza formazione e lavoro. Bisogna sostenere i mestieri, l’aggiornamento professionale, la buona occupazione. Bisogna creare hub cinematografici regionali così da incentivare e valorizzare le professionalità del territorio, non tentare di investire in Cinecittà con il solo intento nostalgico di tornare agli albori del cinema italiano del dopoguerra e fare arricchire le grandi produzioni cinematografiche senza considerare che l’audiovisivo è composto da lavoratori e lavoratrici che lo mandano avanti.
Rilanciare l’attività della “Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia mediante sviluppo di infrastrutture (“virtual production live set”) ad uso professionale e didattico tramite e-learning”, e modernizzazione degli immobili e impianti.
La formazione è un caposaldo dell’attività culturale, in questo caso del settore audiovisivo. Per quanto salutiamo positivamente il rilancio delle attività del Centro Sperimentale di Cinematografia, ci rimane oscuro cosa voglia dire farlo attraverso e-learning? Inoltre la formazione non è esclusivamente quella in entrata, ma anche quella continua che le lavoratrici e lavoratori del settore compiono per tutto l’arco della carriera. Cosa si è fatto in questo senso? Dove sono i poli formativi per professioniste e professionisti? Perché concentrare l’intervento formativo in un’unica città e non creare una rete capillare di poli formativi regione per regione gestiti dal pubblico?
Rafforzare le capacità e le competenze professionali nel settore audiovisivo legate soprattutto a favorire la transizione tecnologica
Dal fumo alla fuffa. Non solo non viene esplicitato come si vogliano rafforzare le competenze professionali nel settore dell’audiovisivo, ma si legano al favorire la transizione ecologica. Se veramente si fosse voluto rafforzare le capacità e competenze professionali la riforma avrebbe immaginato dei corsi di aggiornamento permanenti promossi dal Mic e gestiti dagli enti pubblici del territorio che coinvolgessero i vari comparti (recitazione, regia, produzione, trucco, fotografia, suono, post produzione ecc..).
Considerando che questa parte è la più dettagliata di questo paragrafo di campo di intervento salta subito agli occhi chi siano i convitati di pietra: le lavoratrici e i lavoratori!
Capacity building per gli operatori della cultura per gestire la transizione digitale e verde (3.2 – 155 Milioni)
Quest’ultimo paragrafo delinea una situazione grottesca se non fosse addirittura sconfortante. Nell’individuare gli intenti illustra come obiettivo quello di “sostenere la ripresa e il rilancio dei settori culturali e creativi.” Letto così non si può non salutare positivamente. Immaginiamo che finalmente la “riforma” affronterà come sostenere la ripresa, come sostenere i lavoratori e le lavoratrici culturali nei loro periodi di inattività, come creare dei presìdi culturali pubblici che abbiano una diffusione capillare su tutto il territorio, come incentivare la popolazione ad andare a teatro, al cinema, ad una mostra immaginando, oltre che una politica di avvicinamento culturale, una fruizione accessibile.
E invece si scopre che la prima linea di intervento sarà “Sostenere la ripresa delle attività culturali incoraggiando l’innovazione e l’uso della tecnologia digitale lungo tutta la catena del valore”. Nulla da ridire sull’uso delle innovazioni tecnologiche che sicuramente contribuiscono ad una innovazione culturale, né di quelle digitali che però devono servire da supporto o da memoria storica e non da sostitutivo della fruizione in presenza, ma non sono e non saranno tali innovazioni sostenere la ripresa di un settore che lamenta la carenza di una riforma strutturale che tenga insieme lavoro, investimenti e visione politica.
Ma la seconda linea di intervento è un vero e proprio virtuosismo dell’assurdo: sembra che la ripresa debba passare dalla capacità degli operatori (e operatrici, aggiungiamo noi) di gestire la transizione digitale e verde, in modo tale che, attraverso le attività culturali si possa educare il pubblico ad avere comportamenti ambientali più responsabili. E cioè? Finalmente insegneremo ai nostri figli che quando si va ad un museo o a teatro, bisogna riciclare, non sprecare, riutilizzare tirati a lucido, eco sostenibili e a impatto zero. La prendiamo ironicamente, perché anche se sappiamo che i comportamenti ambientali responsabili sono importantissimi, come importante può essere l’eco-design e l’economia circolare, sappiamo perfettamente che questi non passano attraverso la ripresa del settore culturale; Anche qui ci viene da chiederci cosa abbia a che vedere ciò con la sedicente riforma della cultura 4.0, riguardando tutt’al più la visione di un sistema produttivo e sociale sostenibile. Se si parla di promuovere la ripresa del settore culturale ci si dovrebbe concentrare sulla possibilità di creazione di lavoro per le operatrici e operatori coinvolti in un sistema di relazione che li faccia entrare in connessione con la cittadinanza tutta così da ricostruire quelle capacità di rapporto e di analisi necessarie per una qualità di vita migliore. Non riusciamo tanto a mettere insieme i due soggetti del titolo: operatori della cultura e transizione verde. 160 milioni di euro per aumentare la capacity building di operatori e operatrici per gestire la transizione digitale e verde? Ma quali operatori e operatrici? Ci domandiamo in che modo un attore, una regista, un danzatore, una cantante, un truccatore, una parrucchiera, una guida museale, una maestranza, un archivista, una fotografa, un tecnico, una bibliotecaria, uno scrittore, un’operatrice museale, un montatore, una grafica, e tutte le altre innumerevoli professionalità, possano aiutare questa transizione e da essa essere aiutati a migliorare il proprio settore e le proprie condizioni lavorative. Se si vuole trovare un compito per le lavoratrici e lavoratori culturali sicuramente non è questo.
L’obiettivo è il miglioramento delle strutture turistico ricettive e dei servizi turistici con l’innalzamento e la riqualificazione degli standard di offerta che dovrebbe a sua volta aumentare la competitività delle imprese e promuovere un’offerta turistica basata su sostenibilità, innovazione e digitalizzazione.
Come avviene tutto questo?
- Hub turismo digitale: ammodernamento di un sito Italia.it, che collegherà tutta l’offerta turistica del paese (0,11 mld); la creazione di modelli di I.A. per analizzare comportamenti di utenti e flussi turistici; un kit di supporto per servizi digitali di base per operatori turistici di piccole medie dimensioni in zone arretrate del paese.
- Creazione di fondi integrati per la competitività delle imprese turistiche, 1,79 mld ovvero più di un quarto dei soldi per cultura e turismo.
Dovrebbero attirare finanziamenti anche privati e avere un effetto leva: credito fiscale per la sostenibilità ambientale e l’aumento degli standard qualitativi delle strutture ricettive; fondo di FONDI BEI per turismo di montagna (infrastrutture e servizi ricettivi), offerta turistica TOP QUALITY, turismo sostenibile e upgrade di beni mobili e immobili; potenziamento del Fondo Nazionale del turismo per riqualificare immobili ad alto potenziale turistico, come alberghi iconici per valorizzare l’identità dell’ospitalità italiana; sezione turismo nel Fondo Speciale di Garanzia per facilitare l’accesso al credito a imprese esistenti o nascenti; partecipazione del ministero al capitale del Fondo Nazionale del Turismo per riqualificare strutture alberghiere, sostenendo soprattutto le catene e il meridione. - Caput Mundi_Next generation Europe (0,50 mld): in occasione del Giubileo sviluppare un itinerario turistico nazionale che parta dalla Capitale. Quest’ultima godrà di interventi di restauro, di messa in sicurezza, anche anti-sismica, di luoghi di interesse culturale e delle vie giubilari e di alcuni programmi: #lacittàcondivisa che dovrebbe individuare siti tematici presenti nelle aree periferiche; #mitingodiverde per il rinnovo e restauro di ville, parchi, giardini; #roma4.0 ovvero digitalizzazione dei servizi culturali; #amanotesa per l’offerta culturale nelle periferie.
In coda a questo, senza costo alcuno e senza dettagli la Riforma per l’ordinamento professionale delle guide turistiche.
Esiste poi il Piano strategico Grandi attrattori culturali (1,46 mld) che stabilisce alcuni luoghi, città, aree, istituzioni culturali che riceveranno finanziamenti.
Cosa possiamo leggere tra le righe? Che vengono fatti arrivare soldi alle imprese del settore turistico, vengono risistemate in gran parte strutture ricettive di privati per innalzare il livello degli standard di un turismo che non sappiamo a chi sarà destinato e in che modo. Oltre alla sostenibilità, che sa molto di greenwashing di tutta l’operazione, e al miglioramento dei servizi digitali, che potrebbe risultare utile ma che è comunque guidata dal meccanismo di migliorare la comunicazione tra domanda e offerta, non sappiamo su quali principi si baserà questo nuovo turismo che dovrebbe uscire dai grandi centri per diffondersi anche nei più piccoli, non ci sono criteri e linee guida e se sarà il capitale e lo sfruttamento a guidare tutto questo certamente la direzione non sarà quella di un turismo alla portata di tutti e tutte, né rispettoso delle comunità locali, né delle condizioni lavorative di chi lavora nel settore. La vaghezza è il principio base di quello che viene detto: soldi alle imprese per sistemare, rinnovare, rendere green e digitalizzare, soldi per le imprese edilizie che fanno questi lavori.
Cosa manca? Negli ultimi decenni il fenomeno turistico ha visto un aumento esponenziale dei viaggiatori portando ad uno sviluppo capitalista e non equilibrato delle mete di destinazione. Il PNRR come viene proposto ripone nelle mani dell’impresa ricettiva gran parte delle speranze dello sviluppo turistico senza mettere al riparo le comunità che da questo mercato dovrebbero trarre beneficio economico e crescita sociale.
I fenomeni di overtourism consumano le destinazioni in maniera irrispettosa dei beni artistici, delle comunità locali che abbandonano i centri storici e del lavoro salariato che viene spinto verso una dimensione sempre più precaria espellendo le comunità locali dai centri storici per lasciare spazio a speculazione edilizia e gentrificazione.
– Il turismo non è visto come fenomeno elitario bensì come strumento di crescita. Il fenomeno già nella sua origine moderna attraverso il Grand Tour, ha qualcosa di coloniale, qualcosa che sa di sfruttamento dei territori ospitanti, ma sappiamo anche che sarebbe bello non fosse così. Ecco, la prima cosa che forse manca è una visione diversa di quello che può essere un viaggiare accessibile a tutti e tutte e che non snaturi i territori in cui arriva.
– Un turismo che affama chi è già povero per aumentare i profitti dei ricchi non è equo o desiderabile.
Di fruibilità per tutti e tutte ai servizi. Non si capisce alla portata di chi sarà questo turismo. Solamente nel programma sulle periferie romane questa diviene un punto. Il turismo è visto come un gioco per ricchi da collocarsi nel mercato del lusso, non come la possibilità di scambiare idee e crescere.
– Si propongono soluzioni tecnologiche a modelli turistici vecchi e ingiusti.
Manca, anche qui, una riforma strutturale del settore. Digitalizzare e riqualificare non vuol dire riformare, specie se le linee guida sono vaghe. E poi bisogna anche capire come andremo a digitalizzare. Se il modello turistico rimane pressoché invariato, con dinamiche figlie del boom economico (crescita e modernizzazione degli alberghi, sfruttamento incontrollato delle destinazioni) e non si hanno prospettive differenti i buoni propositi rimangono solo strumenti comunicativi per non scardinare nessun equilibrio fra ricchi e poveri, viaggiatori e comunità ospitanti, fra servizi al turista e servizi al cittadino.
RIGENERAZIONE DI PICCOLI SITI CULTURALI, PATRIMONIO CULTURALE RELIGIOSO E RURALEAttrattività dei Borghi (Misura 2.1 – 1,020 Miliardi)
Già nell’incipit il discorso si concentra sulle problematiche legate al turismo, associando questo termine al concetto di cultura concepita come icona riferita ad un passato da conservare e mostrare. Tutto questo da un lato è lodevole, perché mette in sicurezza il patrimonio appartenente al passato, appunto, ma non fa cenno, se non di sfuggita, alla cultura viva che nasce sempre da un tessuto sociale, dalle comunità che vivono e condividono le vicissitudini di una società in movimento. Società fatta di individui che si confrontano, si conoscono, attraversano esperienze comuni entrano in relazione al di là delle relazioni gastronomiche fatte per il turista-pacco da spostare in vari luoghi.
L’insopportabile insistenza sul “turista” invece che sulla “persona” che allaccia un rapporto di confronto e scambio con chi vive il territorio, senza dover obbligatoriamente spendere soldi, rende tutto il discorso sulla “cultura” una sorta di farsa tragicomica e alla fine mistificatoria.
Non si trova la richiesta di un concreto impegno da parte dei comuni di assumere personale che abbia competenze specifiche per valorizzare i piccoli musei, le specificità del territorio, le iniziative culturali e creative. Queste ultime utili a ricreare uno scambio tra realtà culturali delle città e quella dei borghi. Mai come in questo momento è necessaria una operazione culturale di vasto respiro che rimetta in moto il desiderio di condividere ciò che “l’altro” ha da dire e mostrare. Questo significa dare soldi a lavoratori e lavoratrici dello spettacolo, creare posti di lavoro e costruire una rete di luoghi della cultura per tutto il territorio nazionale rendendo possibile lo scambio, la circuitazione della “creatività e cultura” di cui si parla in più punti.
Una grossa lacuna è sul tipo di erogazione dei finanziamenti. Se si tratterà di bandi come li abbiamo visti fino ad ora i soldi arriveranno ai grossi imprenditori, alle imprese mercantili, più o meno titolate, tagliando fuori piccole realtà, le uniche capaci di coinvolgere abitanti e che provano a far nascere un discorso culturale, fuori dal mercato predatorio.
Edifici rurali e struttura agricole – (Misura 2.2 – 600 Milioni)
La lodevole iniziativa di sistemare edifici rurali e strutture agricole ha lo scopo ancora una volta di favorire il turismo (“SOSTENIBILE” e di questo concetto bisognerebbe discutere) nelle zone rurali valorizzando la produzione legata al mondo agricolo e all’artigianato tradizionale.
Una domanda sorge spontanea: quanti di noi ancora oggi vedono per le strade dei “borghi” i contadini coi baffi che intrecciano ceste di vimini per riporci i frutti della terra? Quanti di noi vedono le donne vestite con abiti risalenti all’antica tradizione contadina? Di quali tradizioni stiamo parlando se la società è cambiata ed omogeneizzata dall’imperativo del consumo a tutti i costi? Di quali frutti della terra parliamo se le grandi imprese agricole spargono i loro pesticidi ovunque e non lasciano vive neanche le mosche?
Parchi, giardini storici, luoghi di Culto – (Misura 2.3 – 300 Milioni)
Lodevole la vasta azione per rigenerare parchi, giardini storici, luoghi di culto, purché vi sia una rigenerazione della funzione pubblica di questi beni. È inoltre lodevole il desiderio di ricreare dei luoghi per la vita sociale dei giovani e favorire servizi pubblici, purché si alimenti una socialità inclusiva. Non c’è menzione di una vera e propria spinta ad una socialità che fruisca di servizi dedicati e di fondi per la realizzazione di progetti concreti creati dagli abitanti, tutto si sottintende asservito alla logica del mercato. Sarà interessante capire in che modo si inserisce la logica del mercato nel mostrare al turista “sostenibile” i luoghi di culto.
Sicurezza sismica nei luoghi di culto, restauro del patrimonio culturale del Fondo Edifici di Culto (FEC) e siti di ricovero per le opere d’arte (Recovery Art) – (Misura 2.4 – 800 Milioni)
Tra le novità della sezione in esame, il “Recovery art” prevede due linee di intervento: la prevenzione antisismica di edifici religiosi, e la creazione di 5 depositi per le opere colpite da calamità naturali.
Mancando i dettagli, è comunque apprezzabile la proposta di un piano di prevenzione antisismica, anche se non viene menzionato quale personale (e in che numero) sarà destinato ad un’attività che necessita di adeguate conoscenze in materia, in un organico ministeriale affetto da cronica carenza di specifiche figure professionali.
Sul secondo punto, si tratta di un piano nelle intenzioni ambizioso (almeno sulla carta), ma che presenta notevoli criticità logistiche e tempi sicuramente dilatati per bonifica e riconversione dei siti indicati e in mancanza di un piano nazionale di finanziamento adeguato per la messa in sicurezza del territorio. Numerosi esempi nel recente passato testimoniano come, in mancanza di interventi mirati per la salvaguardia del territorio, i programmi emergenziali (slegati da questi) porteranno i depositi a divenire permanenti, col rischio di trattenere in maniera definitiva le opere d’arte, decontestualizzando e privandole dai luoghi d’origine, con esiti nefasti.
Una misura, peraltro, che va ad inserirsi nel piano dei “grandi attrattori” culturali perseguita dall’attuale ministero e che andrebbe totalmente rivista.
DIGITALIZZAZIONE DEL PATRIMONIO MUSEALE, ARCHIVISTICO E BIBLIOTECARIO (Misura 1 – 1,100 Miliardi)
Nel primo dei quattro interventi del Pnrr dedicati ai settori della cultura, del turismo e dello spettacolo si legge che è previsto il sostegno ad una grande opera di digitalizzazione di «quanto è contenuto in musei, archivi, biblioteche e luoghi della cultura, così da consentire a cittadini e operatori di settore di esplorare nuove forme di fruizione del patrimonio culturale e di avere un più semplice ed efficace rapporto con la pubblica amministrazione» (p. 106). L’obiettivo è lodevole: la digitalizzazione dei beni culturali conservati in musei, biblioteche ed archivi è un intervento certamente necessario e su cui è giusto investire una somma sostanziosa come sono i 500 milioni di euro che il Piano prevede per questo punto.
E’ bene ricordare che quella della digitalizzazione è un’operazione molto seria e che i tentativi fatti negli ultimi anni in questa direzione (sempre sotto la guida di Franceschini) sono risultati in grandi sprechi di risorse economiche e in sostanziali fallimenti.
I motivi principali sono 2:
la grave obsolescenza degli strumenti tecnici e informatici di cui dispongono le istituzioni che si occupano di conservazione e tutela del patrimonio;
la drammatica carenza di personale che da anni interessa il settore.
Ciononostante, le pagine dedicate alla cultura sembrano mostrare gli stessi vizi che hanno caratterizzato gli interventi precedenti, cioè l’espressione di linee guida piuttosto vaghe e distanti dalla quotidianità di musei, archivi e biblioteche.
La digitalizzazione non può essere diretta dall’alto o dall’esterno, ma deve coinvolgere in primis le istituzioni interessate, ognuna delle quali ha bisogno di un piano specifico disegnato in base alle specifiche necessità. Perché non basta digitalizzare perché questo risulti utile, dipende in che modo lo fai e come lo pensi.
Considerate queste premesse, risulta evidente la grave lacuna del Piano, ossia la generale assenza di interventi di carattere strutturale. Non si parla da nessuna parte di come affrontare la carenza di personale, non viene disegnato nessun piano di assunzioni stabili e regolari. Va ricordato che nel solo ambito museale mancavano nel 2020 circa il 35% del personale di custodia e il 32% dei funzionari, e che lo stesso Ministero della Cultura è sotto personale per più di seimila unità. Per di più, la crisi lavorativa del settore non è solamente numerica, ma riguarda anche la qualità. Tirocini e volontariato coatto la fanno da padrone, così come i contratti a termine sottopagati e molto spesso diversi dal CCNL Federculture che dovrebbe regolamentare i lavoratori della categoria in questione.
Nonostante lo scenario sia desolante, il Pnrr pare non prevedere né un vero e proprio piano di assunzioni né, tantomeno, interventi di regolamentazione del lavoro già esistente. Le uniche righe che interessano direttamente i lavoratori fanno riferimento alla necessità di upskilling e reskilling, soprattutto in relazione alle competenze digitali ed informatiche. Non c’è nulla di male nel formare i lavoratori, spesso già iperspecializzati, ma, come si è cercato di spiegare, non è assolutamente questo il limite del sistema culturale italiano, è l’assenza del numero sufficiente di professionisti regolarmente occupati.
La carenza di personale pesa particolarmente quando si parla di digitalizzazione. La tecnologia muta e si evolve a ritmi forsennati, e con essa si trasformano i sistemi stessi di digitalizzazione del patrimonio culturale. Ciò significa che l’informatizzazione delle ricchezze archivistiche, bibliotecarie e museali del nostro paese è un processo che necessita di continuo aggiornamento, non qualcosa che comincia e finisce in un preciso lasso di tempo. Per questo sarebbe totalmente illogico ricorrere ad assunzioni a termine di personale specializzato o, peggio, a tirocini (come vorrebbe il MIC), si rischierebbe, tra qualche decennio o forse anche meno, di essere nella stessa condizione di obsolescenza. È necessario assumere professionisti che possano stabilmente occuparsi di questo fondamentale processo.
Un’altra perplessità che lascia il Pnrr riguarda la possibilità, per non dire probabilità o semi-certezza, di ricorrere alle esternalizzazioni. Nel cappello introduttivo si legge che per ogni intervento «saranno anche coinvolti i privati, i cittadini e le comunità sia in termini di incentivazione delle sponsorship, sia attraverso forme di governance multilivello, in linea con la “Convenzione di Faro” sul valore del patrimonio culturale per la società, e con il Quadro di azione europeo per il patrimonio culturale, che invita a promuovere approcci integrati e partecipativi al fine di generare benefici nei quattro pilastri dello sviluppo sostenibile: l’economia, la diversità culturale, la società e l’ambiente» (p. 106). L’esternalizzazione del processo di digitalizzazione del patrimonio culturale sarebbe dannosissimo, perché, come si è già accennato, ogni istituzione presenta delle specificità che rendono poco desiderabile una direzione “esterna”. Senza contare, poi, che le esternalizzazioni sono una piaga nel settore dalla lontana legge Ronchey del 1993. Non solo non permettono alle amministrazioni di risparmiare alcunché, ma drenano una quantità incredibile di introiti a spese dei lavoratori (sfruttati) e della qualità del servizio.
La digitalizzazione o scomparsa pratica
La vaghezza del concetto di digitalizzazione come salvaguardia del patrimonio culturale italiano per le prossime generazioni si scontra con ciò che accade nella realtà dei fatti da ormai più di trent’anni.
Non è possibile pensare di utilizzare la digitalizzazione come strumento di conservazione dell’arte, le recenti prove generali sono avvenute proprio con la scusa dell’emergenza covid, dirottando l’attenzione dal valore delle rappresentazioni artistiche dal vivo verso l’adozione di piattaforme streaming, per altro con scarso successo, creazione della piattaforma ITsART (orfana da pochissimo dell’Amministratore Delegato).
Per attenzione si intende la valorizzazione delle capacità tecniche e artistiche di tutti quei lavoratori che si muovono nell’ambito dello spettacolo culturale dal vivo.
Le nuove generazioni non sapranno più cosa significa entrare in un teatro, guardare un attore recitare dal vivo, ascoltare il vero suono di un’orchestra in una sala da concerto, respirare con il perfetto ritmo di un corpo di ballo che volteggia con grazia e maestria su un palcoscenico o godere di tutte queste meraviglie messe insieme in un’opera lirica.
Tutto questo non potrà più avvenire se non si prende in considerazione un semplice problema di base, la scelta politica di questi ultimi decenni di individuare i lavoratori con i loro stipendi o cachet come un problema da eliminare utilizzando sempre scuse di carattere economico. La trasformazione da enti (statali) a fondazioni lirico-sinfoniche (fintamente private) è stata un esperimento assolutamente fallimentare che ha portato i teatri lirici italiani sull’orlo del baratro ma ha permesso di utilizzare i soldi pubblici per qualunque cosa fosse esternalizzazione appalto o consulenza, demonizzando buste paga e piante organiche, entrambe ridotte ben al di sotto del ‘minimo sindacale’, con le quali è evidentemente più difficile applicare i criteri della ‘finanza creativa’ tanto cara alla nostra politica nazionale. Nonostante il fallimento sia sotto gli occhi di tutti lo stesso modello si vuole adesso applicare al Teatro di Roma contagiando così anche il teatro di prosa già in ginocchio per svariati motivi.
Deve essere chiaro il concetto che se in un momento di grave crisi come possono essere le guerre, anche di carattere economico finanziario o sanitario, si prendono dei quadri o delle statue e li si conservano in un caveau, dopo anni, se ben conservati, saranno ancora fruibile dalle nuove generazioni ma se si parla di opere d’arte performative, una volta dispersa la capacità di rappresentare tale arte, nulla sarà più utilizzabile.