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Vita, lavoro e lotta nell’epicentro: intervista ad Eliana Como

padroni-assassini

[D] Il pressing di Confindustria, da settimane è diventato asfissiante. Soprattutto nell’ultima settimana non si è fatto che discutere di questa fantasmagorica “fase 2”. Continuiamo ad avere centinaia di decessi quotidiani, migliaia di persone infette. Non siamo ancora usciti dall’emergenza e dal rischio ancora grave di un possibile contagio di ritorno. Eppure l’unione degli industriali concepisce solo una cosa: riaprire per far ripartire i profitti.

Lo scorso 8 aprile, la Confindustria di Lombardia Emilia Romagna, Piemonte e Veneto hanno sottoscritto un’agenda per la riapertura delle imprese. Nel documento indirizzato al Governo si può leggere:
«Se le quattro principali regioni del Nord che rappresentano il 45% del PIL italiano non riusciranno a ripartire nel breve periodo il Paese rischia di spegnere definitivamente il proprio motore e ogni giorno che passa rappresenta un rischio in più di non riuscire più a rimetterlo in marcia.

Prolungare il lockdown significa continuare a non produrre, perdere clienti e relazioni internazionali, non fatturare con l’effetto che molte imprese finiranno per non essere in grado di pagare gli stipendi del prossimo mese. Chiediamo quindi di definire una roadmap per una riapertura ordinata e in piena sicurezza del cuore del sistema economico del Paese. È ora necessario concretizzare la “Fase 2”».

Eliana, la scelta è tra la tenuta dell’economia nazionale e la salute della popolazione?

[Eliana] No, il dilemma non si pone. Tra la salute e l’economia non c’è alcuna scelta da fare. Nessuna società democratica può permettersi di anteporre gli interessi economici alla salute dei cittadini/e. In questa emergenza, è stato fatto fin troppo, rinviando di settimane, in modo criminale, la decisione di fermare ogni produzione che non fosse strettamente necessaria. Se in Lombardia la situazione è fuori controllo, si deve principalmente a questo incredibile ritardo.

Aggiungo che una società democratica non è degna di questo nome nemmeno se ha più fretta di far ripartire le fabbriche che le scuole. Faccio una provocazione: se davvero non corriamo rischi e quindi possiamo tornare in fabbrica a lavorare (ammesso e non concesso), possibile poi che non possano riaprire le scuole fino a settembre e i bambini siano confinati in casa?  E ancora, se possiamo andare a lavorare, io inizio a rivendicare che allora possiamo anche fare assemblee, riunioni e persino manifestare. Di certo, scioperare. 

È di pochi giorni fa la notizia della minaccia di sciopero degli infermieri di Piacenza, dove sono arrivate 1.273 richieste di deroga al prefetto di altrettante aziende che continuano a lavorare perché si ritengono essenziali. I rappresentanti sindacali degli infermieri hanno minacciato lo sciopero dichiarando che queste autorizzazioni fanno temere un pericoloso colpo di coda in una fase che non è di ripresa, bensì ancora di picco.
In Veneto sono oltre 11 mila le aziende ancora aperte. Analoga la situazione in Lombardia, dove 1800 aziende sono ancora attive a Bergamo. Moltissime quindi le richieste di deroga al prefetto, molte ancora le aziende che hanno repentinamente cambiato codice ATECO per continuare a produrre.
Pare che il decreto governativo non abbia sortito gli effetti sperati…

Sì, è così. La verità è che Confindustria piange miseria anche se ha già quello che vuole: il lockdown non c’è mai stato e il paese non si è affatto fermato. Il DCPM del 22 marzo è un colabrodo e, attraverso l’autocertificazione ai prefetti, le imprese sono libere di fare qualsiasi forzatura e continuare a produrre anche se non sono essenziali: sono decine e decine di migliaia le imprese che si sono autocertificate al prefetto, nella sola Lombardia sono 14 mila. Lo registra persino l’Istat: oltre la metà dei lavoratori e delle lavoratrici, ancora a fine marzo, continuava a uscire di casa più o meno regolarmente per andare al lavoro.

Da dopo Pasqua la spinta a riaprire è stata ancora più forte. Lunedì prossimo sarà una valanga, nonostante la proroga del DCPM fino al 3 maggio. Dove abbiamo la forza sindacale, più o meno ce l’abbiamo fatta a tenere chiuse le fabbriche, ma stiamo parlando solo di quelle grandi e nemmeno tutte. Non credo che riusciremo a reggere ancora a lungo, di fronte a un attacco così feroce di Confindustria. Il rischio è che si scarichi tutto sui delegati. Per questo penso che servirebbe una posizione molto più forte di tutto il sindacato, a partire dai vertici. 
Hanno fatto benissimo gli infermieri/e di Piacenza a minacciare lo sciopero se le fabbriche dovessero riaprire (lo sciopero è indetto da Cgil Cisl e Uil del settore pubblico).

Probabilmente si tratta più di un fatto simbolico che altro: tutto il personale medico e sanitario è impegnato da oltre un mese e mezzo a tentare di salvare vite umane in condizioni disperate, a rischio della propria salute. Purtroppo tanti medici e infermieri sono morti a causa del contagio. Chi vive questa condizione non sta certo parlando di sciopero a sproposito. Lo fanno, però, perché sia chiaro a tutti che chi riapre le fabbriche si assume la responsabilità di vanificare lo sforzo incredibile che stanno facendo negli ospedali, riportando il contagio a condizioni di non controllo.

È un atto forte e molto importante. A me piacerebbe che il sindacato tutto, a livello nazionale, fosse in grado di lanciare una parola d’ordine così potente, tanto più di fronte alla incredibile violenza e spregiudicatezza di Confindustria: “se ci trattate come carne da cannone, sappiate che noi siamo disposti a tutto e ci fermiamo, andateci poi voi negli ospedali a lavorare, rischiando la vita e senza nemmeno i DPI necessari”.

Purtroppo, dal sindacato, a livello nazionale, c’è molta più timidezza. Lo dico senza remora, anche dei vertici del mio sindacato, la Cgil. E, soprattutto, pare che proprio non ci si riesca a liberare da una quasi atavica richiesta di dialogo con il governo e dal richiamo a un senso di responsabilità e di unità nazionale. È un atteggiamento che io non condividevo e contestavo anche prima. Ora lo capisco ancora meno: nessun dialogo, nessuna unità nazionale, nessun senso di responsabilità con una Confindustria che non si è fatta scrupolo a difendere i propri profitti e imporre il proprio potere per non fermare le fabbriche, persino contro il parere dell’Istituto Superiore di Sanità!

Negli ultimissimi giorni sono state aperte delle inchieste su Alzano Lombardo e Nembro, piccole comunità in provincia di Bergamo, dove già a metà febbraio pare fossero stati individuati i primi pazienti «anomali». Il 12 febbraio viene ricoverata un’anziana signora nell’ospedale di Alzano Lombardo, destinata a morire dieci giorni dopo per lo sviluppo di una grave polmonite. Una vittima del Covid-19? Tra il 21 e il 25 febbraio, diventa evidente l’esistenza del focolaio di Alzano-Nembro: entrano in pronto soccorso, con patologie riconducibili al Covid-19 e subito positivi al tampone, sei persone provenienti da quei due comuni. Intanto il comune di Codogno è già stato dichiarato zona rossa.
Denunciati i mancati interventi delle autorità responsabili, il via vai di persone mai interrotto nell’ospedale di Alzano Lombardo, che ha prodotto il diffondersi rapido dell’epidemia nel circondario. Nelle mail e nei verbali delle riunioni il rimpallo di responsabilità tra Governo e Regione. Il Comitato tecnico-scientifico a inizio marzo propone la «zona rossa» ma non è ascoltato. Le autorità locali e nazionali tacciono. Un’eventuale zona rossa nei comuni di Alzano Lombardo e di Nembro, dal punto di vista delle imprese coinvolte riguarderebbe circa 3.700 dipendenti in 376 aziende, per complessivi 680 milioni l’anno di fatturato. Dopo un mese i morti ufficiosi nel bergamasco sono 4500, mentre assistiamo a un profondersi di scuse e di accuse tra Regione e Governo.
Eliana, da bergamasca che effetto fa vedere questo dramma dispiegarsi impunemente sotto i propri occhi?

Finalmente questi fatti sono usciti anche sui media nazionali: prima Chi l’ha visto? poi Report, il Corriere e via dicendo. Qui a Bergamo, tra i compagni/e lo stiamo denunciando fin dall’inizio. La scelta di non istituire la zona rossa anche in Val Seriana, poche ore dopo la chiusura dei comuni intorno a Codogno, è stata una sciagura. Se fossero intervenuti subito, come dichiaravano le stesse autorità mediche, verosimilmente non si sarebbe prodotta questa tragedia.

Il caso di Lodi ha dimostrato che circoscrivere subito un focolaio impedisce il diffondersi incontrollato del contagio e limita i danni. 
Che cosa ha suggerito invece di non chiudere la Val Seriana e lasciare che il virus si diffondesse in tutta la provincia di Bergamo, Brescia e dintorni? Gli interessi delle imprese! Semplice, quanto criminale. La Val Seriana è una zona ad alta intensità produttiva. Gli interessi delle industrie manifatturiere hanno prevalso sulla salute della popolazione. Si torna a quello che abbiamo detto all’inizio: non dovrebbe esserci scelta tra la salute e il profitto. Eppure la prima è stata subordinata al secondo.

Sappiamo i nomi e i cognomi degli imprenditori che hanno fatto pressioni sugli amministratori regionali e nazionali affinché non si scongiurasse la zona rossa. Uno di loro sappiamo che arrivò persino a scrivere una lettera pubblica al sole24ore, il 6 marzo, per dire che avrebbe disobbedito in caso di zona rossa e continuato comunque a mandare a lavoro i propri operai. Lettera che la redazione del giornale decise di non pubblicare, evidentemente cogliendone la gravità. Sappiamo i nomi, conosciamo ogni singola responsabilità. Speriamo prima o poi di avere anche le prove e pretendere giustizia.

È insopportabile come si stanno rimpallando le responsabilità l’uno con l’altro. È un teatrino disgustoso: i sindaci della Val Seriana fanno finta di non essere stati loro stessi a invocare che non si facesse la zona rossa. Il Governo dice che avrebbe potuto istituirla la Regione. La Regione dichiara che attendeva che lo facesse il Governo. Incredibile: la stessa classe politica che per anni ci ha riempito di retorica secessionista, ora piagnucola perché Roma non è intervenuta! La verità è una sola: per quanto voi vi crediate assolti, sarete per sempre coinvolti. Tutti!

Fa male, assistere a tutto questo. Non credo di riuscire a spiegare il senso di rabbia e di frustrazione. Soprattutto di chi, come noi qui a Bergamo, ha avuto il coraggio di denunciare da subito, in quei giorni, quello che stava accadendo. Quando è andato in onda Report mi sono sentita letteralmente svuotata (io come tanti altri compagni/e): vedere su Rai 3 che veniva confermato in prima serata tutto quello che stavamo dicendo da un mese, non mi ha affatto consolata. Mi veniva piuttosto voglia di urlare, tanta era la rabbia. Ti rendi conto: se ci avessero ascoltato allora questa tragedia non ci sarebbe stata! Non dico che si poteva evitare, ma di certo limitare.

Vedere in televisione la verità, tutta la verità, niente altro che la verità dovrebbe darti soddisfazione. Ma non se accade un mese dopo. E soprattutto dopo che 5000 persone sono morte nella tua città. 
Spero che la città non dimentichi quanto è accaduto: le responsabilità degli imprenditori, la palese incapacità della giunta regionale, le scelte del governo, i mezzi militari che portano via i nostri morti, l’ecatombe delle case di riposo, gli errori, le ipocrisie, ogni singola ingiustizia.

Vorrei finalmente vedere questa città riscattarsi e non soltanto sventolare tricolori o rassegnarsi a incassare dietro la retorica del “mola mia” (in dialetto: non mollare mica!): può capitare qualsiasi cosa, ma tu va avanti, prega Dio, china il capo e non mollare. Molto cattolico e anche un po’ machista.

Hai visto L’albero degli zoccoli? Un film meraviglioso sulla vita dei contadini bergamaschi all’inizio del secolo, ambientato nelle campagne della bassa. La fine del film è emblematica: la famiglia del contadino che è stato crudelmente licenziato dal padrone raccoglie su un carretto le proprie umili cose e lascia la cascina, diretta verso il nulla, in una gelida mattina di nebbia. I vicini, chiusi nelle loro case, guardano e pregano che non accada a loro. Ecco, vorrei cambiare la fine: i vicini escono dalle loro case, occupano la cascina e la restituiscono alla famiglia che la abita. 

A proposito: il contadino viene licenziato perché il padrone ha scoperto che ha tagliato un tronco per intagliare gli zoccoli al figlio affinché possa andare a scuola. Lo ricordo per dire di nuovo che la scuola è più importante del lavoro. Se possono riaprire le fabbriche, vogliamo che riaprano anche le scuole. 

Di fronte a tutto questo ci sembra evidente come l’esagerata e martellante insistenza sul controllo dei comportamenti individuali, gli interventi della polizia che hanno travalicato il limite della brutalità, l’invito alla delazione nei confronti del vicino di casa, l’utilizzo di droni e la tracciatura dei cellulari, gli inviti a imparare a “convivere” con il virus e il rischio di contrarlo hanno la capacità di nascondere le vere responsabilità più che di prevenire il contagio. Ma c’è chi non dimenticherà i veri responsabili di questa storia.
Intanto, dopo l’emergenza sanitaria un’altra emergenza si prevede: quella economica e sociale, tutte le tendenze lasciano presagire tempi durissimi, aumento della disoccupazione, salari in caduta, misure lacrime e sangue, ci chiediamo per le classi popolari e lavoratrici?
Eliana come usciremo dalla crisi economica e sociale che ci aspetta? Con quali proposte? Con quali prospettive di lotta e di organizzazione?

Temo che saranno sempre le classi popolari e il mondo del lavoro a pagare. Gli stessi che stanno pagando ora, non soltanto dal punto di vista della salute e della sicurezza, ma anche da quello economico. Già ora, il governo ha annunciato risorse enormi per le imprese, ma per i lavoratori, se va bene, ci sono 9 settimane di cassa integrazione, più o meno al 50% del salario. Se va bene: perché se eri precario hai già perso il lavoro e se, sciaguratamente, eri in nero ora sei senza lavoro e senza reddito.

So che soprattutto al sud, dove già prima la disoccupazione era più alta e la povertà maggiore, questo rischia di essere un problema sociale enorme. In realtà, anche al nord, in particolare nelle periferie delle metropoli. In molti quartieri di Milano, la situazione sta diventando insostenibile.

Anche dopo, cercheranno di far pagare a noi il prezzo della crisi economica. Appena le imprese potranno licenziare, lo faranno. E dubito che finalmente aumenteranno i salari visto che si è capito che senza i lavoratori e le lavoratrici il paese non va avanti, alla faccia della retorica dell’automazione e delle delocalizzazioni (e, ancora di più, delle tesi, tanto inutili quanto dannose, della fine della classe operaia…). Tanto più che, se l’Europa ci imporrà il MES, usciremo da questa vicenda con il cappio al collo delle politiche di austerità.

Però non voglio disperare! Questa vicenda penso che possa anche aiutarci. La tragedia ha mostrato con ogni evidenza che alcune delle cose che la sinistra radicale dice da sempre non sono più rinviabili. Cerchiamo allora di uscirne con forza! Bisogna investire nella sanità e nei servizi pubblici, mai più un euro alla sanità privata, senza i lavoratori e le lavoratrici il paese si ferma! Basta con la precarietà e con i salari da fame! la vita vale più del profitto e i padroni non hanno alcuno scrupolo a mandare al massacro chi lavora per loro (così come non si fanno remore a licenziarti in blocco quando non gli conviene farti lavorare).

Chissà, magari riusciamo persino a fare un miracolo e intorno a queste poche semplici cose riusciamo persino a riunificare la galassia della sinistra radicale…

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