Nel decimo anniversario della rivoluzione tunisina abbiamo intervistato Ali Jallouli, membro del comitato centrale del Partito dei lavoratori. Tracciamo un bilancio del percorso avviato con la cacciata di Ben Ali e parliamo della Tunisia di oggi e delle prospettive future. Ragioniamo in questa congiuntura storica non semplice, tra pandemia e sfide geopolitiche regionali.
Un dialogo secondo noi necessario per capire la fase attuale che attraversa la sponda sud del Mediterraneo. Un’ondata rivoluzionaria l’ha scossa dieci anni fa ma non è riuscita ad imprimere quel cambiamento reale delle condizioni di vita che molti si aspettavano.
Nonostante ciò le organizzazioni politiche e popolari, in Tunisia come altrove, continuano ad organizzarsi e mobilitarsi per un futuro diverso. Il nostro compito non è solo quello di supportarle ma di costruire legami duraturi per alimentare ed unire le lotte da una sponda all’altra del Mediterraneo.
Il 14 Gennaio 2011 ha rappresentato l’apice di un percorso rivoluzionario, popolare, di massa e ampio.
Tutto è iniziato il 17 Dicembre nella città di Sidi Bouzid dopo che un giovane venditore ambulante del posto, Mohamed Bouazizi, si era suicidato.
Mohamed si era dato fuoco in seguito agli abusi subiti dalla polizia locale, che lo vessava in continuazione solo per il fatto di essere sprovvisto della licenza.
Questo evento ha messo in evidenza i gravi problemi sociali presenti in Tunisia.
Marginalizzazione, povertà ed esclusione sociale colpivano in maniera importante diversi settori della popolazione, in particolare i giovani.
Questo primo moto rivoluzionario ha iniziato a espandersi non solo a Sidi Bouzid ma anche nelle zone limitrofe, nelle regioni interne come Gafsa e Kasserine.
Alla fine del mese di Dicembre Ben Ali ha continuato nella sua feroce repressione, con gli assalti della polizia ai manifestanti e l’arresto di centinaia di giovani.
Le forze dell’ordine non hanno esitato ad aprire il fuoco contro i manifestanti e Ben Ali ha ordinato all’esercito di scendere in strada.
Questa enorme repressione però ha avuto l’effetto contrario da quello auspicato dal regime.
Il sostegno nei confronti di questo neonato movimento rivoluzionario è cresciuto a dismisura coinvolgendo altri settori sociali, con al centro sempre il protagonismo dei giovani.
In seguito anche i sindacati hanno iniziato a solidarizzare con le proteste e a schierarsi contro la repressione.
Nonostante l’allora dirigenza sindacale dell’UGTT fosse vicina al regime, c’erano diversi settori conosciuti per far parte dell’opposizione. Ad esempio quello dell’istruzione, della sanità e delle poste hanno da subito sostenuto il movimento rivoluzionario.
Il 12 Gennaio è stato proclamato uno sciopero generale nella regione di Sfax, tra i più grandi della storia del paese.
Decine e decine di migliaia di lavoratori hanno partecipato, intonando gli slogan della rivoluzione, come ad esempio “lavoro, libertà, dignità (nazionale)”.
Al centro delle rivendicazioni c’era l’attacco alla corruzione dilagante nel paese e al sistema mafioso della famiglia Ben Ali.
Costoro controllavano ogni cosa in Tunisia, dalla politica all’economia, all’informazione, agli apparati di sicurezza, a qualsiasi livello istituzionale.
Il 14 Gennaio uno sciopero generale voluto con forza dai settori di opposizione del sindacato ha visto le strade della capitale riempirsi di migliaia di persone che aumentavano sempre di più con il passare delle ore.
Il corteo si è diretto in maniera decisa verso la sede del ministero dell’interno intonando gli slogan della rivoluzione ed il famoso “dégage”.
La sera, con la capitale in rivolta, abbiamo assistito all’annuncio della dipartita di Ben Ali. Sono state ore e giorni memorabili che porteremo sempre con noi.
Oggi, a 10 anni dalla caduta di Ben Ali, come Partito dei Lavoratori notiamo che i risultati ottenuti sono molto deboli e negativi in tutti i settori: sanitario, educativo, economico, sociale, politico e ambientale.
Quello a cui abbiamo assistito è stato un importante cambiamento nella forma di governo.
Siamo passati dalla dittatura di un solo uomo a un regime democratico che assicura le libertà fondamentali (libertà di organizzarsi, di esprimersi, di manifestare, di voto).
Ci sono alcuni innegabili progressi garantiti dalla rivoluzione, ma assistiamo a diversi tentativi di eliminarli.
Come dicevo, sebbene possiamo parlare di un cambiamento nella forma di governo, da una dittatura alla democrazia, bisogna sottolineare come oggi questa democrazia sia quella dei liberali e dei capitalisti che controllano il processo decisionale.
Questo ha portato alla mancanza di risultati della rivoluzione da un punto di vista sociale.
La situazione socio-economica del paese sta, anzi, peggiorando in questi anni.
In Tunisia si assiste ad una riduzione dei posti di lavoro e delle prospettive per il futuro. Ma i partiti politici che ora sono al potere hanno mantenuto le stesse strategie di quelli che li hanno preceduti.
Questi sono i risultati delle politiche liberiste dei partiti islamisti e liberali che si sono succeduti al governo nel corso degli ultimi anni.
Non crediamo che queste stesse strategie porteranno risultati differenti.
Uno dei motivi alla base della rivoluzione in Tunisia è proprio l’importante divario che esiste in termini di sviluppo e disuguaglianze a livello regionale.
Questo è causato dall’adozione di programmi di sviluppo non sostenibili che non hanno fatto altro che aumentare queste disuguaglianze.
Le principali attività economiche , le banche, le istituzioni politiche, sono tutte nelle città costiere.
Il modello di sviluppo capitalista e la strategia politica liberale si sono basate sulla loro concentrazione sulla fascia costiera per garantire un collegamento diretto, tramite le infrastrutture aeroportuali e portuali, con i paesi liberali occidentali.
Nonostante le aree interne posseggano le principali risorse naturali del paese esse sono segnate dall’inquinamento e dalla disoccupazione.
Per esempio la regione di Gafsa è famosa per essere ricca di fosfati, la cui lavorazione avviene però al di fuori. La regione viene sfruttata solo per l’estrazione, non creando posti di lavoro a sufficienza per la gente del posto e causando un forte inquinamento.
Ci troviamo in un paese dove l’esclusione sociale delle zone interne raggiunge dei livelli allarmanti.
Le principale attività economiche continuano ad essere situate solo nella fascia costiera.
Anche nelle città costiere, però, ci sono delle enormi disuguaglianze sociali.
I diritti vengono tutelati solo alla borghesia che vive nei quartieri benestanti e vivibili, mentre una grossa fetta di lavoratori e disoccupati è costretta a sopravvivere in condizioni difficili nelle periferie e nei quartieri popolari.
I giovani hanno avuto un ruolo fondamentale nel processo rivoluzionario del 2010-2011.
Ancora oggi sono in prima linea, dieci anni dopo, nelle lotte contro la povertà e l’esclusione sociale.
Oggi i giovani devono ancora fare molti sacrifici per andare avanti e si trovano in una situazione di sofferenza a causa della disoccupazione e dell’esclusione sociale.
Ci sono problemi anche da un punto di vista educativo con una rilevante dispersione scolastica.
Le scuole in Tunisia ogni anno assistono all’abbandono di migliaia di giovani che non si diplomano.
In 10 anni dal 2011, si calcola che circa un milione di giovani non ha portato a termine gli studi, senza ottenere il diploma.
Anche questo, unito alla disoccupazione e all’assenza di prospettive, è uno dei fattori che spiega perché i giovani tunisini rischiano la vita attraversando il mare per arrivare in Italia, ed in Europa, dove però poi finiscono rinchiusi nei CPR.
Chi riesce a sfuggire all’espulsione molte volte è costretto a vivere in condizioni difficili, contraddistinte dal lavoro nero e dall’assenza di diritti, che poi porta alcuni a finire anche nelle mani della criminalità.
Come dicevo i giovani si sono sacrificati e hanno guidato la rivoluzione per porre fine alla dittatura di Ben Ali. Ma ancora oggi soffrono di disoccupazione, povertà e marginalizzazione.
Dopo dieci anni dalla rivoluzione, nonostante tutte le difficoltà, i giovani però continuano a svolgere il proprio ruolo fondamentale all’interno delle lotte nel nostro paese.
Oggi assistiamo in tutta la Tunisia a proteste con in prima fila giovani che chiedono lavoro e diritti sociali.
La Tunisia ha una lunga storia di organizzazione e militanza sindacale.
Il principale sindacato del paese, l’UGTT è stato fondato nel 1946 ed è stato uno dei primi sindacati in Africa e nel mondo arabo.
Le prime forme di sindacalizzazione, però, possiamo farle addirittura risalire al 1924, con il primo movimento operaio di tutta la regione.
I lavoratori hanno avuto un ruolo fondamentale sia nella lotta contro il colonialismo che poi in epoca repubblicana contro le dittature di Bourguiba e di Ben Ali.
Nonostante i tentativi dei regimi, soprattutto quello di Ben Ali, di controllare i sindacati, essi hanno svolto un ruolo decisivo per porre fine alla dittatura.
Possiamo dire che lo sciopero generale dei lavoratori a Sfax del 12 Gennaio ha fatto iniziare il conto alla rovescia per la cacciata di Ben Ali.
Sfax è la capitale industriale del paese, e quel giorno quasi 1 milione di manifestanti scesero in strada per invocare la caduta del regime.
Anche il 14 Gennaio, giorno storico in cui finalmente abbiamo sconfitto la dittatura di Ben Ali, è stato contraddistinto dallo sciopero generale nella capitale e nelle principali città del paese.
Il ruolo dei lavoratori è stato sempre determinante nei momenti cruciali della storia del nostro paese e lo è ancora oggi.
Assistiamo a proteste e scioperi diffusi contro le condizioni di enorme precarietà e sfruttamento in diversi settori lavorativi.
Dobbiamo però sottolineare come purtroppo il movimento sindacale sia frenato dalla burocrazia degli organi dirigenti che in molti casi non approvano ed incentivano le lotte e gli scioperi.
I movimenti islamisti e populisti hanno guadagnato molto terreno in Tunisia.
Il movimento islamista in realtà esiste almeno fin dagli anni ’70.
Anche loro sono stati vittima della repressione di Ben Ali, con i dirigenti che si sono rifugiati all’estero.
Ma diversi gruppi e cellule hanno continuato a militare sotto traccia nel paese.
Dopo la rivoluzione, beneficiando delle nuove libertà politiche concesse a tutti, il movimento islamista ha avuto l’opportunità di organizzarsi e trarne vantaggio.
Ciò è avvenuto sebbene non abbia giocato alcun ruolo nella rivoluzione, probabilmente a causa della paura che i propri militanti avevano nel regime.
Al contrario, migliaia di militanti di sinistra hanno partecipato in maniera convinta e determinata alla rivoluzione.
È utile ricordare come la sinistra in Tunisia abbia una lunga storia, con le prime organizzazioni formatesi già negli anni ’20.
Una storia articolata e progredita in varie forme, che proprio quest’anno compie cento anni dalla fondazione della prima organizzazione.
Nonostante la presenza che potremmo definire capillare dei movimenti progressisti in molti settori, purtroppo negli ultimi anni a livello elettorale nessuna formazione è riuscita ad incidere a causa delle fratture che ci sono.
Anche per questo il movimento islamista si è potuto riorganizzare e ha beneficiato della divisione nei gruppi di sinistra.
Le dinamiche divisive tra le varie anime della sinistra in Tunisia sono simili a quelle che riscontriamo purtroppo in tutto il mondo.
Invece gli islamisti sono riusciti ad essere compatti, organizzandosi sotto un unico gruppo (il movimento Ennahda) che gli ha permesso di conquistare il potere.
Mentre la sinistra ha partecipato alle elezioni con tante liste differenti ottenendo risultati molto deludenti.
Da un punto di vista politico gli islamisti dopo aver vinto le elezioni hanno lavorato a stretto contatto con la borghesia e gli imperialisti che hanno sostenuto il regime.
Hanno protetto i loro interessi e hanno potuto infiltrarsi in profondità nelle istituzioni statali e nell’economia nazionale.
Inoltre la pericolosità degli islamisti deriva anche dai loro noti legami con gruppi terroristici, insieme ai quali sono implicati in traffici illeciti basati sul contrabbando.
Per quanto riguarda i movimenti populisti essi hanno sfruttato a fini politici la disperazione e la frustrazione di una parte del popolo tunisino.
Ad esempio, l’attuale presidente della repubblica Kais Saied si è concentrato sull’attaccare i partiti politici dicendo che sono tutti uguali e che pensano solo ai propri interessi.
La gente lo ha votato per l’immagine diffusa di se stesso come icona della trasparenza e di una persona pulita.
Ma pochi giorni fa, un rapporto di giudici indipendenti ha rivelato inquietanti ombre di compravendita di voti ed una mirata strategia di diffusione sui social media di fake news nelle scorse elezioni presidenziali di fine 2019.
Questi elementi le renderebbero non regolari e illegali.
Il sistema giuridico tunisino e la commissione elettorale responsabile della situazione dovrebbero, ma non l’hanno ancora fatto, contestare i risultati delle elezioni e sciogliere il parlamento.
Come gli islamisti anche i populisti stanno beneficiando della divisione dei movimenti progressisti in Tunisia.
Questi ultimi, nonostante la loro lunga storia di lotte, hanno al loro interno fazioni riformiste che non credono nell’organizzazione di un forte movimento rivoluzionario e spingono a rassegnarsi alla situazione attuale.
Oggi in Tunisia, se il movimento di sinistra fosse unito sotto un unico programma di cambiamento popolare credibile, potrebbe di nuovo avere una rappresentanza politica forte.
Lo dimostra il “Fronte popolare”, che ha ottenuto il 3 ° posto alle elezioni presidenziali nel 2014 e 15 parlamentari sempre nello stesso anno, circostanza che non aveva precedenti in tutti paesi arabi.
Purtroppo però ancora diverse organizzazioni di sinistra si concentrano troppo sulle differenze interne invece di affrontare le forze oscurantiste, islamiste e populiste.
Come partito dei lavoratori non crediamo che le rivoluzioni siano state pilotate e, in particolare modo in Tunisia, non crediamo nemmeno che la rivoluzione abbia perso.
C’è uno scontro ancora in atto tra la rivoluzione e la controrivoluzione.
Il movimento progressista sta ancora combattendo e resistendo nonostante il fatto che i partiti al potere possano contare sull’appoggio e sui benefici dei capitalisti locali, nonché sul sostegno imperialista internazionale.
La nostra gente non si arrende.
Nonostante il COVID, che per forza di cose ha rallentato le mobilitazioni, recentemente stiamo assistendo alla diffusione di proteste in tutto il paese e in tutti i settori.
Crediamo che questa possa essere la strada giusta per correggere il processo rivoluzionario.
Stiamo lavorando per unire i nostri sforzi con l’intento di realizzare finalmente le richieste della rivoluzione e correggerne il suo percorso.
Il nostro Nord Africa, insieme agli altri paesi arabi, rappresenta una delle aree più ricche di risorse naturali. Ma è anche una delle regioni meno sviluppate da un punto di vista socio-economico a causa dei suoi regimi militari o monarchici.
L’ignoranza, la povertà e la mancanza di istruzione hanno poi rappresentato purtroppo un terreno fertile per i movimenti politici islamisti, compresi quelli terroristi. Questie hanno aggravato il quadro e hanno contribuito a produrre l’attuale situazione di arretramento socio-economico.
Non vediamo altra opzione se non la lotta organizzata e consapevole dei lavoratori, dei giovani, dei settori più attivi della società e dei partiti progressisti per condurre verso l’attuazione di una rivoluzione popolare e democratica.
L’obiettivo è superare la dipendenza economica e l’arretratezza politica, a sconfiggere le dittature, a liberare le persone e le donne, a separare la religione e lo stato, a creare solide basi per un reale sviluppo dei nostri popoli.
In tal senso vediamo con interesse la cosiddetta seconda ondata di rivoluzioni iniziata in Algeria, Iraq, Sudan e Libano.
Notiamo come alcune di esse abbiano già realizzato parte dei propri obiettivi, come dimostra il cambiamento dei regimi precedenti in Algeria e Sudan.
Ma in Iraq e in Libano, i conflitti settari, le contraddizioni tra sunniti e sciiti, e la delicata posizione della regione in generale, segnata dall’annosa questione del controllo delle ingenti risorse petrolifere della zona e dalle relazioni con l’entità sionista, stanno complicando la situazione.
Senza dimenticare gli effetti che stanno avendo la pandemia sul movimento di protesta e sulla lotta in generale.
Tuttavia, penso che queste rivoluzioni non si siano mai fermate, ed ora si stanno riorganizzando per proseguire il proprio percorso.
Per quando riguarda le questioni geopolitiche e la normalizzazione dei rapporti con l’entità sionista noi crediamo che una delle condizioni essenziali per liberare la nostra società sia la liberazione della Palestina.
La Palestina è occupata da un’entità usurpatrice fondata dagli imperialisti americani, francesi e inglesi per controllare le risorse naturali della nostra regione.
Questa entità sta giocando il ruolo di custode degli interessi imperialisti.
Come partito dei lavoratori, insieme a tutti i movimenti progressisti in Tunisia e nei paesi arabi, siamo contro questa entità usurpatrice e sosteniamo il popolo palestinese nella sua legittima lotta per smantellare lo stato dei criminali sionisti, per liberare tutta la Palestina e creare un unico stato palestinese laico e democratico che possa accogliere tutti i suoi cittadini.
Dobbiamo abbattere questa occupazione come è stata abbattuta l’occupazione francese in Algeria.
Ciò sarà possibile e realizzabile solo grazie ad un movimento progressista unito.
Bisogna capire l’importanza di questa questione perché l’entità sionista gioca un ruolo fondamentale nel bloccare lo sviluppo nella nostra regione.
Sostiene i regimi fondamentalisti e conservatori nel Golfo, in Marocco e appoggiano tutte le fazioni retrograde.
Contratta con quei regimi nel quadro delle strategie imperialiste, in particolare dell’imperialismo americano.
Svende i diritti dei popoli, come dimostra il baratto tra la normalizzazione dei rapporti diplomatici con il regime marocchino ed il riconoscimento della sua sovranità sul Sahara Occidentale occupato.
Così come gli altri accordi di normalizzazione con il Sudan, ottenuti in cambio della sua rimozione dall’elenco dei paesi che sponsorizzano il terrorismo, ecc.
Questi accordi riflettono la natura fascista dell’entità sionista che è in contraddizione con i principi fondamentali dell’umanità.