Dopo una fase in cui sembravano essersi arrestate a causa dell’implementazione delle misure anti-Covid-19, nelle ultime due settimane sono tornate in Libano le proteste contro la crisi economica e la classe dirigente locale. La tensione è alta nel “Paese dei Cedri”, soprattutto dopo l’uccisione da parte dell’esercito libanese del 26enne Fawwaz Foud al-Samman a Tripoli (nord del Libano). Violando le misure di distanziamento sociale, Fawwaz era in piazza insieme a centinaia di altri cittadini lo scorso lunedì per manifestare contro l’ulteriore inasprimento della crisi economica che da mesi attanaglia il Paese. La situazione è presto degenerata: alla rabbia dei manifestanti che si è espressa nella devastazione di banche e Atm e nel blocco di strade, i militari hanno risposto facendo ampio uso di lacrimogeni e sparando proiettili veri. Uno di questi ha centrato Fawwaz che è morto l’indomani in ospedale per le ferite riportate.
Che la tensione sia alta soprattutto nel nord non deve sorprendere: seconda città libanese in ordine di grandezza, Tripoli è anche una delle zone più povere del Libano che di più sta pagando la devastante crisi economica che vive il Paese dei Cedri. La rabbia popolare è tanta, soprattutto dopo l’ulteriore svalutazione della moneta locale all’inizio del Ramadan, conseguenza diretta delle misure di restrizioni per fronteggiare la diffusione del Covid-19. La povertà si fa più forte proprio nelle aree del Libano periferico dove le misure messe in campo dai partiti confessionali e dallo stato non hanno potuto arginare la sempre più crescente povertà. La situazione è così tesa che l’associazione delle banche libanesi ha annunciato a inizio settimana la chiusura di tutte le filiali a Tripoli finché non smetteranno gli assalti contro le loro sedi. Difficile prevederlo: da ottobre le banche libanesi sono il principale obiettivo di chi manifesta perché da mesi i libanesi non possono disporre del proprio conto liberamente, i trasferimenti sono bloccati e i prelievi limitati al minimo.
Ma se la “periferia” si rivolta, il resto del Paese non è rimasto a guardare: a nord di Beirut si sono registrati scontri tra manifestanti ed esercito in seguito al blocco dell’autostrada. Delle proteste si sono verificate anche alcuni giorni dopo nella centralissima Piazza dei Martiri della capitale e vicino al Ring, un importante svincolo cittadino. Blocchi e attacchi contro le banche sono avvenuti negli ultimi giorni anche a sud, nelle città di Saida e Tiro.
Le tensioni di questi giorni mostrano come l’insediamento del premier Diab (sostenuto anche dagli sciiti di Hezbollah) avvenuto a gennaio al posto del dimissionario Hariri non abbia di fatto portato a miglioramenti: il Paese vive una drammatica crisi economica – la più grave post guerra civile (1975-1990) – che ha causato a partire dallo scorso 17 ottobre proteste e occupazioni di piazze. I manifestanti – superando divisioni settarie, sociali e religiose – chiedono essenzialmente tre cose: la rimozione dell’intera classe politica corrotta e clientelare; un governo tecnico che risani le finanze e che prepari il terreno per nuove elezioni.
Il paese è in default: il dollaro americano (insieme alla lira libanese moneta ufficiale) si trova da mesi solo al mercato nero a prezzi esorbitanti (oltre le 4.200 lire locali, rispetto a un cambio ufficiale fissato a 1500 LBP). Per tamponare l’emorragia della valuta statunitense necessaria per tenere in vita il sistema finanziario locale, gli istituti di credito avevano iniziato a imporre forti restrizioni sui prelievi in dollari. Restrizioni che si sono rafforzate nel corso dei mesi e che di fatto hanno ostacolato i libanesi nel poter fare ricorso ai loro risparmi.
Di conseguenza, il lockdown ha aggravato il quadro portando ad un considerevole aumento dei prezzi su cui gravano però anche la speculazione e la mancanza di controlli. Si aggiunge poi la crisi strutturale del Libano, diretta conseguenza delle politiche neoliberiste che hanno di fatto distrutto lo stato sociale: dopo la guerra civile, il “Paese dei Cedri” ha privatizzato tutti i settori strategici e i servizi essenziali. In questa fragilità strutturale, l’emergenza Covid-19 ha fatto il resto portando alla chiusura di piccole e medie attività con gli stessi effetti economici devastanti che si registrano in altre parti del mondo. Migliaia di persone hanno perso il proprio posto di lavoro.
Rivolgendosi alla nazione venerdì, il primo ministro ha chiesto un prestito di 10 miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale (FMI) in cambio di un pacchetto di riforme approvato giovedì dal governo. Il piano include riforme nel settore dell’energia, una tassazione progressiva e la stabilizzazione del tasso di scambio della lira libanese crollata rispetto al dollaro. Diab ha promesso anche di riorganizzare il settore finanziario e bancario così da combattere la corruzione, definito “uno stato nello stato”.
Il piano, ha spiegato Diab, “ridurrà il disavanzo delle partite correnti al 5,6 per cento e prevede un ritorno alla crescita con segno positivo a partire dal 2022”.
Se al momento in cui scriviamo non è stato ufficializzato il sostegno del FMI al Libano (ma pare prevedibile), quel che già osserviamo sono le pressioni politiche dei partner stranieri. È stato chiaro la scorsa settimana David Schenker, assistente segretario Usa per gli Affari per il Medio Oriente: “Per poter ottenere assistenza dalle istituzioni internazionali finanziare, il Libano deve dimostrare che è pronto a compiere scelte difficili e prendere decisioni che dimostrino che si impegnerà al 100% a fare le riforme”. Shenker ha poi specificato che le riforme dovranno riguardare il settore dell’energia, le dogane, le telecomunicazioni e la riscossione delle tasse. Pressioni in tal senso giungono anche dalla Francia.
Come Potere al Popolo! sappiamo bene cosa vogliano dire queste “riforme”: abbiamo visto gli effetti devastanti delle misure di tagli e austerity anche in altri Paesi. Quello che si impone a Diab è implementare riforme lacrime e sangue che metteranno sul lastrico migliaia di persone e che colpiranno soprattutto i settori più poveri della popolazione che in queste settimane sono in prima linea contro il virus fame.
Potere al Popolo!, pertanto, si schiera affianco del popolo libanese che lotta per la giustizia sociale e contro le politiche neoliberiste. Appoggia il suo movimento antisettario e anticonfessionale, pur consapevole della sua complessità e delle sue differenze interne.
Potere al Popolo! denuncia l’ennesimo diktat imposto dai cosiddetti stati donatori nei confronti di cittadini e lavoratori: che la crisi economica la paghi chi l’ha creata e non una popolazione provata da costi elevatissimi per servizi scadenti, se non assenti (emblematici sono i blackout elettrici quotidiani della durata di alcune ore).
Potere al Popolo! si schiera con i manifestanti di Tripoli, di Beirut, Sidone, del nord come del sud, che in questi mesi hanno dimostrato che un altro Libano è possibile: un Libano dove regni la giustizia sociale e dove la politica non è affare privato di gruppi corrotti settari.
Potere al Popolo!, inoltre, denuncia con forza la decisione del governo tedesco di mettere al bando tutte le attività del gruppo libanese Hezbollah. Una decisione anti-democratica che va ad aggravare le precedenti e già gravi messe al bando del BDS (iniziativa pro-palestinese “Boycott, divestment, sanctions”) e di ogni simbolo legato alla lotta del popolo kurdo (finanche la foto del loro leader, in isolamento carcerario da 21 anni), che stavolta va a colpire un partito politico legittimamente rappresentato nelle istituzioni libanese. Decisamente un regalo per USA e Israele.
Ancora una volta i valori della democrazia vengono eclissati dagli interessi economici e geopolici dell’occidente e della Nato.