O grande vita! Basta con questa poesia.
Ora portaci la prosa dura e aspra.
Spariscano i morbidi rintocchi poetici.
Oggi deve colpire il pesante martello della prosa.
Non abbiamo bisogno della tenerezza della poesia.
Poesia, oggi puoi riposare.
Un mondo devastato dalla fame è prosaico.
La luna piena somiglia a pane bruciato.
La pandemia ha permesso di svelare la centralità assoluta della produzione e della distribuzione di cibo, tanto a livello nazionale quanto internazionale. Le campagne, la logistica, i supermercati sono stati al centro dell’attenzione pubblica come forse mai prima d’ora. Peccato che il riconoscimento che il tributo che Governo e classe dirigente hanno pagato a parole nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori che faticano lungo tutto la filiera sia rimasto mera retorica.
Nessun riconoscimento sostanziale è infatti giunto né per i braccianti né per chi carica e scarica tonnellate di cibo né, ancora, per commesse e cassiere dei supermercati.
Giovedì 21 maggio ci sarà lo sciopero indetto dall’USB e cui prenderà parte chiunque considera inaccettabile che la dignità di un lavoratore migrante delle campagne sia a tempo: i documenti che permettono di emergere dal “nero” imposto da caporali e imprenditori e che sottraggono centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici al ricatto dell’espulsione non possono essere a tempo. Per non parlare di chi da questa misura è esclusa/o per il solo fatto di essere sfruttato in altri settori, ad esempio quello della consegna del cibo nelle nostre città e alle porte delle nostre case (è il caso dei rider).
Ma c’è di più. Perché porre la questione delle condizioni in cui si producono e distribuiscono i cibi che arrivano sulle nostre tavole significa attraversare i confini nazionali, chiamare in questione le lunghe filiere alimentari e il diritto al cibo e alla salute di cui già prima della pandemia non godevano pienamente circa 2,5 miliardi di persone. Oltre che denunciare un sistema di produzione insostenibile, che danneggia l’ambienta e genera inquinamento e rifiuti.
Abbiamo deciso di tradurre l’ultima newsletter di “Tricontinental: Institute for Social Research” – un istituto di ricerca internazionale, con sedi in India, Sudafrica, Argentina e Brasile – perché pone direttamente sul piano internazionale la questione della “pandemia della fame”. I redattori, però, non si limitano ad un’operazione analitica. Individuano una lista di 10 rivendicazioni, alcune di breve altre di lungo termine, sulle quali chiamano a un confronto. Per poter iniziare a immaginare un sistema di produzione e distribuzione del cibo che non sia soggetto alla logica del profitto, ma a quella della vita di miliardi di persone che questo mondo lo abitano – in astratto – con pari dignità.
Buona lettura!
Traduzione a cura di Potere al Popolo! dall’originale in inglese: https://www.thetricontinental.org/newsletterissue/20-2020-famine/
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Cari amici e care amiche,
saluti dal Tricontinental Institute for Social Research.
Il 21 aprile David Beasley, direttore del World Food Programme delle Nazioni Unite (WFP), ha affermato che il mondo sta affrontando una “pandemia della fame”. In quel giorno il Global Network Against Food Crises e il Food Security Information Network hanno rilasciato il report globale sulle crisi alimentari del 2020, che mostrava come 318 milioni di persone in 55 paesi stiano vivendo una grave insicurezza alimentare e siano sull’orlo della fame. Questo numero è largamente sottostimato: il numero reale – prima della pandemia globale – poteva essere più vicino a 2,5 miliardi, se misuriamo la fame come il consumo di calorie per attività intensa.
In base a quello che dicono queste istituzioni, le cause di questa fame sono i conflitti armati, le condizioni climatiche estreme e le turbolenze economiche. Secondo il report, ancora più persone potrebbero scivolare in una condizione di grave insicurezza alimentare, come risultato di uno “shock o di un fattore di stress, come la pandemia di Covid-19”. Metà della popolazione mondiale teme di patire la fame in conseguenza della pandemia.
Al Tricontinental Institute abbiamo colto il pericolo di questa “pandemia della fame”. La newsletter che segue – elaborata da uno dei nostri membri principali, P. Sainath (fondatore del People’s Archive of Rural India), da Richard Pithouse (coordinatore dell’ufficio del Sud Africa del Tricontinental Institute) e da me – è dedicata al peso enorme che questa “pandemia della fame” possiede. Alla fine della newsletter, proponiamo un’agenda in dieci punti per quanto riguarda questo aspetto del Grande Lockdown. Ci piacerebbe ricevere opinioni su questa lista.
Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ciò che il Fondo Monetario Internazionale chiama Grande Lockdown ha spedito 2,7 miliardi di persone nella disoccupazione – completa o parziale – e molte persone sono al limite della povertà estrema e della fame. In molte regioni del mondo già si sta morendo di fame. I movimenti sociali stanno facendo quello che possono per organizzare forme orizzontali di solidarietà dal basso, ma rivolte per il cibo sono già una realtà in India, Sud Africa, Honduras – ovunque, in realtà. In molti paesi, lo Stato risponde con forme militarizzate di impiego della forza, distribuendo proiettili al posto del pane.
Prima della pandemia, nel 2014, la FAO scrisse: “gli attuali sistemi di produzione e distribuzione alimentare non stanno riuscendo a sfamare il mondo”. Questa è una vera e propria condanna, e deve essere presa seriamente. Le mezze misure non funzioneranno. Abbiamo bisogno di una rivoluzione sociale nel mondo dell’alimentazione, che spezzi la presa del capitale sulla produzione del cibo e sulla sua distribuzione.
La fame è un’amara realtà, che le civiltà moderne avrebbero dovuto eliminare un secolo fa. Che senso ha per gli esseri umani imparare a costruire un’automobile o un aeroplano e non abolire allo stesso tempo qualcosa di indegno come la fame?
Il vecchio reverendo inglese Thomas Malthus si sbagliava quando scriveva che da qui all’eternità la produzione alimentare sarebbe cresciuta secondo una progressione aritmetica (1-2-3-4), mentre la popolazione avrebbe seguito una progressione geometrica (1-2-4-8), determinando una situazione in cui i bisogni della popolazione avrebbe facilmente sorpassato l’abilità degli esseri umani di produrre cibo. Quando Malthus scrisse il suo trattato, nel 1789, sul pianeta viveva circa un miliardo di persone. Ora ce ne sono quasi 8 miliardi, eppure gli scienziati continuano a dirci che il cibo che viene prodotto è più che abbastanza per nutrire tutti quanti. Eppure c’è la fame. Perché?
La fame tormenta il pianeta perché tantissime persone sono espropriate di tutto. Se non hai accesso alla terra, in campagna o in città, non puoi produrre il cibo di cui hai bisogno. Se hai la terra ma non hai accesso ai semi e ai fertilizzanti, le tue capacità di coltivare sono limitate. Se non hai terra e non hai soldi per comprare cibo, muori di fame.
Questa è la radice del problema, che viene semplicemente ignorata dall’ordine borghese per cui il denaro è un dio, la terra – rurale e urbana – viene distribuita attraverso il mercato e il cibo è solo un’altra merce da cui il capitale cerca di trarre profitto. Quando per prevenire la diffusione di carestie vengono eseguiti dei programmi, modesti, di distribuzione alimentare, spesso questi programmi funzionano come sussidi statali per un sistema alimentare ormai preda del capitale, dalle fattorie aziendalizzate fino ai supermercati.
Nel corso degli ultimi decenni intorno alla produzione alimentare si è sviluppata una filiera globale. Gli agricoltori non possono semplicemente portare quello che producono al mercato; sono costretti a vendere quanto prodotto all’interno di un sistema che lavora il cibo, lo trasporta e poi lo confeziona affinché sia venduto in molteplici punti vendita al dettaglio. Anche questo non è così semplice, dato che il mondo della finanza ha intrappolato il contadino con la speculazione. Nel 2010 l’ex inviato speciale dell’ONU per il diritto al cibo, Olivier De Schutter, ha scritto circa il modo in cui hedge funds, fondi pensione e banche di investimento hanno sopraffatto l’agricoltura con la speculazione tramite i derivati. Questi istituti finanziari, secondo De Schutter, erano “generalmente disinteressate ai fondamenti del mercato agricolo”.
Se c’è un qualsiasi shock del sistema, a collassare è l’intera filiera, e spesso i contadini sono costretti a bruciare o seppellire il loro cibo, piuttosto che permettere che venga mangiato. Come scrive Aime Williames sul Financial Times a proposito della situazione negli USA, ci sono “scene uscite direttamente dalla Grande Depressione: agricoltori che distruggono i loro prodotti mentre gli americani fanno la coda a migliaia fuori dai banchi alimentari”.
Se ascoltiamo i lavoratori agricoli, i contadini e i movimenti sociali in giro per il mondo, scopriremo che hanno molto da insegnarci su come durante questa crisi dovrebbe essere riorganizzato il sistema. Qui c’è un po’ di quello che abbiamo imparato da loro. È un mix di misure di emergenza che possono essere attuate immediatamente e di misure più a lungo termine che possono aiutare a costruire una sicurezza alimentare sostenibile, e poi una sovranità alimentare – in altri termini, controllo popolare sulla produzione e la distribuzione del cibo.
- Attuare distribuzioni alimentari di emergenza. Le scorte alimentari controllate dai governi devono essere impiegate per combattere la fame. I governi devono usare le considerevoli risorse di cui dispongono per nutrire le persone.
- Espropriare i surplus di cibo detenuti dall’agribusiness, dai supermercati e dagli speculatori, e destinarli alle strutture distributive alimentari.
- Nutrire il popolo. Distribuire generi alimentari non è abbastanza. Insieme all’azione pubblica, i governi devono costruire catene di cucine di comunità in cui il popolo possa avere accesso al cibo.
- Esigere il sostegno governativo per quegli agricoltori che devono affrontare la sfida del raccolto; i governi devono assicurare che i raccolti abbiano luogo secondo le misure di sicurezza definite dall’OMS.
- Esigere un salario minimo per i lavoratori agricoli, i contadini e altri impiegati del settore, indipendentemente dal fatto che riescano o meno a lavorare durante il Grande Lockdown. Tale salario deve essere mantenuto dopo la crisi. Non ha senso considerare i lavoratori essenziali durante un’emergenza e poi non considerare le loro lotte per la giustizia sociale in tempi “normali”.
- Incoraggiare il supporto economico per i contadini che coltivano prodotti alimentari anziché produrre su larga scala colture da reddito. Milioni di contadini poveri nei paesi più poveri coltivano colture da reddito che i paesi più ricchi non possono far crescere nelle loro fasce climatiche: è difficile coltivare pepe o caffè in Svezia. La Banca Mondiale ha “consigliato” ai paesi poveri di concentrarsi sulle colture da reddito per guadagnare soldi, ma questo non ha aiutato nessuno dei piccoli agricoltori che non coltivano abbastanza per mantenere le proprie famiglie. Questi contadini hanno bisogno di sicurezza alimentare, così come le loro comunità e il resto dell’umanità.
- Riconsiderare la rete della filiera agroalimentare, che insieme al nostro cibo produce enormi quantità di inquinamento. Ristrutturare le filiere alimentari in modo che funzionino a livello regionale anziché secondo una distribuzione globale.
- Vietare la speculazione sul cibo, ponendo limitazioni ai derivati e al mercato dei futures.
- La terra – rurale e urbana – deve essere distribuita al di fuori delle logiche di mercato, e il funzionamento dei mercati deve essere regolato in modo da assicurare che il cibo possa essere prodotto e, nel caso di surplus, distribuito fuori dal controllo della Grande Distribuzione. Le comunità dovrebbero avere un controllo diretto sul sistema della produzione e della distribuzione alimentare del territorio in cui vivono.
- Costruire sistemi sanitari universalistici, come stabilito dalla Dichiarazione di Alma-Ata nel 1978. Sistemi sanitari pubblici solidi sono meglio equipaggiati per rispondere a emergenze sanitarie. Strutture di questo tipo devono avere una forte componente rurale e devono essere aperte a tutti, comprese le persone sprovviste di documenti.
Il fatto che così tante persone sul pianeta – incluse quelle che vivono nei paesi più ricchi – stessero soffrendo la fame prima di questa crisi è un chiaro atto d’accusa verso i fallimenti del capitalismo. Il fatto che la fame stia esplodendo esponenzialmente durante questa crisi è un ulteriore atto d’accusa al capitalismo. La fame è tra i bisogni umani più urgenti, e c’è bisogno di prendere misure immediate per dare cibo al popolo nel corso di questa crisi. Ma è anche d’importanza vitale che il valore sociale della terra, tanto rurale quanto urbana, i mezzi di produzione del cibo, come i semi e i fertilizzanti, e anche il cibo stesso siano sostenuti e difesi contro la logica che vorrebbe ridurli a merce in nome del profitto – una logica disastrosa per la società.
Nel 1943 i burocrati dell’impero britannico requisirono il grano del Bengala e lasciarono il popolo nella morsa di una terribile carestia, che uccise tra uno e tre milioni di persone. Sukanta Bhattacharya, un membro del Partito Comunista dell’India che all’epoca aveva diciannove anni, curò per l’Associazione degli scrittori e degli artisti antifascisti un’antologia di poesie con il titolo Akal (“Carestia”). In questo libro, Bhattacharya pubblicò un poema intitolato Hey Mahajibon (“O grande vita!”).
O grande vita! Basta con questa poesia.
Ora portaci la prosa dura e aspra.
Spariscano i morbidi rintocchi poetici.
Oggi deve colpire il pesante martello della prosa.
Non abbiamo bisogno della tenerezza della poesia.
Poesia, oggi puoi riposare.
Un mondo devastato dalla fame è prosaico.
La luna piena somiglia a pane bruciato.
Prima di lasciarvi andare, vorrei chiedervi di supportare il lavoro che svolgiamo al Tricontinental Institute: potete andare sul nostro sito e cliccare sul link a sinistra per fare una donazione. Grazie.
Cordialmente, Vijay.