di Aurélie Dianara, coordinatrice nazionale di Potere al Popolo. Una sua versione ridotta è stata pubblicata anche su Jacobin Italia
Sabato 28 marzo Emmanuel Macron rilasciava in diversi quotidiani della stampa italiana un’intervista in cui si vantava di aver saputo trarre lezione dell’esperienza italiana per rispondere all’epidemia, dichiarava che la Francia è “al fianco dell’Italia” per superare la crisi sanitaria ed economica, e si appellava ad un’Europa unita e solidale per combattere il virus e la nuova crisi.
Purtroppo, la realtà della situazione che si sta verificando Oltralpe dimostra invece una catastrofica gestione della crisi sanitaria da parte del governo francese e una volontà di mettere i profitti e l’economia davanti alla salute e la tutela della popolazione. Difficile in queste condizioni credere nelle belle promesse di solidarietà europea del presidente francese.
Una preparazione catastrofica all’epidemia
La Francia, confinata da ormai quasi due settimane, si sta confermando come uno dei paesi più toccati dalla pandemia del coronavirus in Europa, dopo l’Italia e la Spagna. Oggi sono ufficialmente 44.550 i casi confermati in Francia, più di 20.000 le persone ospedalizzate di cui 5.107 in rianimazione. Il governo calcola le vittime in 3.024, un numero che però sottostima la situazione, perché non comprende le persone decedute negli ospizi o al proprio domicilio.
Eppure, fino a pochi giorni prima del “lockdown” deciso il 16 marzo, i dirigenti francesi hanno continuato ad assicurare che l’epidemia non avrebbe colpito la Francia e a minimizzare i rischi per la popolazione del paese. A fine gennaio, l’allora ministra della salute Agnès Buzyn dichiarava che il virus sarebbe chiaramente rimasto a Wuhan, prima di dimettersi dal suo incarico ministeriale per poter presentarsi come candidata alle elezioni municipali a Parigi. L’11 marzo, Macron invitava i francesi in un tweet melodramatico a non rinunciare a niente, “certamente non a ridere, a cantare, a pensare, ad amare, certamente non ai terrazzi dei caffè, alle sale di concerti, alle feste di sera l’estate, certamente non alla libertà”.
E non finisce qua. Per settimane, a febbraio e marzo, i media di governo hanno ripetuto ogni giorno che non serviva a niente portare mascherine o guanti. Colmo dei colmi, il governo ha voluto a tutti i costi mantenere le elezioni municipali, il cui primo turno si è svolto il 15 marzo in tutta la Francia, quando scuole e università erano già chiuse e quando ormai la situazione era evidente a tutti. Nota bene: pur di consentire lo svolgimento del primo turno elettorale, il governo ha dovuto rifornire ogni seggio di gel igienizzante, quando lo stesso non era sufficiente neanche per il personale della sanità. Nota bene 2: il numero di contagiati tra i candidati e militanti che hanno preso parte alla campagna elettorale sta esplodendo, a dimostrazione dell’irresponsabilità della decisione del governo.
Qualche giorno dopo il primo turno, il 17 marzo, la stessa Buzyn rilasciava un’intervista in lacrime al prestigioso quotidiano Le Monde in cui esprimeva i suoi rimorsi, dichiarava di aver allertato il governo già a metà gennaio circa il rischio che l’epidemia colpisse anche la Francia, e ammetteva che avrebbero dovuto fermare tutto. Un colpo di scena mediatico che non è stato accolto troppo bene dalla popolazione francese: ad oggi ci sono almeno 6 denunce alla Corte di giustizia contro il primo ministro, l’ex-ministra della salute e altri membri del governo francese per la sua mancanza di reazione di fronte alla crisi. Saranno aperte anche indagini parlamentari.
Tra queste denunce, una è stata presentata da un collettivo di 600 medici che accusano i ministri di “colpevole negligenza” e di “menzogna di Stato”. E se c’è qualcuno che sa quanto è colpevole il governo francese nell’attuale crisi sanitaria, è proprio il personale della salute. Da anni, medici e operatori sanitari allertano il governo e la società francese sulla situazione molto critica in cui si trova il settore della sanità pubblica francese. Mobilitazioni e scioperi si sono moltiplicati da quando Macron è arrivato al potere per chiedere urgenti investimenti e assunzioni. L’anno scorso, per esempio, un movimento inedito ha toccato centinaia di servizi di pronto soccorso. Ciononostante, la tendenza non è cambiata e le risposte del governo sono stata più che insufficienti. Anche se la Francia sta messa un po’ meglio dell’Italia sotto questo aspetto, tra il 2003 e il 2016 la capacità d’ospedalizzazione a tempo pieno è calata del 13% (64.000 posti letto); da decenni i salari sono stati congelati, sono calate le assunzioni di personale sanitario mentre l’attività aumentava, e la sanità pubblica è stata sottomessa a politiche d’austerità budgetaria e imperativi aziendali di efficienza e redditività. Oggi il personale è esausto e gli impianti ospedalieri non sapranno fare fronte all’epidemia, specialmente nelle zone più povere. Gli ospedali del Nord e dell’Est di Parigi, i quartieri più popolari della capitale, sono già saturi.
Non è dunque un caso che oggi tre quarti dei francesi, secondo un recente sondaggio, pensano che il governo non dica loro la verità e soprattutto che non stia prendendo le giuste decisioni e non stia facendo il necessario per attrezzare gli ospedali e il personale sanitario per far fronte all’epidemia.
Combattere il male con il male
A sentire il discorso di Macron il 12 marzo, sembrava che il presidente avesse avuto una rivelazione divina, incontrato un profeta di nome Marx, e deciso di cambiare rotta. Prometteva infatti di trarre le dovute lezioni da questa dura situazione, di ripensare il modello di sviluppo degli ultimi decenni, e di cambiare radicalmente linea politica: “Ciò che questa pandemia rivela è che ci sono beni e servizi che devono essere collocati al di fuori delle leggi del mercato”. Addirittura, dichiarava che lo stato sociale non fosse un costo o un carico per la società ma un “bene prezioso”. Amen.
Purtroppo, per ora i discorsi non sono stati seguiti dai fatti. Con la legge di rettifica del bilancio, la legge di “emergenza sanitaria” spinta dalla maggioranza, e le prime ordinanze adottate dal governo la settimana scorsa, l’intento sta diventando sempre più chiaro: salvare le imprese e il profitto piuttosto che orientare tutti gli sforzi alla lotta contro l’epidemia e la tutela della popolazione. Il governo ha sbloccato 300 miliardi per garantire i prestiti delle banche alle imprese e annunciato 45 miliardi di sgravi fiscali e sociali sempre per le imprese ; la ministra del Lavoro Muriel Pénicaud ha “sfidato” le imprese che avrebbero voluto fermare le loro attività a rimanere aperte ; la maggioranza ha fatto marcia indietro sul divieto di licenziamento durante la crisi; abbiamo scoperto che il congelamento degli affitti e delle bollette riguarderà solo le imprese, non le persone e le famiglie, etc.
Nei fatti, si sta già verificando l’ennesimo trasferimento di ricchezza dal settore pubblico alle imprese, attraverso il taglio dei contributi sociali, ossia di quella parte del salario che finanzia direttamente il welfare pubblico. Salvare le imprese creando un buco nel bilancio della sicurezza sociale, lo stesso che garantisce l’assistenza sanitaria universale, e non, ad esempio, esonerarle di rimborsare i prestiti alle banche o ristabilire un’imposta patrimoniale, è quanto di più irresponsabile si possa fare in questo momento.
Ma, soprattutto, la legge di emergenza sanitaria apre la strada a nuovi attacchi ai diritti dei lavoratori, in particolare per quanto riguarda le 35 ore, le ferie pagate e le negoziazioni collettive. Le ordinanze del governo permettono alle imprese di aumentare la durata del lavoro fino a 12 ore al giorno e 60 a settimana, di far lavorare i salariati 7 giorni alla settimana, di limitare il tempo di riposo, di allargare il lavoro di domenica e di dare maggior potere agli imprenditori per imporre le ferie forzate. Queste misure potranno riguardare tutti i settori “necessari alla sicurezza della nazione e alla continuità della vita economica e sociale”. Anche se queste misure teoricamente dovrebbero restare “temporanee”, non c’è da fidarsi: basterà ricordarsi come molte delle misure liberticide introdotte in seguito allo stato d’emergenza legato agli attacchi terroristi del 2015, siano poi rimaste nel diritto ordinario.
Sembra quasi che il governo abbia intenzione di curare il male con il male. Non i diritti dei lavoratori, bensì la distruzione dei servizi pubblici e del sistema sanitario hanno permesso al virus di diffondersi. Non le 35 ore, bensì la mondializzazione neoliberista, ha fatto sì che oggi in Francia manchino mascherine, gel igienizzanti e respiratori, mentre le armi da esportare verso l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Turchia o le “flashball” per reprimere movimenti sociali e quartieri popolari si trovano in abbondanza. Sono le norme manageriali e l’austerità di bilancio imposte tanto al mondo della ricerca e dell’educazione, quanto al settore sanitario, che ci rendono oggi impreparati di fronte alla pandemia. Eppure, giusto qualche giorno fa, il governo ha annunciato che aumenterà il budget della ricerca di soli 5 miliardi nei prossimi 10 anni, invece dei 10 miliardi in 7 anni che erano stati annunciati a gennaio.
Agli attacchi alle norme sociali si aggiungono ovviamente gli attacchi alle libertà civili, già visibili nella sorveglianza e nella repressione che questa situazione permette. Nel contesto attuale del confinamento, l’uso di droni nelle città per sorvegliare il rispetto del confinamento, il dispiegamento dell’esercito nelle strade, il rischio che siano usati a fini di sicurezza interna i dati dai dispositivi di telecomunicazione privati, il numero altissimo di controlli e multe nei “ghetti” di periferia (come avvenuto in Seine-saint-Denis), le multe ai senzatetto e lo smantellamento dei campi di persone migranti, e l’uso della violenza da parte della polizia francese (denunciata qualche giorno fa da Human Rights Watch) lasciano immaginare il peggio per i nostri diritti civili.
Di fronte all’utilizzo martellante di un linguaggio bellico da parte dell’esecutivo, i ripetuti “siamo in guerra” di Macron e dei suoi accoliti, le esortazioni all’unione sacra (Union sacrée) della nazione, i sindacati (ad eccezione della CGT e di Solidaires) sono ancora meno disposti che al solito a difendere i diritti dei lavoratori, mentre l’opposizione di sinistra non possiede un margine di manovra sufficiente per fermare il disastro. Anche se molti lavoratori stanno ricorrendo al loro “diritto a ritirarsi” (previsto dalla legislazione francese in caso di pericolo sul lavoro) e ci sono mobilitazioni dal basso in alcuni settori, per ora solo la federazione Servizi Pubblici della CGT ha indetto uno sciopero per il mese di aprile. È vero che, su richiesta della CFDT e di altri sindacati detti “riformisti” (più correttamente: collaborazionisti), il governo ha “invitato” – non obbligato – le imprese a non distribuire più dividendi agli azionari, in segno di “solidarietà” di fronte alla crisi del coronavirus. Verosimilmente, però, l’invito sarà raccolto quasi esclusivamente dalle imprese nelle quali lo Stato è il principale azionista. Il che, in assenza di nazionalizzazioni/socializzazioni delle imprese strategiche, porterà solo ad un ulteriore deficit per il budget dello Stato. Ricordiamo che solo nel 2019 in Francia sono stati 1.430 i miliardi di euro versati in dividendi agli azionisti…
Il Re (europeo) è nudo
Difficile in queste condizioni pensare che il governo francese possa essere un alleato affidabile nella definizione di una risposta europea adeguata alla crisi sanitaria e socioeconomica che stiamo affrontando soprattutto in Italia. Altrettanto difficile è pensare oggi che l’Unione europea possa essere l’antidoto al “coronakrash”.
Se non possiamo che concordare con l’idea per cui un’Europa “unita e solidale” sia meglio di un’Europa di nazionalismi ed egoismi, non possiamo neanche dimenticare così facilmente che sono stati la Cina e Cuba a mandare mascherine e personale medico in solidarietà all’Italia, non la Francia o la Germania, e ancora meno la Repubblica Ceca che ha confiscato “per sbaglio” le mascherine mandate dalla Cina all’Italia… Nelle ultime settimane, abbiamo assistito, ancora una volta, al dissolversi delle solidarietà tra i paesi europei e all’incapacità dell’Unione europea a dare una risposta unita ed efficace a questa crisi.
Se non possiamo che rallegrarci del fatto che la Commissione europea di Ursula von der Leyen abbia finalmente deciso di sospendere – ahimè non sopprimere – il Patto di stabilità e di crescita (che, seguendo la dottrina ordoliberista, limita al 3% del PIL il deficit pubblico e al 60% del PIL il debito pubblico), non possiamo neanche dimenticarci che tra il 2011 e il 2018 la Commissione europea ha chiesto 63 volte agli Stati membri di ridurre le spese e/o procedere a privatizzazioni nel settore della sanità. Non possiamo dimenticare che se oggi mancano i letti negli ospedali, i respiratori, le mascherine, i tamponi e il personale sanitario per fare fronte al coronavirus, è per via delle politiche d’austerità e “libera concorrenza” volute dall’Ue e dai suoi Stati membri. Viste le politiche economiche e (anti)sociali applicate in questi giorni in Francia, così come in Italia del resto, per rispondere alla crisi, c’è da sospettare che la sospensione del Patto di stabilità servirà più a salvare le imprese e le banche che non a risuscitare la sanità pubblica e a salvare delle vite. A maggior ragione se i paesi che beneficeranno della “solidarietà” europea dovranno stare alle regole d’austerità, che accompagnano solitamente i prestiti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes).
Nella sua intervista rilasciata a La Repubblica, Il Corriere della Sera e La Stampa sabato 28 marzo, Macron si faceva paladino dell’“Europa della solidarietà, della sovranità e dell’avvenire”, e promuoveva l’idea di un “Coronabond” – un meccanismo di indebitamento comune – oppure un aumento del bilancio europeo per permettere un sostegno reale ai paesi più colpiti da questa crisi. L’idea di una mutualizzazione del debito è sostenuta dai dirigenti di nove paesi europei, tra cui Macron e Conte, che hanno inviato mercoledì 25 marzo una lettera al Presidente del Consiglio Charles Michel per avanzare la loro proposta. Il Consiglio europeo “virtuale” di giovedì scorso e le dichiarazioni rilasciate dai dirigenti europei negli ultimi giorni hanno tuttavia rivelato profonde divisioni tra i paesi europei: la Germania, la Olanda e altri paesi “virtuosi” del Nord si oppongono categoricamente alle proposte del “Club Med”, e il dibattito è stato rimandato. Visto come è andata l’ultima volta, durante la crisi del debito europeo post-2008 di cui la Grecia e gli atri paesi “indisciplinati” dell’Eurozona stanno ancora pagando il prezzo, è difficile credere che l’esito possa essere molto diverso questa volta.
E anche se i propositi di Conte e Macron si avverassero, ciò non basterebbe neanche lontanamente a rispondere alle nostre attuali necessità. La crisi del coronavirus ci ha fatto prendere coscienza collettivamente e brutalmente del fatto che la salute non deve essere una merce, bensì un diritto fondamentale e universale. Deve quindi essere messa, come tanti altri servizi e industrie strategiche o essenziali, al di fuori delle leggi del mercato. Ma per poterlo fare bisognerà rimettere radicalmente in discussione l’intero quadro nel quale sono inserite queste risorse. Nell’attuale Unione Europea, caratterizzata dalla liberalizzazione sfrenata dei capitali e delle merci, dall’“ortodossia” dei pareggi di bilancio, dalla feroce messa in concorrenza dei lavoratori, dalla concorrenza fiscale e sociale tra gli Stati membri, dalle privatizzazioni e da un modello aziendale tutto incentrato sul potere degli azionisti, tra le altre cose – non sarà possibile implementare le politiche di cui abbiamo bisogno.
Ci vorrà ben più che la mutualizzazione del debito proposta da Macron e Conte per rispondere all’emergenza sanitaria, climatica, e sociale in cui ci troviamo. L’introduzione di una patrimoniale europea (possiamo chiamarla “Corona Tax” o “Robin Hood Tax”, poco importa), di un’armonizzazione verso l’alto della fiscalità delle imprese e di un’imposta sul capitale che permetta una drastica ridistribuzione delle ricchezze potrebbe essere un primo passo. Non scordiamoci però che per reimpostare l’intero quadro ci vorrà, dati gli attuali trattati europei, la volontà politica unanime degli Stati membri. Una possibilità più che remota nell’attuale contesto politico. Come si suol dire in Francia: “On arrête tout, on réfléchit, on change tout, et c’est pas triste” (“Fermiamo tutto, riflettiamo, cambiamo tutto, e non è triste”). Solo una mobilitazione di massa, in cui tutte e tutti saremo chiamati a fare la nostra parte, potrebbe scuotere questa situazione.