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 “IN MASSIMA INSICUREZZA”: il lavoro nella sanità sarda e il COVID-19

Cosa è successo nei meandri delle stanze della Regione, nei luoghi deputati a gestire l’emergenza pandemia, già annunciata a fine gennaio?

Non rispondiamo noi, ma i numeri.

Di fronte a una media nazionale di contagio tra operatori e operatrici della sanità del 10%, già grave rispetto quello riscontrato in Cina (3,8%), la Sardegna registra in aprile un 34-40% di personale sanitario infettato, con picchi iniziali a marzo del 60% e punte sino al 90% nella provincia di Sassari.

L’Assessore regionale alla Sanità, il leghista Mario Nieddu, di fronte a tali numeri, il 19 marzo scorso affermava che “ci può stare”. In seguito, di fronte a un caso di positività al Pronto Soccorso di Oristano ai primi di aprile – quando ci si aspettava che almeno i protocolli venissero finalmente attuati – dichiarava: “qualche volta succede”.

E’ inaccettabile che a pandemia avanzata ci si trovi ad avere insufficienti Dispositivi di Protezione Individuale (DPI), consegnati con il contagocce al personale (a cui si chiede di far durare dispositivi monouso giorni e giorni, obbligandoli dunque, laddove li trovassero sul mercato, ad acquistarli di tasca propria), a spacciare altri dispositivi per DPI (arrivando anche a consegnare anche in Sardegna le mascherine simili ai panni Swiffer che, come comunicato dalla stessa azienda produttrice, non sono destinate agli operatori sanitari), si continui a non garantire le tutele sul luogo di lavoro, a lavorare con protocolli tardivi e inefficaci in quanto neanche accompagnati da una formazione preliminare.

In data 19 marzo gli ordini dei medici delle province sarde denunciavano di “operare in massima insicurezza”. Secondo quanto denunciato dalle organizzazioni professionali “Non si è riusciti nemmeno a mettere a disposizione di medici e infermieri i necessari DPI, mascherine e guanti soprattutto, e non si è proceduto alla sanificazione preventiva degli ambienti di lavoro”. E ancora, in data 23 marzo, un dirigente medico dell’Azienda Sanitaria di Sassari in anonimato affermava “In nessuna parte d’Italia si è verificato un così clamoroso fallimento delle procedure di sicurezza in un ospedale”.

E a proposito di tamponi e test rapidi per l’accertamento del Covid-19, a che punto siamo? Chi lavora ogni giorno in corsia li sta ancora aspettando. Qualcuno dirà che sono pochi e vanno usati con parsimonia (come tutto, alla fine) privilegiando il personale ad alto rischio, quello che ha avuto contatti con pazienti positivi. Siamo d’accordo, ma gli altri? Chi lavora in sanità con funzioni di cura delle persone non può tenere il distanziamento fisico così come previsto dalla normativa, queste lavoratrici e questi lavoratori devono essere testati per evitare che si contagino e che contagino pazienti o familiari.  L’Assessore a metà marzo ci ha propinato la storiella dell’acquisto di tamponi dall’azienda Tema Ricerca s.r.l che in una nota stampa del 23 marzo si è riservata di intraprendere iniziative legali in quanto l’ordine millantato da Nieddu non lo hanno mai ricevuto.

Aggiungiamo un ultimo tassello all’opera dell’Assessore, quello della promozione di ben tre strutture private (il Mater Olbia, il Policlinico Sassarese, la Clinica Città di Quartu) a ospedali Covid-19. Cliniche inadeguate al compito assegnato (lo stesso Direttore sanitario del Mater Olbia affermava di non disporre ancora di dispositivi di protezione né di diagnostica, e nemmeno di anestesiste/i e infermiere/i di terapia intensiva) per le quali si accettano i costi anche senza previo controllo perché “non c’è tempo per l’istruttoria”.

Ma perché, ci chiediamo, andare a spendere in strutture che, a fine pandemia, ritorneranno a fare quello che facevano prima – aziende legate al profitto sovvenzionate ampiamente con soldi sottratti alla sanità pubblica – e non investire nelle strutture pubbliche? Sono queste ultime le uniche in grado di gestire, pur con pochi mezzi, l’emergenza e l’urgenza perché formate da operatori che vorrebbero solo tornare a lavorare in sicurezza e garantire le prestazioni necessarie alle esigenze di salute di tutti e tutte.

Tra le altre cose, fatto molto grave, i mezzi di comunicazione, così come chi opera in sanità, si sono trovati imbavagliati perché l’Assessore ha chiesto ai direttori delle aziende sanitarie “provvedimenti disciplinari” per gli operatori che comunicavano senza autorizzazione con la stampa e sui social e per la comunicazione verso la popolazione ha previsto che fosse in capo alla sola Regione.

Ricapitolando, dunque: a lavoratrici e lavoratori della sanità che chiedono mascherine è stato imposto il bavaglio, a giornalisti e giornaliste che vogliono fare il loro lavoro è stata imposta la censura, alla cittadinanza è stata imposta la fonte unica per le informazioni sull’andamento della pandemia.

“Io speriamo che me la cavo” è quello che operatori e operatrici della sanità si dicono a inizio turno – con la profonda preoccupazione per l’incolumità propria, dei pazienti e dei loro familiari. Quel turno poi non finisce mai perché queste persone devono mantenere distanze e norme igieniche ospedaliere anche a casa propria laddove le tutele sul lavoro non siano state garantite, perché il virus è in agguato.

A oggi, abbiamo, sul territorio nazionale, 28 infermiere e infermieri e 105 medici deceduti, morti sul lavoro, persone che non si sono sottratte al loro dovere, al loro giuramento etico e professionale di prendersi cura delle persone, di salvare vite umane.

E in Sardegna? Fino a qualche giorno fa sapevamo che erano 216 gli operatori contagiati. Ma nell’ultimo report dell’Istituto Superiore della Sanità, pubblicato il 7 aprile, mancano proprio quei dati, non più presenti nemmeno nel report della Regione Sardegna.

Il Covid-19 ha trovato un altro vecchio virus presente da tanto, e con questo ci è andato a nozze.

Quello che negli ultimi trent’anni ha prodotto un taglio continuo delle spese sanitarie, con investimenti che sono stati dirottati dalla sanità pubblica a quella privata, quest’ultima ormai destinata a un lavoro redditizio, sicuro, routinario, libero da emergenze/urgenze, a fronte di una sanità pubblica ormai ridotta allo stremo, con un numero di operatori assolutamente insufficiente, risorse, attrezzature, ambienti ormai vetusti e abbandonati. Tutto questo perché la salute è stata trasformata in merce, secondo la logica del profitto che ha visto Unità Sanitarie trasformarsi in Aziende, pazienti in utenti, freddi numeri all’interno di raggruppamenti omogenei di diagnosi (ROD).

Come PaP Sardegna ribadiamo che il diritto alla salute è un diritto primario, inalienabile, e l’accesso alle cure deve essere gratuito e senza discriminazioni e ci battiamo fin da ora per far sì che niente torni come prima, perché il prima era il problema!

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