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Aborto: la normalità era il problema

Prima dell’emergenza Covid-19 una donna, per abortire, avrebbe dovuto intraprendere un lungo percorso a ostacoli, un campo minato fatto di colloquio psicologico, settimana di riflessione, ospedalizzazione, permanenza in reparto con neomamme o quasi mamme. Sempre che fosse riuscita a trovare un ospedale con personale non obiettore sufficiente per vedere realizzato un suo diritto primario.

Inoltre, anche se la legge 194 prevede la libertà delle donne di scegliere lo strumento a lei più consono per procedere all’interruzione di gravidanza, non avrebbe potuto ricorrere all’aborto farmacologico – pillola RU486 – in luogo di quello chirurgico come avviene nella stragrande maggioranza dei casi.

In Italia la sperimentazione della RU486 inizia nel 2005, ma l’utilizzo viene autorizzato solo nel 2009 – contro la Francia, 1988, e il Regno Unito, 1990 – e con fortissime restrizioni che ne limitano i vantaggi. Infatti, se secondo le indicazioni del farmaco e dell’OMS l’aborto farmacologico può intervenire entro le nove settimane di amenorrea (63 giorni), in Italia il tempo previsto è di circa sette settimane (49 giorni).

Ancora più critico è il tema dell’obbligo di ospedalizzazione per ben tre giorni, contro la prassi degli altri paesi europei e le stesse indicazioni farmacologiche che ne autorizzano la somministrazione in regime di day hospital, celata dietro la fasulla volontà di proteggere la salute delle donne. I dati del Ministero della Salute ci dicono che nel 96,9% dei casi non ci sono state complicazioni dovute all’assunzione dei due farmaci necessari all’interruzione di gravidanza. Di fronte all’ospedalizzazione forzata, molte donne decidono di dimettersi di loro volontà.

L’insensatezza di questi limiti legislativi, la riduzione totalmente arbitraria dei tempi di assunzione e l’obbligo di ospedalizzazione, comportano di fatto una restrizione del diritto di scelta, spacciato per tutela della salute delle donne proprio da chi, in realtà, non vuole altro che sopprimerne i diritti.

Abortire nell’emergenza Covid-19. Deospedalizzare!

È sotto gli occhi di tutti come la sanità in generale si stia barcamenando per ridurre il carico di lavoro degli ospedali: operazioni non urgenti rimandate, spostamenti di pazienti, riduzione di servizi di normale amministrazione, reparti riconvertiti a terapia intensiva e sub-intensiva. In tutto questo, il diritto all’aborto – già complicato in situazione di normalità – è sempre più all’angolo.

Senza informazioni, senza risorse e senza indirizzi nazionali, il servizio i interruzione volontaria di gravidanza diventa ingestibile e la difficoltà di spostamento è un ostacolo che si aggiunge a questa corsa contro il tempo.

L’ospedalizzazione, oltretutto arbitraria in caso di aborto farmacologico, rappresenta com’è ovvio la criticità maggiore.

In questa situazione di precarietà, in cui lo stravolgimento dei diritti diventa facile e quasi accettabile dai più, è necessario tenere alta l’attenzione e non lasciarci ammutolire, riportando al centro del dibattito una lotta che non si è mai fermata.

I movimenti femministi e le associazioni di ginecologi e ginecologhe a sostegno della libertà di scelta, da tempo segnalano e lottano per una vera introduzione dell’aborto farmacologico, per l’abolizione dell’obiezione di coscienza e per la costruzione di una rete di consultori pubblici, laici ed efficienti, per una vera educazione alla sessualità e alla contraccezione.

Potere al Popolo da sempre mette al centro della sua prospettiva politica i temi dell’autodeterminazione di genere e il diritto alla salute riproduttiva per tutti e tutte.

Nella contingenza dell’emergenza perciò ci uniamo a tutti quei movimenti e associazioni che negli ultimi giorni hanno riaffermato la necessità un piano sanitario affinché venga garantito il diritto all’aborto nella maniera meno invasiva e più sicura.

Ribadiamo e rilanciamo la necessità di annullare tutte le inutili restrizioni che ostacolano la somministrazione dell’aborto farmacologico, da espletare in day hospital e a casa, come avviene nella maggior parte dei paesi europei, allungando i tempi di intervento fino alle nove settimane di amenorrea, e sfruttando le possibilità della telemedicina in modo da permettere l’assistenza totalmente da remoto.

 

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