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[FIRENZE] RISTORATORI IN PIAZZA SIGNORIA. E TUTTI GLI ALTRI? DOVE SONO I NOSTRI?

La prima categoria a mobilitarsi in questa fase due sono stati i ristoratori. Prima in forma simbolica – la consegna delle chiavi ai sindaci, un modo per chiedere l’esenzione da tasse per il periodo di chiusura delle attività –, poi scendendo in piazza. A Milano la protesta delle sedie vuote è stata pesantemente multata, nonostante le distanze di sicurezza fossero rispettate e il presidio fosse molto ridotto. Le multe hanno fatto salire la rabbia, e a Firenze, dove i ristoratori sono scesi in una piazza della Signoria sferzata dalla pioggia, i poliziotti sono stati più cauti e tolleranti.

Dobbiamo sentirci solidali con i ristoratori? Sì e no.

Sì, perché molti di loro hanno guadagni contenuti, sono persone del popolo, ed hanno un serio problema di liquidità: è assurdo pagare la Tari (tassa sui rifiuti) o la Tosap (tassa per l’occupazione di suolo pubblico, si applica ai dehor dei ristoranti) nel periodo nel quale non si è usufruito né del servizio dei rifiuti né del suolo pubblico. Come è indubbio che per affrontare il periodo successivo alla pandemia occorrerà un ammontare di liquidità ingente che potrà essere restituito nel tempo.

No, perché molti di quei ristoratori sono gli stessi che pagano a nero o a grigio, che scaricano sui lavoratori le ristrettezze di bilancio e il rischio d’impresa, che invadono interi quartieri come cavallette sostituendo esercizi storici per residenti, o rosicchiano i litorali – se associati a uno stabilimento balneare – prendendo in concessione novantennale porzioni di costa comune.

Quindi? con loro o contro di loro? Non è questo il punto: a nostro avviso, le domande giuste da porsi sono tre:

1) Dove sono tutti gli altri? Dove sono i nostri?

I ristoratori con la loro protesta hanno ottenuto qualcosa: l’esenzione dalla Tosap; crediti di imposta su affitti e su lavori di ristrutturazione giustificabili dall’adeguamento alle normative anti-coronavirus; ristori sulle perdite di fatturato; la deroga alle autorizzazioni necessarie per mettere sedie e tavolini sul suolo pubblico; il rinvio della Tari, della cui eventuale esenzione si occuperà il livello comunale. Non hanno però spinto per il reddito di emergenza, né per una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario (che permetterebbe di tenere più gente a lavoro, risparmiando sulla Cig e aumentando l’occupazione generale), né per più controlli nelle imprese perché venga rispettata la sicurezza, né più sanità pubblica, diffusa sul territorio, né una regolarizzazione – permanente, e non si doli tre mesi – per i lavoratori clandestini da sottrarre a mafia e sfruttatori, né investimenti pubblici per generare nuova occupazione. Questo perché non è il loro immediato interesse. Queste rivendicazioni riguardano però un’altra maggioranza: parliamo di tutti/e coloro che per definizione non sono proprietari/e dei mezzi di produzione, non hanno imprese e men che meno ristoranti: i/le 23 milioni di lavoratori e lavoratrici dipendenti, più quelle centinaia di migliaia di indipendenti che sono in realtà dipendenti a tutti gli effetti e non navigano nell’oro, come avviene per molte partite Iva. Sono loro che mancano in quelle piazze: divisi, precarizzati, guidati da sindacati confederali da tempo troppo timidi e attenti a non disturbare un governo dà loro ritenuto “amico”, (ma che amico non è, ça va sans dire), senza rappresentanza politica in parlamento, scoraggiati…

2) Cosa pretendere?

Il problema delle proteste settoriali è che muovono solo ed esclusivamente degli interessi particolari. Uniti invece si vince, soprattutto se a incrociare le braccia e a scendere in piazza fossero milioni di lavoratori. Una protesta dei ristoratori potrebbe essere compatibile con una protesta di massa dei lavoratori? Sì, perché le richieste dei lavoratori sono potenzialmente universali. Tutti guadagnerebbero da una sanità pubblica funzionante, dalla fine del lavoro nero e da ritmi di lavoro più umani. O da un reddito di emergenza conferito a tutte le persone in ristrettezze economiche. Purtroppo i 900 milioni di euro destinati a tale scopo sono totalmente insufficienti (qui la nostra proposta, che richiederebbe ben altre cifre). Eppure le fasce impoverite da questa crisi avrebbero bisogno di un vero reddito di emergenza di almeno un anno (ristoratori compresi), visto che non troveranno presto lavoro. Avranno forse da ridire quei ristoratori che hanno sfruttato fino a ieri i dipendenti, non pagando i contributi o sotto-inquadrandoli. O coloro che, vivendo di solo turismo, saranno costretti comunque a chiudere. Ma è certo vero che ne guadagneremmo tutti se i soldi che sono stati riversati a pioggia nel sistema paese fossero utilizzati da un lato per consentire alla popolazione di sopravvivere, dall’altro per creare lavoro “buono” attraverso la conversione ecologica dell’economia, facendo sì che lo Stato, controllato dal parlamento e dai comitati dei cittadini, entri nei cda delle imprese strategiche, direzionando gli investimenti e pianificando l’avvenire. In piccolo anche la nostra Firenze, che non potrà più basarsi sulla monocoltura del turismo, ne gioverebbe. Certo, occorrerebbe anche favorire il rilancio di quelle imprese che presentavano bilanci sani prima della pandemia, anche sotto forma di esenzioni su Tari e Tosap. In questo caso, l’ammanco dalle casse comunali, specialmente in una città come la nostra, equivarrebbe a meno servizi pubblici, meno soldi per pagare i contributi affitto, le case popolari, il ritiro dei rifiuti, i salari dei dipendenti, tutte cose di cui beneficiamo tutti quanti e i cui costi andranno ripianati dallo Stato. Occorre dunque definire da dove intendiamo prendere le risorse.

3) Da dove prendiamo i soldi?

Noi pensiamo che il Governo debba tirare fuori le risorse per i lavoratori e le classi popolari, per ripianare le casse degli enti locali, per immettere liquidità nel sistema economico. Il problema è dove prenderli. Fare debito non si può: abbiamo il terzo debito pubblico del mondo, che si chiamino Mes o Eurobond, un nuovo debito sarebbe semplicemente non sostenibile. Per ripartire occorre recuperare i soldi dove ci sono: nella ricchezza privata del paese, uno dei paesi con la ricchezza privata tra le più grandi del mondo (sì, l’Italia è un paese ricco), ammontante a 10 trilioni di euro, ben 161.000 euro di ricchezza netta a individuo, bimbi compresi. Non ce li avete? Beh, se non ce li avete è perché ce li ha qualcun altro. Il 10% dei più ricchi detiene circa il 60% della ricchezza complessiva del paese. Con una “millionaire tax” del 10% sul patrimonio del 10% più ricco si libererebbero circa 550 miliardi di euro sufficienti non solo a pagare le spese correnti dell’emergenza, ma a investire nel futuro del paese. Senza regalare soldi a tutti, ma sostenendo le imprese sane, in crisi di liquidità. Lasciando morire quelle piene di debiti e tecnicamente morte già prima della crisi, senza lasciar morire i loro proprietari, che potranno accedere a sussidi come il reddito di emergenza in attesa di trovare nuovo impiego. Soprattutto guidando, attraverso l’intervento diretto dello Stato, la conversione ecologica del paese e il cambiamento del modello di sviluppo della città di Firenze, finora desertificata dalla turistificazione. Qualche ricco ristoratore dovrà rinunciare al macchinone o a un cocktail in più per salvare tutti/e, compresi gli altri ristoratori? Non piangeremo nemmeno per lui.

Purtroppo, per costringere miliardari e milionari di questo paese a socializzare la ricchezza prodotta dal lavoro altrui ma da loro accumulata, non basta avere ragione. Non basteranno i discorsi a indurre il governo a smetterla di rassicurare ricchi e padroni, dicendo loro che mai e poi mai si farà una patrimoniale, che mai e poi mai sarà ridotto l’orario lavorativo. Serve organizzarsi e scendere nelle piazze, serve fare paura a quella minoranza di italiani che pensa di scaricare sulle classi popolari il costo di questa crisi. Solo così potremo ottenere quello che ci spetta e salvare questo paese e questa città dal baratro che la attende.

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