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Pandemia, mondo del lavoro e Fase 2. Che fare?

Siamo ormai alle porte della Fase 2. Da ieri, 27 aprile, altri 3 milioni di lavoratori si sono aggiunti ai milioni che già erano in attività. Il mese di maggio, a meno di marce indietro, significherà la riapertura di tutte le attività industriali. Per parte dei servizi e il commercio i tempi, come annunciato da Conte domenica sera, saranno un po’ più lenti. Nuove date da segnare sul calendario saranno il 18 maggio e, infine – ma solo per ora! – il 1 giugno.

Nel mondo del lavoro in quasi due mesi di pandemia abbiamo assistito già a due fasi differenti e la terza sta per aprirsi in relazione soprattutto al comportamento soggettivo dei lavoratori.

Periodo 1: Mobilitazioni operaie per la vita

Nelle prime due settimane di marzo abbiamo assistito a una breve ma intensa stagione di mobilitazione operaia. Scioperi spontanei, scioperi organizzati dai sindacati conflittuali e in parte dalla FIOM, astensione dal lavoro tramite l’utilizzo degli istituti cui hanno accesso i lavoratori: malattia, ferie, permessi. Per un segmento di classe la lotta è stata per l’ottenimento dello smart working, non tanto per le possibili virtù di questa nuova forma lavorativa, bensì come “fuga” dalla paura.

I sindacati si sono trovati spesso a inseguire, a dover “coprire” gli scioperi. A partire dalla protesta alla FCA di Pomigliano (NA), dal forte valore simbolico oltre che concreto. Alcune aziende si sono trovate di fatto “chiuse” per l’alto tasso di assenti per malattia. I medici di base hanno cominciato ad avere sollecitazioni dall’INPS affinché non “concedessero” troppo facilmente certificati di malattia ai lavoratori.

C’è stato a macchia di leopardo un processo di insubordinazione ampio e diffuso. Non si andava all’offensiva, ma si resisteva alle pressioni e si metteva la vita dinanzi a qualsiasi altra considerazione. C’era la percezione collettiva, avanzata si può dire nel corso di pochissime ore, di essere mera “merce” nelle mani di imprenditori che badavano più ai bilanci che ai “propri” dipendenti, di essere pedine sacrificabili di uno sviluppo che era morte per molti e tasche piene per pochi.

La possibilità che queste mobilitazioni continuassero o riprendessero, in forma pubblica o attraverso quelle che la sociologa statunitense Beverly Silver ha definito “armi dei deboli”, ha pesato anche sulla lotta intorno alle categorie ATECO e a quali settori andassero considerati essenziali e quali no. Se è vero che il Governo non si è schiacciato al cento per cento sulle posizioni della Confindustria – anche in un Comitato d’affari si discute, è altrettanto vero che ha ceduto su molti punti. Il che risulta evidente a maggior ragione ora che la Fase 2 significa sostanziale ripresa delle attività industriali e continuazione di un lockdown leggermente allentato per noi.

Periodo 2: Nelle aziende aperte si lavora e comincia la corsa agli ammortizzatori sociali

Dopo i primi 15 giorni la situazione ha cominciato a mutare. Gli scioperi hanno cominciato a scomparire dalla scena, anche a causa dell’infame Protocollo tra governo e parti sociali siglato il 14 marzo (“infame” perché proprio quando milioni di lavoratori lottavano per la chiusura delle aziende è intervenuto a dare gli strumenti alle imprese per rimanere aperte, a rischio della salute), mentre i lavoratori hanno proseguito col ricorso alla malattia come via di uscita individuale, seppur diminuendo costantemente nei numeri. Laddove la battaglia pubblica e collettiva si era persa, cioè laddove l’azienda rimaneva aperta e non c’era ricorso allo smart working o non si fornivano i DPI adeguati, la via d’uscita individuale rimaneva cioè l’unica aperta e se ne continuava a fare uso. La logica della difesa della vita continuava a mostrare la sua antitesi a quella del profitto.

Per il resto molte aziende erano state costrette dalla paura delle mobilitazioni e dalla pressione sociale a dotarsi di misure di sicurezza, mentre altre hanno continuato a puntare sulla paura dei dipendenti di perdere il lavoro, per costringerli a continuare come se nulla fosse, quasi come se il Covid19 non esistesse. Non sono rari i casi di lavoratori “costretti” ad auto-certificare il falso dinanzi alle forze dell’ordine per recarsi a un lavoro che le norme sancivano come “illegale”. A questo quadro si aggiunge la possibilità per le imprese di continuare a rimanere aperte, visto che le deroghe previste dalle norme del Governo sono state talmente ampie e i controlli tanto risibili che di fatto vige l’impunità più assoluta.

Stando ai dati di domenica 26 aprile, 196.000 aziende hanno fatto richiesta di deroga alla Prefetture, che hanno dato la sospensiva (cioè hanno negato l’apertura) solo nel 6% dei casi e, anche laddove l’hanno fatto, le aziende hanno potuto riaprire i battenti per il periodo di tempo che intercorre tra l’autocertificazione e l’esame della domanda da parte delle Prefetture. Tempo non breve se si pensa che le Prefetture pare abbiano analizzato meno del 50% delle richieste arrivate.

In questo secondo periodo l’attenzione da parte del segmento di classe che non era più al lavoro si è spostato sull’ottenimento di misure di sostegno. C’è stata una corsa alla CIG, a quella in deroga, al bonus da 600€; sono state avanzate rivendicazioni sostanzialmente di due tipi: l’inclusione di categorie escluse negli ammortizzatori già previsti (il caso degli stagionali dei trasporti, ad esempio); l’elaborazione di strumenti nuovi a copertura della platea esclusa (reddito d’emergenza), “regolarizzazione” dei migranti, allungamento della NASPI, indennità per badanti.

Alle misure del governo hanno cominciato a sommarsi quelle delle singole Regioni. Il combinato dei provvedimenti ha prodotto una “attesa” da parte di milioni e milioni di lavoratori: la fiducia nella possibilità che provvedimenti a proprio favore vengano emanati è ancora viva. Non si poggia semplicemente su un giudizio di valore di Governo e Governatori, ma sul fatto reale che misure di sostegno per i lavoratori siano state effettivamente varate (parziali, insufficienti, inadeguate, ma “varate”). L’attesa del “decreto aprile”, che nei proclami dovrebbe anche riparare ai torti di quello di marzo, ma che già sta diventando “decreto maggio” alla faccia della necessità di “fare presto”, oltre che allungare e rinforzare le misure già in essere tiene in secondo piano la possibilità di ampia mobilitazione, mentre si continua a operare sul terreno dei micro-conflitti, oltre che su quello delle pressioni per l’approvazione di questa o quella misura, a carattere universale (reddito d’emergenza) o specifica (inclusione dei marittimi o degli stagionali del turismo nel bonus da 600-800€).

Periodo 3: Riaprono le aziende, riprende la lotta per la salute

Da questa settimana si sta andando in scena con la “prova generale” di riapertura. La ripresa di numerose attività tra quelle ancora chiuse è stata preceduta da accordi nazionali e/o locali tra imprese e sindacati sulla necessità di implementare misure di sicurezza importanti (DPI, distanziamento, sanificazione, ecc.).

Molti di questi accordi sono stati celebrati dalla stampa che in questo modo hanno potuto risanare – a parole – la contraddizione tra profitto e salute che era emersa con forza mai vista nei primi giorni dell’esplosione della pandemia. FCA, Electrolux, Whirlpool, ecc., sono state prese a modello, con il licet da parte dei vari Burioni, per dire che l’impresa ha a cuore la salute dei dipendenti, priorità assoluta per il sistema impresa Italia.

Quello che si produrrà, però, smentirà questa proclamata luna di miele: sarà una nuova lotta per la salute, per mettere la logica della vita dinanzi a quella del profitto. Non si tratta del semplice ritorno al Periodo 1. Un po’ perché la repressione preventiva ha reso più difficile offrire sostegno fisico a lavoratori e lavoratrici (è sì possibile proclamare e praticare uno sciopero, ma non lo è rinforzarlo con un picchetto o con una manifestazione); un po’ perché i morsi della crisi economica si fanno sentire e la paura del futuro si è fatta molto pressante da un mese a questa parte.

Nelle singole aziende gli organismi previsti dal Protocollo del 14 marzo, i cosiddetti “Comitati di controllo” di fatto non sono partiti, risultando attivi nel 40% delle imprese. Laddove lo sono spesso a sentire i lavoratori risultano sostanzialmente inoperosi. Inoltre, si corre il rischio per cui RSU/RSA e RLS siano di fatto bersaglio non solo per l’azienda ma per quei colleghi che hanno più paura della crisi economica che di quella sanitaria e per i quali varrà il “lavorare ad ogni costo”, perfettamente in linea con i desiderata della Confindustria. Figurarsi nei posti di lavoro laddove le RLS sono semplicemente una voce della dirigenza e in quelli dove c’è totale assenza del sindacato.

Il rischio è che azienda per azienda si accettino in silenzio condizioni che non garantiscono la salute dei dipendenti. Le possibilità repressive delle imprese sono molteplici: la minaccia della chiusura o la riduzione dei volumi, la perdita di fette di mercato, l’utilizzo di una cassa integrazione selettiva, cui destinare discrezionalmente i lavoratori considerati “troublemakers” o meno funzionali alle esigenze produttive; la negazione di istituti quali lo smart working non su basi oggettive, ma sulla base di “antipatia”; la minaccia di licenziamenti una volta che alle imprese sarà concessa nuovamente la facoltà di licenziare (per questo è fondamentale che nel “decreto aprile” sia prevista una proroga dell’impossibilità di licenziamenti così come sarebbe chiave imporre condizionalità per l’erogazione di fondi alle imprese, che altrimenti potranno avvantaggiarsi oggi di nuova liquidità per poi licenziare o “ristrutturare” tra poche settimane).

Che fare nella Fase 2?

1. Moltiplicare le antenne sui posti di lavoro

Dinanzi a questo scenario, il conflitto che si produrrà sui posti di lavoro sarà chiave per determinare il nostro futuro. Non importa che abbia presenza pubblica, ci sarà. In maniera forse carsica, apparendo qua e là e procedendo spesso in maniera sotterranea, ma ci sarà. Quali sono i nostri compiti dinanzi a questo nuovo periodo?
Innanzitutto restituire all’esterno quanto accade nelle aziende. Diventano imprescindibili tutte le antenne che abbiamo a disposizione oggi. Dai singoli attivisti, passando per i lavoratori incrociati nel corso delle vertenze negli anni, arrivando alle strutture sindacali. Occorre uno sforzo congiunto per dare visibilità a quanto accade nel chiuso delle imprese. Perché non è un fatto privato o di interesse di una piccola comunità. È interesse del Paese tutto sapere cosa accade sui posti di lavoro.

2. Comitati del controllo operaio

In secondo luogo, non possiamo lasciare sulle spalle dei soli lavoratori la difesa delle condizioni di salute nelle aziende. Per i motivi esposti sopra, il ricatto fortissimo cui sono sottoposti rischia di rendere impossibile una adeguata difesa.
Bisogna lanciare la creazione di “Comitati Popolari per la Difesa dei Lavoratori”, formati su base provinciale o di distretto o comunque territoriale da attivisti ma anche da sindacati, gruppi, organizzazioni sociali e politiche, che abbiano il compito di funzionare come una sorta di cabina di regia e di agire offrendosi come strumento nelle mani di quei lavoratori che sul singolo posto di lavoro non godono di adeguati rapporti di forza.

Allo stesso tempo bisogna rivendicare che le istituzioni deputate al controllo lavorino se non esclusivamente quanto meno in maniera prioritaria sul controllo delle aziende: Ispettorato Nazionale del Lavoro, Guardia di Finanza, Polizia Municipale, ASL, devono smetterla di piantare posti di blocco ogni 100m e concentrarsi sul controllo delle aziende, sulla verifica della garanzia del diritto alla vita per milioni di uomini e donne nei luoghi della produzione e della distribuzione di questo Paese. Anche in tal caso proponiamo la costituzione di Comitati che facilitino il lavoro di coordinamento da questo punto di vista. Con la partecipazione dei sindacati, ma con l’ovvia esclusione delle rappresentanze datoriali. Un organo di controllo non può prevedere la presenza in qualità di controllore di colui che deve essere controllato.

3. Agenzia per la Transizione Ecologica

In terzo luogo, su un livello più politico generale, c’è la necessità di pensare all’istituzione di una Agenzia per la Transizione Ecologica. Assisteremo a numerose chiusure aziendali e/o alla richiesta di fortissime iniezioni di liquidità. Anche grazie all’allargamento delle maglie degli “aiuti di Stato”, nonché al mutamento del “senso comune” sull’utilità dell’intervento dello Stato, e alla possibilità di procedere a vere e proprie nazionalizzazioni, lo Stato deve essere protagonista in tema di politica industriale ed economica e lavorare nell’ottica della costruzione di un “Piano per il Futuro”. Alcune aziende dovranno essere rilevate e convertite per produzioni di carattere sanitario e/o ecologico, garantendo nel mentre ammortizzatori sociali e formazione ai lavoratori che dovranno essere sostenuti e tutelati in ogni fase.

Le leve non mancano, ciò che manca è semmai la volontà politica (e la forza per reggere un tale urto). La decisione di posticipare Plastic Tax e Sugar Tax è, ad esempio, nella direzione opposta a quella giusta per noi e per il pianeta tutto. Non tanto per i mancati introiti economici che comporta questa scelta (erano pensate così ai minimi termini che non sarebbe entrato granché comunque), ma per il segnale politico che si lancia.

Il mondo di domani non verrà fuori da un impossibile ritorno al passato. Un passato che per molti era già la “malattia”. Sta anche a noi fare in modo che si prenda la direzione giusta.

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