1. Cronistoria
1.1 la Campagna contro il lavoro nero #nonesisomacisono
Nel febbraio del 2017 la Camera del Lavoro di Napoli (CpdL) già portava avanti la campagna contro il lavoro nero #nonesistomacisono (la campagna è ancora in piedi e si è estesa su tutto il territorio), volta a denunciare le condizioni di sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori della città. Campagna che ha avuto successo fin da subito, anche a causa della forte percentuale di lavoro sommerso che esiste a Napoli. Tra le varie vertenze, una diventa subito centrale, sia dal punto di vista vertenziale, per il grande numero di lavoratrici e lavoratori che decide di intraprendere questa battaglia, sia dal punto di vista simbolico, per l’importanza del sito: parliamo, infatti, di Napoli Sotterranea (da ora in poi NS), una delle attrazioni turistiche più visitate e remunerative della città. Tra tuttƏ le/i sfruttatƏ c’è anche Grazia, una giovane donna di 35 anni, che aveva lavorato per quattro anni come guida turistica, senza alcun contratto come la maggior parte deƏ suƏ colleghƏ. Nonostante il clima di controllo e repressione che si respira a NS, Grazia ha il coraggio di denunciare l’ennesima appropriazione indebita da parte del suo padrone; quello che Grazia denuncia questa volta non è l’usurpazione sul proprio tempo di lavoro, non il latrocinio del proprio stipendio e dei propri diritti, bensì l’abuso ai danni del proprio corpo.
Così Grazia denuncia la molestia e violenza subita a gennaio 2017 da Vincenzo Albertini, presidente dell’associazione che gestisce il sito archeologico.
Ci preme raccontare questa storia perché non è solo una storia particolare, ma è uno dei tanti esempi di cosa significhi lavorare da donna in questo paese, soprattutto se si è precariƏ e/o se, come nel caso di Grazia, si lavora a nero. Se leggiamo il tutto sotto questa lente, quelli che sembrano essere discorsi astratti e dati senza contesto acquisiscono finalmente la meritata concretezza. Le molestie e le violenze sul lavoro non sono un’eccezione, ma costituiscono la quotidianità per la componente femminile della popolazione, anche quando non finiscono sulle cronache dei giornali perché non ritenute abbastanza spettacolarizzanti.
1.2. Il processo
Il processo è iniziato dopo più di un anno dalla denuncia; complice del ritardo il rimando continuo dell’udienza per vizi di notifica (in fondo le doti da camaleonte di padron Vincenzo Albertini, conosciuto anche come il “furbetto del sottosuolo”, erano già note). In occasione della prima udienza, all’inizio dell’ottobre del 2018, il Comune di Napoli si è costituito parte civile, grazie anche alle continue sollecitazioni della CpdL.
Affrontare un processo è sempre difficile, ma affrontare un processo in cui il racconto delle proprie sofferenze è posto costantemente in discredito non è solamente difficile, è estenuante. Nonostante ciò, Grazia si è preparata al peggio e non ha mai indietreggiato, non ha mai esitato, pretendendo che la sua verità avesse uno spazio pubblico in cui essere riconosciuta.
E Il tribunale di Napoli ha dato ragione a Grazia. Non una, ben due volte.
Il 6 luglio 2020 il Tribunale di Napoli ha condannato il presidente di Napoli Sotterranea Vincenzo Albertini a 1 anno e 8 mesi di reclusione, con l’interdizione dai pubblici uffici, per violenza sessuale sul luogo di lavoro nei confronti di Grazia. Il Tribunale ha, inoltre, ordinato il rinvio degli atti in procura per falsa testimonianza nei confronti dei 5 testimoni di Albertini: Nadia Manisera, Rosaria Albertini, Arianna Albertini, Laura Angarelli e Francesco Legorano.
Il 14 ottobre 2021 il tribunale ha confermato, in Appello, la sentenza di colpevolezza già data in Primo Grado a Vincenzo Albertini, costringendolo inoltre al pagamento di una provvisionale.
1.3 Uno sguardo interno al processo
Rimarremo ancora concentrati sul processo, non perché crediamo sia quello in assoluto il luogo della verità e della giustizia sociale, bensì perché questo processo è stato davvero il palcoscenico più fedele della nostra realtà. Abbiamo assistito in questi quattro anni alla presentazione di tutti gli stereotipi e di tutte le argomentazioni, accuratamente preconfezionate, per sbugiardare la parola delle donne, per farle demordere dal perseguimento del proprio obiettivo, per ridimensionare e isolare la battaglia di una donna che in realtà è quella di tante donne
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Partiamo dalla scelta della difesa; il Patron del sottosuolo Albertini si è valso delle preziose prestazioni dei più importanti avvocati Napoletani, di cui uno aveva un curriculum d’eccezione: era stato difensore di una vittima che aveva subito violenze domestiche, il cui caso era finito agli onori delle cronache per la ferocia della violenza subita. Il sottotesto era pressoché implicito, e non a caso utilizzato prontamente nelle aule del tribunale: conoscere la vera violenza. Esiste, quindi, una gerarchia delle violenze, imposta e legittimata dal retaggio del patriarcato che è radicato nella nostra società che decide chi l’ha o meno subita. E naturalmente, Grazia non ne rientrava.
A seguire invece, abbiamo assistito alla partecipazione della criminologa Bruzzoni, famosa per aver animato le trasmissioni delle fasce pomeridiane, con picchi di share. La motivazione della criminologa era diversa, ma comunque già nota: l’atteggiamento della vittima non era stato l’atteggiamento della vittima tipo. La vittima tipo ha dei tempi di rielaborazione del trauma più lunghi, la vittima tipo non parla, la vittima tipo ha atteggiamenti depressivi che la portano ad introiettare il proprio dolore. Grazia non era la vittima tipo; ha avuto il coraggio di reagire e denunciare immediatamente, di parlare dapprima con i propri responsabili, con la propria famiglia e in ultimo, atteggiamento che l’ha sconfessata definitivamente, denunciare collettivamente e pubblicamente l’accaduto. Il suo comportamento non stereotipato (e anche qui ci chiediamo chi stabilisca quale sia) l’ha declassata a non-vittima.
Ultimo elemento – ma non per questo meno importante – portato nelle aule del tribunale è chiaramente il dato socioeconomico. Il tentativo, messo in piedi dall’accusa, era quello di mostrare la vittima nella posizione di arrampicatrice sociale. La denuncia di Grazia sarebbe stata, infatti, il tentativo di una scalata sociale che vedeva la giovane donna della provincia inscenare una violenza sessuale sul luogo di lavoro al fine di spillare danaro al potente del sottosuolo. D’altronde, come ha tentato di dire l’accusa, sono circa il 40% i casi di donne che ritirano la denuncia a seguito di un accordo o che la ritirano dimostrando l’infondatezza delle proprie accuse. Non è stato un caso, infatti, che gli avvocati di Albertini abbiano prontamente offerto dei soldi a Grazia per chiudere il processo prima di un’ulteriore sentenza. Tentativo che avrebbe probabilmente confermato un dato appositamente manipolato. Questa volta, però, la vittima non ha ceduto al ricatto economico, alla pressione del dubbio di una sentenza, ma ha resistito ancora, fino all’ultimo minuto, perché la verità era, ed è, ciò che conta.
Quelli riportati non sono naturalmente gli unici elementi interessanti del processo; Grazia è stata sottoposta al conteggio dei propri passi, al calcolo delle metrature del sottosuolo, ad una continua vivisezione del proprio racconto, con dovizia di dettagli e specifici particolari sessuali; è stata accusata di ricordare troppi dettagli per essere in un momento di forte pressione, di essere stata troppo reattiva, ma anche di esserlo stato troppo poco: se hai subito una molestia reagisci subito o non sei statƏ davvero molestatƏ. Quelli su cui abbiamo scelto di focalizzarci sono argomentazioni che rappresentano il cuore ideologico utilizzato contro chi denuncia o solo prova a denunciare.
2. Il nostro metodo
Nonostante avessimo avuto a che fare molte volte con vertenze sui posti di lavoro, è stata la prima volta che ci siamo trovatƏ ad affrontare una situazione di duplice sfruttamento. Quando si è presentata Grazia alla nostra porta, quindi, abbiamo dovuto riflettere bene sul tipo di supporto da darle, proprio a causa della delicatezza del processo.
Il nostro supporto è stato costante e su diversi livelli, tutti intersecati tra loro: giuridico e istituzionale, cittadino, “mobilitativo” e mediatico.
Dal punto di vista giuridico abbiamo supportato Grazia fin dalla prima udienza, organizzando presidi fuori il tribunale e conferenze stampa per diffondere la sua storia. D’altro canto, il molestatore Albertini ha fatto di tutto affinché la voce di Grazia fosse dapprima messa a tacere e poi ridicolizzata. Essere presenti ad ogni udienza ha avuto il duplice scopo di supportare Grazia e di fare sentire la giusta pressione al patron del sottosuolo e ai suoi scagnozzi, nonché a tutto l’apparato giudiziario. E la pressione è stata sicuramente percepita, se si considera come il nostro supporto sia stato costantemente strumentalizzato durante le udienze per indebolire la posizione di Grazia.
Un ulteriore passaggio è stato quello di spostare il supporto a questa battaglia anche e soprattutto nelle strade. Dal punto di vista “mobilitativo”, infatti, la battaglia contro il lavoro nero in città è stata, da dopo la denuncia di Grazia, costantemente accompagnata da un’ulteriore rivendicazione: fuori dal sottosuolo – e non solo – tutti gli sfruttatori, tutti i violentatori e tutti i molestatori! Per questo, in ogni presidio come in ogni corteo, abbiamo sempre cercato di allargare la partecipazione a tutta la cittadinanza affinché tutta partecipasse ad una battaglia più grande che vuole i propri beni amministrati e gestiti pubblicamente e non da privati usurpatori. Questo processo “mobilitativo” ha avuto un ruolo fondamentale nel coinvolgere lo stesso Comune di Napoli come parte civile nel processo, facendo sì che accompagnasse Grazia fino all’epilogo insieme a noi (a questo proposito, è importante notare che in quel periodo, inoltre, grazie alla Camera del Lavoro di Napoli è nata la delibera n 100 del Comune di Napoli).
Dal punto di vista mediatico, abbiamo sempre ragionato – insieme a Grazia – sull’importanza del suo protagonismo e della sua convinzione: al di là del costante sostegno e delle innumerevoli riunioni, la sua personale determinazione è stata decisiva. Altrettanto decisiva è stata la scelta comune di diffondere questa storia senza ricalcare né particolari eroismi – sono tante le donne che denunciano e combattono i propri usurpatori – né l’immagine di una vittima inerme accompagnata passivamente nel processo. Nessuna delle due rispecchia infatti questa storia. La storia che insieme a Grazia abbiamo restituito è quella di una donna che sceglie di combattere collettivamente una battaglia che simultaneamente è propria ed appartiene a tante donne, a tutti e tutte noi. E infatti è stata una battaglia in cui si sono immedesimate tante persone; dalle colleghe di Grazia che hanno avuto il coraggio di parlare anche di ciò che era successo a loro, alle molte che hanno espresso solidarietà per una vicenda profondamente ingiusta ma strutturalmente diffusa.
Tutti questi diversi livelli di intervento sono stati essenziali per vincere questa battaglia.
3. Conclusioni
A chi ci chiede come mai abbiamo scelto di supportare Grazia in questa lotta, rispondiamo che non avremmo potuto NON farlo. Ribadiamo che quella di Grazia è la storia di una donna ma che ne condensa in sé tante, tantissime, e che pone alla luce tutte le contraddizioni vissute sui luoghi di lavoro.
Quando Grazia è passata per la Camera del Lavoro di Potere al Popolo! era appunto una lavoratrice che denunciava l’ennesimo abuso da parte del proprio datore di lavoro.
Questa vicenda ci ricorda, ancora una volta, che le condizioni sul luogo di lavoro non sono uguali tra chi dà il lavoro e chi lo presta; Vincenzo Alberti si è sentito in potere di appropriarsi del corpo della lavoratrice, al pari del suo tempo e del suo salario, come se fosse un suo diritto!
Di contro c’è la scelta di Grazia di denunciare, di non credere che quello che era accaduto sul luogo di lavoro fosse normale, di non credere che a loro sia concesso anche questo (oltre al sottrarci il contratto, i contributi, il salario, il tempo, i diritti)! Grazia ha fatto di una questione privata un momento di lotta collettivo e pubblico, per dire a tuttƏ, e soprattutto alle tante donne molestate, che si può denunciare e che si può vincere. D’altronde, sono gli stessi dati ISTAT che riportano una situazione sui luoghi di lavoro insopportabile: «Sono un milione 404 mila le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Rappresentano l’8,9% per cento delle lavoratrici attuali o passate, incluse le donne in cerca di occupazione». E parliamo di dati relativi al 2016, precedenti alla pandemia e alla conseguente crisi, su cui non ci sono ulteriori aggiornamenti.
Ma torniamo al dato particolare, che ne evidenzia di più generali: la determinazione di Grazia. Nonostante l’incondizionato appoggio dal nostro spazio e dai suoi affetti, non crediate che non abbia subito i contraccolpi della stanchezza, del dubbio, della consapevolezza di scontrarsi con un potentato che aveva armi e strumenti nettamente superiori. Il dato riportato dall’avvocatura avversaria – il 40% di donne che ritirano la propria denuncia – ci rimanda a due questioni: la prima è la capacità, o forse sarebbe più appropriato dire la possibilità, di poter resistere alla pressione economica di chi offre su un piatto somme a tre o quattro zeri per negare la propria voce. Questo dato non è scontato se pensiamo che le donne sono le prime ad essere espulse con più facilità dal mondo del lavoro, sono quelle economicamente più fragili e che spesso hanno il carico della famiglia, o semplicemente dei propri figli. Possibilità economica a cui si contrappone l’impossibilità, o l’incapacità, di tante donne a continuare il cammino della denuncia. La seconda questione, strettamente legata alla prima, riguarda la difficoltà nel portare fino in fondo la denuncia e lotta, costantemente ostacolata non solo da dati materiali come quelli economici, ma anche dal giudizio costante della controparte e dell’opinione pubblica che strumentalizza le rinunce per screditare lo sforzo di chiunque provi a resistere su questo cammino.
Cosa possiamo, e dobbiamo, fare noi accanto alle tante Grazia che passano per i nostri sportelli, o che abbiamo la fortuna di intercettare?
Anzitutto ascoltare, capire e rielaborare insieme con la consapevolezza che la molestia, ovunque essa avvenga e soprattutto sul luogo di lavoro, non è un affare singolare, né nel senso di eccezionale, né nel senso di individuale. La prevaricazione che avviene sui luoghi di lavoro è la prevaricazione tipica delle società liberali e capitalistiche dove il rapporto di squilibrio diventa appropriazione totale. Solo uscendo dalla dinamica individuale, offrendo supporto collettivo, facendosi carico dei soprusi subiti da ogni singola donna come soprusi subiti da tutta la società possiamo restituire a tante il coraggio di denunciare, di resistere e di affrontare battaglie che sono foriere di un rovesciamento di tutta la società, e non solo del proprio singolo padrone.
Per questo quella di Grazia è anche e soprattutto una storia collettiva, la nostra storia collettiva. Questa vicenda ha portato un ulteriore contributo alla nostra campagna contro il lavoro nero; ancora più forti e decisi rivendichiamo che chi sfrutta il lavoro nero e chi esercita violenza sessuale sulle proprie lavoratrici non può avere alcun diritto di gestire e amministrare un patrimonio pubblico, che appartiene a tutta la città. Se due sentenze di tribunale stabiliscono la colpa di Albertini nei confronti della lavoratrice, le strade e le piazze aspettano ancora che giustizia sociale sia fatta: che tutti gli usurpatori e stupratori siano ostracizzati, o quanto meno estromessi dalla gestione delle nostre bellezze.
La strada è ancora lunga e impervia; tante sono le contraddizioni che vedremo ancora esplodere e che verranno attraversate e subite da tante singolarità; eppure noi proveremo sempre a farne rovesciamento comune!