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USA: IL FUOCO NEL CUORE DELL’IMPERO

Il giocattolo si è rotto, davanti agli occhi del mondo. E – nel riflettere su quanto accaduto a Washington (ma non solo lì) – i due aspetti vanno tenuti entrambi ben presenti.

Il giocattolo della democrazia rappresentativa, che ha negli Stati Uniti la prima forma compiuta della modernità, era lì già saltato una prima volta, trasformandosi in guerra di Secessione.

Allora, in pieno Ottocento, nel vivo di una crescita capitalistica che sembrava potenzialmente infinita quanto il territorio Usa – allora si andava a cavallo, non con l’aereo – la soluzione della contraddizione tra borghesia industriale e latifondisti prese la forma “virtuosa” di una guerra contro lo schiavismo.

Che sicuramente era una forma barbara di sfruttamento degli esseri umani, ma doveva essere sostituita – nell’industria moderna – da un’altra forma non meno selvaggia: il lavoro salariato. Per chi fatica a ragionare con le categorie economiche, consigliamo sempre la lezione che Marlon Brando fa in Queimada.

Oggi la contraddizione tra figure del capitale si presenta con una diversa configurazione, ovviamente. Da un lato i protagonisti del vecchio conflitto (industrie “mature” e aziende agricole di ogni dimensione), dall’altro la grande finanza di Wall Street, le multinazionali hi-tech, l’economia delle piattaforme.

I primi, individuando Trump come campione, hanno provato e vorrebbero ancora provare a re-internalizzare buona parte delle produzioni ormai da decenni collocate all’estero (Messico, Cina, ecc). Da questo dipendono i loro profitti, ma anche milioni di posti di lavoro in un’Amerika che conta 100 milioni di “inattivi” e ha visto tracollare – come ovunque – ristorazione e servizi a causa della pandemia.

I secondi, sempre meno legati alla “specificità” territoriale e con una liquidità spaventosa a disposizione, sognano un ritorno alla “globalizzazione”, in cui esercitare la stessa egemonia di qualche anno fa.

La contraddizione di oggi, in altri termini, avviene nel pieno di una perdita di centralità, in una crisi sistemica che mette in discussione ogni aspetto dell’organizzazione sociale nell’Occidente neoliberista.

E se, ancora una volta, le questioni economiche risultassero troppo complesse, c’è la gestione della pandemia a dimostrare che questa organizzazione (della società, degli Stati, della produzione) non riesce più a risolvere i problemi che lei stessa crea.

Le prospettive della “guerra civile strisciante” negli Usa sono insomma radicalmente diverse da quelle trionfali dell’Ottocento.

Dicevamo anche che questa crisi avviene sotto gli occhi del mondo. E se sono comprensibili le preoccupate reazioni europee, di bassissimo profilo, come se si attendesse di sapere prima chi vincerà o cosa accadrà nelle prossime settimane, si può immaginare come venga vissuta questa profonda crisi politica yankee nel resto del mondo. Ossia tra i competitor più scalpitanti o tra i Paesi che più hanno dovuto subire il peso delle “attenzioni” Usa.

Qui, oltre alle considerazioni di breve periodo (possibilità o meno di nuovi interventi militari all’estero), certamente viene soppesata anche la caduta di credibilità del modello politico istituzionale che gli Stati Uniti hanno rappresentato. Più nella propaganda che nella realtà effettiva, ma ne sono stato il pilastro fondamentale.

Vedere bande di sciamannati, anche armati, entrare nel “tempio” della democrazia parlamentare. Vedere i poliziotti spalancare loro la strada, accompagnandoli più o meno benevolmente lungo i corridoi e gli scaloni del massimo potere. E soprattutto vedere un presidente uscente incitare o coccolare quelle bande, mentre quello appena eletto bofonchia parole di cauta condanna della “violenza”, sicuramente non aiuterà la credibilità degli Usa come “modello per il mondo”.

Tutti quelli che hanno un contenzioso aperto con gli yankee, insomma, hanno ora molte più carte in mano da giocare. Sui vari teatri di conflitto regionale, per esempio, o nella direzione da dare all’economia internazionale.

Persino i dispersi comunisti occidentali, in qualche misura, potrebbero avere l’occasione per riaprire bocca, se ragionano bene…

Il problema Usa, infatti, non riguarda tanto le prossime ore. In qualche modo Sleeping Joe Biden entrerà alla Casa Bianca e The Donald ne verrà buttato fuori.

Ma quel che ha sdoganato, a cui ha dato forma e “narrazione” persuasiva, è un’alternativa radicale reazionaria al modello politico consolidato da oltre due secoli.

Un’alternativa che ha raccolto quasi la metà esatta dei consensi e che appare – e forse è anche – assai più compatta del “fronte democratico” abborracciato dall’establishment intorno a un suo pallido e anziano esponente.

Governare un paese spaccato a metà, con tante armi in libera circolazione, con interessi profondamente divergenti (tra Main Street e Wall Street) non sarà affatto business as usual. I problemi veri, per il vecchio imperialismo yankee, cominciano adesso.

Il fuoco del conflitto si è acceso nel cuore dell’impero, mentre fin qui l’establishment era sempre riuscito ad “esportarlo” su qualche nemico di comodo.

Il rischio, sullo sfondo, ma oggi un po’ meno lontano, è un collasso sociale e politico di cui nessuno, al momento, può calcolare esattamente le conseguenze.

Buon 2021! Al confronto, come si dice a Roma, il 2020 je spiccia casa

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