
Il governo italiano ha espresso il proprio pieno sostegno ai piani di riarmo imposti dagli Stati Uniti e dalla NATO.
“La cultura della Difesa incarna il principio fondamentale della cultura democratica”, ha affermato il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto, annunciando il primo Vertice sulla Difesa italiano che si terrà l’11 settembre 2025. Il vertice è organizzato da Il Sole 24 Ore, l’importante quotidiano di Confindustria, la Confederazione Generale dell’Industria Italiana. Il nome del quotidiano indica che per il capitale il sole non tramonta mai, o, in altre parole: il capitale non dorme mai.
Secondo il sito web, il Summit sulla Difesa coinvolgerà “i maggiori attori italiani e internazionali del settore [della difesa], dai decisori politici ai rappresentanti delle maggiori aziende”. L’obiettivo del Summit è quello di affrontare questioni chiave come l’evoluzione tecnologica guidata dall’intelligenza artificiale e lo sviluppo della sicurezza informatica, tutto ciò perché esiste un immenso potenziale del “valore economico dell’industria della Difesa italiana”.
A questo proposito, l’Italia sta abbracciando la politica di militarizzazione globale che mira a riaffermare il dominio economico, commerciale, politico e militare dell’imperialismo statunitense nel nuovo ordine mondiale.
Guerra commerciale e militarizzazione
Cosa c’entra l’attuale guerra commerciale guidata dagli Stati Uniti con la militarizzazione e l’economia di guerra? Un esame più attento dell’accordo UE-USA sui dazi raggiunto da Ursula von der Leyen e Donald Trump in Scozia il 27 luglio 2025 mostra come il protezionismo statunitense nei confronti dell’Europa serva soprattutto all’industria militare. Infatti, l’accordo non solo prevede dazi unilaterali del 15% sui prodotti europei che entrano nel mercato statunitense, ma anche ingenti investimenti europei nell’economia statunitense.
L’Europa ha accettato di investire 600 miliardi di dollari nell’economia statunitense, ovvero tre volte il surplus commerciale che l’Europa aveva con gli Stati Uniti nel 2024. Invece di investire nella propria economia, l’Europa preferisce investire negli Stati Uniti, nonostante il fatto che il sottoinvestimento sia diventato un problema cronico nell’Eurozona, portando a una crescita economica debole e a un indebolimento della domanda interna. Ma come faranno gli Stati europei a “costringere” il capitale a investire negli Stati Uniti? Una delle ipotesi più plausibili è che gli investimenti proverranno dalle grandi industrie, come – che sorpresa! – la difesa. La difesa, nonostante sia privata, ha ancora una quota di maggioranza relativa detenuta dal Tesoro o da altri enti pubblici.
Alla fine del 2024, il governo italiano ha approvato l’entrata di BlackRock, il più grande gestore patrimoniale al mondo, in Leonardo, il più importante gruppo italiano nel settore della difesa e dell’aerospaziale con una partecipazione superiore al 3%. Ora, il governo Meloni sta lavorando per garantire le migliori condizioni di investimento all’industria militare italiana. Non c’è da stupirsi, dato che questa fazione del capitale industriale costituisce un elemento chiave del blocco sociale dominante in Italia, nonostante pesi per meno dell1% su occupazione e PIL totale.
SAFE: debito comune per rafforzare l’industria militare
A pochi giorni dall’accordo commerciale tra UE e Stati Uniti, l’Italia ha annunciato ufficialmente SAFE (Security Action For Europe), il programma di prestiti pubblici destinato a finanziare l’industria della difesa nel contesto del piano Readiness 2030 della Commissione europea. Il pilastro principale è costituito da 650 miliardi di euro e dipende dalla scelta dei singoli Paesi dell’UE di contrarre ulteriori debiti.
SAFE, finanziato con 150 miliardi di euro, costituisce invece il secondo pilastro e un programma di prestiti comuni esclusi dai bilanci dei Paesi membri. I prestiti avranno una lunga scadenza fino a 45 anni, con un periodo di grazia di dieci anni prima dell’inizio del rimborso. L’Italia ha richiesto l’accesso a questo strumento in una lettera inviata alla Commissione UE e ammonta a 15 miliardi di euro con un tasso favorevole.
Il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha spiegato: “È un debito interessante perché costa meno in interessi rispetto ai BTP [titoli di Stato italiani indicizzati all’inflazione, con cedole semestrali e scadenze comprese tra 4 e 8 anni]. Se mi dite pago il 3,5 sul Btp o il 3% sul SAFE il ministro dell’Economia se non è scemo risponde: pago il 3% sul SAFE e risparmio un po’ di interesse.”
Il governo italiano presenterà i piani di investimento nel novembre di quest’anno, in concomitanza con la presentazione del bilancio dello Stato per il 2026.
La militarizzazione è anche una battaglia delle idee
Ma la militarizzazione non riguarda solo il denaro e lo sviluppo industriale, è anche parte di una guerra ideologica che mira a normalizzare gli sforzi di militarizzazione all’interno della popolazione italiana. Nell’ultimo periodo, c’è stato un massiccio aumento della copertura mediatica sul ruolo positivo dell’esercito nella società italiana, sui nuovi sviluppi tecnologici nel settore della difesa e sulle opportunità professionali che l’esercito offre ai giovani (una risposta all’invecchiamento dei vertici dell’esercito italiano). Poco si dice invece delle operazioni militari italiane all’estero.
Una delle presenze più significative dell’economia di guerra nella sfera sociale è documentata da Antonio Mazzeo nel suo libro “La scuola va alla guerra. Inchiesta sulla militarizzazione dell’istruzione in Italia”. Mazzeo, che è stato anche membro dell’ultima Freedom Flotilla “Handala”, descrive come le scuole italiane stiano sempre più abdicando alle loro responsabilità educative, consentendo alle forze armate e alle aziende produttrici di armi di occupare le istituzioni scolastiche per scopi ideologici. Antonio Mazzeo sostiene: “Contemporaneamente alla privatizzazione e precarizzazione del sistema educativo, si assiste a un soffocante processo di militarizzazione delle istituzioni scolastiche e degli stessi contenuti culturali e formativi. Come accadeva ai tempi del fascismo, le scuole tornano a essere caserme mentre le caserme si convertono in aule e palestre per formare lo studente-soldato votato all’obbedienza perpetua.”
Gli esempi descritti sono numerosi, anche se poco noti al grande pubblico, dalle visite scolastiche alle basi militari della NATO alle cosiddette attività pedagogiche e culturali affidate ad ammiragli militari. Si tratta di una vera e propria penetrazione dell’esercito nella vita quotidiana dei giovani.
L’Italia contro la guerra e la militarizzazione
Ma c’è anche l’altra faccia dell’Italia, quella contro la guerra e la militarizzazione. Il movimento contro la militarizzazione ha iniziato una sua nuova primavera nel 2022 contro l’espansione a Est della NATO e l’invasione russa dell’Ucraina. Si è rafforzato dopo il 7 ottobre 2023 con le mobilitazioni studentesche e popolari contro il genocidio in Palestina e l’espansione del progetto sionista nella regione, soprattutto anche grazi ai lavoratori portuali che hanno bloccato il passaggio di armi e munizioni destinati all’Arabia Saudita e a Israele. Il movimento ha raggiunto il suo ultimo picco il 21 giugno 2025 con la mobilitazione “Disarmiamoli!”, quando oltre 30.000 persone hanno manifestato a Roma contro l’aumento della spesa militare al 5% del PIL imposto dalla NATO e il progetto europeo di “difesa comune”.
Il sentimento antimilitarista è confermato da un sondaggio CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali) che mostra che solo il 25% sostiene in ogni caso un incremento delle risorse finanziarie destinate alla difesa, anche a costo di sacrificare voci di spesa cruciali come la sanità e le pensioni, per adattarsi a vivere in un mondo più pericoloso. Per la maggioranza degli italiani è molto più importante investire nelle relazioni internazionali che nelle armi. Gli Stati Uniti non sono più considerati un alleato centrale, afferma il CENSIS: “In un mondo in cui le coalizioni tradizionali mostrano crepe sempre più evidenti, gli italiani guardano con crescente diffidenza all’alleato storico. Quasi la metà della popolazione non considera più scontato il sostegno degli Stati Uniti in caso di guerra.” Infatti, il 23% dei partecipanti ha affermato che gli Stati Uniti sono la principale fonte di minaccia militare (una parte della popolazione in rapida crescita).
Inoltre, gli italiani non mostrano “slanci patriottici” o “ambizioni di gloria”. Tra le persone di età compresa tra i 18 e i 45 anni – la fascia d’età più direttamente coinvolta in caso di mobilitazione – solo il 16% si dice pronto a combattere una guerra, il 39% si definisce pacifista e quindi protesterebbe, il 19% ammette senza esitazione che sceglierebbe di disertare.
La questione fondamentale oggi è quindi come trasformare questa maggioranza sociale contraria alla guerra e alla militarizzazione in una maggioranza politica in grado di cacciare coloro che stanno già conducendo una guerra sociale la classe lavoratrice.