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IL CAPITALISMO HA CREATO LA CRISI CLIMATICA, IL SOCIALISMO PUÒ EVITARE IL DISASTRO

*Nel novembre 2022, la maggior parte degli Stati membri delle Nazioni Unite (ONU) si riunirà nella città turistica egiziana di Sharm El Sheikh per la Conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Si tratta della 27° conferenza delle parti per la valutazione della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, comunemente chiamata COP 27. Il trattato internazionale sull’ambiente è stato istituito a Rio de Janeiro nel 1992, con la prima conferenza tenutasi a Berlino nel 1995; gli accordi sono stati estesi nel Protocollo di Kyoto del 2005 e integrati dall’Accordo di Parigi del 2015. Non c’è bisogno di dire altro sulla catastrofe climatica, che ha prodotto una minaccia di estinzione di massa delle specie. L’abbandono dei carburanti fossili trova tre ostacoli principali:

1. Le forze di destra che negano l’esistenza del cambiamento climatico.
2. Settori dell’industria energetica che hanno un interesse personale a mantenere i carburanti fossili.
3. Il rifiuto dei Paesi occidentali di ammettere di essere i principali responsabili del problema e di impegnarsi a ripagare il debito climatico finanziando la transizione energetica nei Paesi in via di sviluppo, di cui continuano a sottrarre la ricchezza.

Nei dibattiti pubblici sulla catastrofe climatica non c’è quasi nessun riferimento al Vertice della Terra di Rio del 1992 e al trattato in cui si legge: “La natura globale del cambiamento climatico richiede la più ampia cooperazione possibile da parte di tutti i Paesi e la loro partecipazione a una risposta internazionale efficace e appropriata, in accordo con le loro comuni ma differenziate responsabilità, le rispettive capacità e le condizioni sociali ed economiche”. L’espressione “responsabilità comuni ma differenziate” è un riconoscimento del fatto che, sebbene il problema del cambiamento climatico sia comune a tutti i Paesi e nessuno sia immune dal suo impatto deleterio, non tutti i Paesi portano la stessa e identica responsabilità. Alcuni Paesi – che hanno beneficiato per secoli del colonialismo e dei carburanti fossili – hanno una maggiore responsabilità nella transizione verso un sistema energetico decarbonizzato.

La dottrina in materia è chiara: per raggiungere i loro livello di sviluppo, i Paesi occidentali hanno beneficiato smodatamente sia del colonialismo che del carburante fossile. I dati del Global Carbon Project che faceva capo all’ormai sciolto Centro di Analisi e d’Informazioni sull’Anidrite Carbonica del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, mostrano che gli Stati Uniti sono stati di gran lunga il maggior produttore di emissioni di anidrite carbonica dal 1750. Solo gli Stati Uniti hanno emesso più CO2 dell’intera Unione Europea, il doppio della Cina e otto volte più dell’India. Le principali emittenti di carbonio sono le potenze coloniali, ossia Stati Uniti, Europa, Canada e Australia, che, pur rappresentando circa un decimo della popolazione mondiale, hanno totalizzato più della metà delle emissioni globali cumulative. Dal 18° secolo in poi, questi Paesi non solo hanno emesso la maggior parte dell’anidrite carbonica nell’atmosfera, ma continuano a superare la loro quota del bilancio globale di CO2.

Il capitalismo a carburante fossile e il saccheggio coloniale hanno permesso ai Paesi dell’Europa e del Nord America di migliorare il benessere delle loro popolazioni e di raggiungere un livello di sviluppo relativamente avanzato. L’estrema disuguaglianza tra il tenore di vita dell’europeo medio (748 milioni di persone) e dell’indiano medio (1,4 miliardi di persone) è sette volte superiore paragonato a un secolo fa. Sebbene la dipendenza dal carbonio (in particolare dal carbone) di Cina, India e altri Paesi in via di sviluppo sia aumentata fortemente, le loro emissioni pro capite continuano a rimanere molto al di sotto di quelle degli Stati Uniti. La mancanza di riconoscimento dell’imperialismo climatico porta all’incapacità di stanziare risorse adeguate per il Fondo verde per il clima creato nel 2010 alla COP 16 con l’obiettivo di aiutare i Paesi in via di sviluppo a “saltare” lo sviluppo sociale alimentato dal carburante fossile.

A livello globale, i dibattiti su come affrontare la crisi climatica ruotano spesso intorno a varie forme di Green New Deal (GND), come il Green Deal europeo, il GND nordamericano e il GND globale, promossi da Stati nazioni, organizzazioni internazionali e diversi settori dei movimenti ambientalisti. Per comprendere meglio e rafforzare questa discussione, l’ufficio di Tricontinental: Institute for Social Research di Buenos Aires, Argentina, ha riunito i principali studiosi eco-socialisti e ha creato uno spazio di riflessione sui diversi GND e sulle possibilità di realizzare un’autentica trasformazione con lo scopo di evitare la catastrofe climatica. La conversazione tra José Seoane (Argentina), Thea Riofrancos (Stati Uniti) e Sabrina Fernandes (Brasile) è ora disponibile nel quaderno nr. 3 (agosto 2022), The Socioenvironmental Crisis in Times of the Pandemic: Discussing a Green New Deal.

I tre studiosi argomentano che il capitalismo non può risolvere la crisi climatica poiché è la causa principale della crisi. Cento tra le più grandi aziende del mondo sono responsabili del 71% dei gas serra industriali globali (soprattutto anidride carbonica e metano). Queste aziende, guidate dall’industria dell’energia di carbonio, non sono pronte ad accelerare la transizione energetica, nonostante la capacità tecnologica di generare diciotto volte la domanda globale di elettricità con la sola energia eolica. La sostenibilità, una parola che è stata svuotata del suo contenuto in molti discorsi pubblici, non è redditizia per queste aziende. Un progetto sociale di energia rinnovabile, ad esempio, non produrrebbe grandi profitti per le aziende di combustibili fossili. L’interesse di alcune imprese capitaliste per il Green New Deal è sostanzialmente motivato dal desiderio di aggiudicarsi fondi pubblici per sviluppare nuovi monopoli privati per la stessa classe capitalista che possiede le grandi imprese che inquinano il mondo. Ma come spiega Riofrancos nel quaderno, “il cosiddetto capitalismo verde pretende di mitigare i sintomi del capitalismo (riscaldamento globale, estinzione di massa delle specie, distruzione degli ecosistemi) senza trasformare il modello di accumulazione e di consumo che ha causato la crisi climatica. Si tratta di un techno-fix: la fantasia di cambiare tutto senza cambiare nulla”.

Il dibattito mainstream sul GND emerge, come sottolinea Seoane, da iniziative come il rapporto Pearce del 1989 Blueprint for a Green Economy preparato per il governo britannico e che proponeva come soluzione alla crisi delle economie occidentali l’uso di fondi pubblici per produrre nuove tecnologie per le aziende private. Il concetto di “economia verde” non era quello di rendere più verde l’economia, ma di utilizzare l’idea dell’ambientalismo per rivitalizzare il capitalismo. Nel 2009, durante la crisi finanziaria mondiale, Edward Barbier, coautore del Rapporto Pearce, scrisse un nuovo rapporto per il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente intitolato Global Green New Deal e che riproponeva le idee della green economy e del green new deal. Anche questo nuovo rapporto insiste sulla necessità di fondi pubblici per stabilizzare le turbolenze del sistema capitalistico.

Il nostro quaderno nasce da un’idea diversa che ha le sue radici nella Conferenza mondiale dei popoli sul cambiamento climatico e i diritti della Madre Terra (2010) e nella Conferenza mondiale dei popoli sul cambiamento climatico e la difesa della vita (2015), entrambe tenutesi a Tiquipaya, in Bolivia, e poi sviluppate in incontri come il Forum alternativo mondiale dell’acqua (2018), il Vertice dei popoli (2017) e il Forum dei popoli sulla natura (2020). Al centro di questo approccio, nato dalle lotte popolari in America Latina, ci sono i concetti di buen vivir e teko porã (vivere bene). Piuttosto che limitarsi a salvare il capitalismo, che è la preoccupazione del concetto di GND, noi pensiamo che sia fondamentale cambiare il modo in cui organizziamo la società, o in altre parole: abbiamo bisogno di far avanzare le nostre riflessioni sulla costruzione di un nuovo sistema. La costruzione di queste idee, sostiene Fernandes, deve coinvolgere i sindacati (molti dei quali sono preoccupati per la perdita di posti di lavoro causata dalla transizione dal carbonio alle energie rinnovabili) e i sindacati dei contadini (molti dei quali sono attanagliati dal fatto che la concentrazione di terre distrugge la natura e crea disuguaglianze sociali).

Dobbiamo cambiare il sistema, come sostiene Fernandes, “ma le condizioni politiche di oggi non sono favorevoli. In molti Paesi la destra e il sentimento di negazione della scienza del clima sono forti”. Perciò urge mettere sul tavolo un programma di decarbonizzazione. I movimenti popolari devono orientarsi a quattro obiettivi:

1. La decrescita dei Paesi occidentali. Con meno del 5% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti consumano un terzo della carta mondiale, un quarto del petrolio mondiale, quasi un quarto del carbone mondiale e un quarto dell’alluminio. Il Sierra Club afferma che il consumo pro capite degli Stati Uniti “di energia, metalli, minerali, prodotti forestali, pesce, cereali, carne e acqua dolce è superiore a quello delle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo”. I Paesi occidentali devono ridurre i loro consumi complessivi, riducendo, come osserva Jason Hickel, quelli “inutili e distruttivi” come l’industria dei combustibili fossili e delle armi, la produzione di McMansions e jet privati, la produzione industriale di carne bovina e abbandonare l’intera filosofia aziendale dell’obsolescenza programmata.

2. Socializzare il settore chiave della produzione di energia. Porre fine ai sussidi all’industria dei carburanti fossili e costruire un settore energetico pubblico che sia radicato in un sistema energetico decarbonizzato.

3. Finanziare l’Agenda globale per l’azione sul clima. Assicurarsi che i Paesi occidentali adempiano alle loro responsabilità storiche nel sostenere il Fondo verde per il clima, che sarà utilizzato per finanziare la giusta transizione, soprattutto nel Sud del mondo.

4. Potenziare il settore pubblico. Costruire più infrastrutture per il consumo sociale piuttosto che per quello privato, come per esempio treni ad alta velocità e autobus elettrici per diminuire l’uso delle auto private. I Paesi del Sud globale dovranno costruire le proprie economie, anche sfruttando le proprie risorse. La questione non è tanto se sfruttare o meno queste risorse, ma se possono essere estratte per lo sviluppo sociale e nazionale e non solo per l’accumulazione del capitale. Buen vivir significa superare la fame e la povertà, l’analfabetismo e la malasanità e restituire la gestione del buen vivir al settore pubblico.

Nessuna politica climatica può essere universale. Coloro che divorano le risorse del mondo devono ridurre i loro consumi. Due miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile, mentre metà della popolazione mondiale non ha accesso a un’assistenza sanitaria adeguata. Lo sviluppo sociale di queste popolazioni deve essere garantito e costruito su una base sostenibile e socialista.

Con affetto,
Vijay

*Traduzione della trentacinquesima newsletter (2022) di Tricontinental: Institute for Social Research.

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