La sentenza della Corte di giustizia europea del 21 dicembre 2023, che ha considerato illegali le norme UEFA e FIFA che impediscono a club e calciatori di partecipare a competizioni “alternative” alle loro, va ben oltre l’aspetto sportivo o commerciale. Non riguarda cioè soltanto il tifoso che stia già pensando a quale livello parteciperà la propria squadra del cuore o quello interessato a capire se spenderà di più o di meno per vedere le partite in tv o sullo smartphone, fra qualche anno. Questa sentenza – che è già stata giustamente considerata epocale come la sentenza Bosman del 1995 – e in generale tutto il “caso Superlega” sono un esempio emblematico di come funziona l’odierna economia mondiale.
Ma andiamo per gradi. Innanzitutto, la giustificazione giuridica della sentenza risiede nella logica anti-monopolistica, per cui l’organizzazione di competizioni sportive e lo sfruttamento economico della loro trasmissione sui media devono seguire le regole della concorrenza. Non è cioè accettabile il loro monopolio. Il richiamo alla sentenza Bosman è rilevante proprio perché è solo a fine Novecento che gli stati europei si sono dati regole di liberalizzazione anti-monopolistica paragonabili a quelle degli USA, che però risalgono a un secolo prima (Sherman Act del 1890). Ma va chiarito che la definizione di monopolio di questi sistemi legali, ossia “presenza di un solo venditore sul mercato”, per quanto corretta etimologicamente, è estremamente limitata in un momento storico in cui è davvero difficile circoscrivere i “confini” di questi mercati.
Vogliamo dire: di che monopolio da contrastare si sta parlando? Della vendita di un format di gioco? A parte che le regole di gioco saranno sempre quelle di tirar calci a un pallone affinché vada in rete, anche il formato di queste competizioni (magari due gironi all’italiana e poi fase finale di play-off; le ultime retrocedono e lasciano il posto alle migliori della serie inferiore; ecc.) non possono che essere sempre le stesse. Stiamo allora parlando della vendita dei diritti televisivi/internet per la trasmissione delle partite? Ma già adesso, e da molti anni, questi sono assegnati in regime di monopolio o di semi-monopolio per ciascuna piattaforma, proprio per garantire a chi compra i diritti di poterci fare un profitto. E, storicamente, perlomeno in Italia l’esistenza di più di un attore economico per singola piattaforma è stata più un’eccezione che la regola (Tele+ e Stream per poco a fine anni ’90, DAZN oltreché Sky su internet negli ultimissimi anni). Stiamo allora parlando dell’accesso ai luoghi dove le competizioni concretamente avvengono (gli stadi)? Ma anche qui il sistema di vendita è quasi sempre monopolistico, caratterizzato dal più classico caso di divieto di “rivendita sul mercato secondario” (secondary ticketing), ossia il divieto di bagarinaggio… E si potrebbe andare avanti con i mercati monopolistici del merchandising e via dicendo. Insomma, in un sistema-calcio in cui il “monopolio inteso come unico venditore” è sempre la regola, una sentenza rivoluzionaria in nome dell’anti-monopolio fa sorridere. Tra l’altro, nello spot Unify della Superlega si lamenta proprio il costo di doversi abbonare a più piattaforme (due o tre) per vedere tutte le partite; contrapponendovi il loro unico (mono…) luogo virtuale dove vedere tutto.
Se osserviamo meglio, quindi, questa sentenza fa l’esatto opposto di ciò che dichiara: favorisce, invece di contrastare, una nuova forma di monopolio. Si tratta allora di usare una definizione diversa, quella di “capitalismo monopolistico”, sviluppata in ambito marxista, ma anche non marxista, a inizio Novecento: secondo tale approccio, concorrenza e monopolio non sono “forme di mercato” diverse e alternative; bensì l’economia capitalistica è un processo in cui, nel tempo, la concorrenza fra capitali porta al monopolio. “La libera concorrenza è l’elemento essenziale del capitalismo e della produzione mercantile in generale; il monopolio è il diretto contrapposto della libera concorrenza. Ma fu proprio quest’ultima che cominciò, sotto i nostri occhi, a trasformarsi in monopolio, creando la grande produzione, eliminando la piccola industria, sostituendo alle grandi fabbriche altre ancor più grandi e spingendo tanto oltre la concentrazione della produzione e del capitale, che da essa sorgeva e sorge il monopolio” (Lenin, 1917). Una definizione che richiama e sviluppa il concetto di centralizzazione del capitale presentato da Marx, ossia il processo storico di concentrazione del controllo del capitale nelle mani di un sempre più ristretto numero di capitalisti. Per cui “i capitali più grossi sconfiggono perciò quelli minori […] la concorrenza termina sempre con la rovina di molti capitalisti minori, i cui capitali in parte passano nelle mani del vincitore, in parte scompaiono” (Marx, 1894).
Nel nostro caso, allora, la storiella del monopolio da cui difendersi nasconde la necessità di avere un’organizzazione economica – in questo caso del business calcistico – sempre più ampia e unica. Perché le formule attuali, con le piramidi di federazioni nazionali che vanno dalle serie A alle terze categorie, non consentono un’adeguata accumulazione di capitale, ossia non funzionano più per far fare molti profitti. Non solo: l’esistenza di una “dimensione nazionale” delle competizioni è sempre meno essenziale, anzi inutile al profitto che si ottiene invece meglio se si organizzano eventi su scala mondiale. E però, avere queste competizioni mondiali significa avere il loro controllo – che appare come una “complessa macchina organizzativa” ma è invece controllo delle decisioni strategiche su come il gioco debba funzionare e chi ci debba guadagnare. Una centralizzazione delle decisioni nelle mani proprietarie di un’oligarchia globale, transnazionale, come già la proprietà di alcuni top club di calcio mostra.
Nelle fasi di crisi come quella odierna, molto lamentata anche dagli stessi operatori del business calcio (ultimi presidenti italiani di club, prima di tutti), emerge appunto il fenomeno della centralizzazione: c’è meno denaro, devono quindi essere in meno attori economici a spartirselo (la A22 Sports che organizza la Superlega, gli emiri e gli altri proprietari dei top club del calcio europeo/mondiale), di fatto togliendo soldi e capacità competitiva (ahinoi anche sportiva, non solo economica) ai più piccoli. Di solito pesce grande mangia pesce piccolo ma in questo caso i pesci piccoli devono continuare a esistere come sparring partners, per consentire ai grandi di continuare a giocare e vincere. Un po’ come avviene nel caso di tutte le piccole imprese subfornitrici che, rispetto alle grandi imprese industriali, risultano apparentemente indipendenti ma sono economicamente dipendenti dalle decisioni strategiche di chi dà loro la commessa. Questo è, oggi, il vero monopolio: anche se gli attori economici sembrano tanti, quelli che decidono le regole del gioco sono pochissimi; ma le loro decisioni impattano su tutti.
Dobbiamo allora schierarci con l’UEFA e con la FIFA? In realtà, anche queste associazioni sono “grumi di potere”: la loro organizzazione è piramidale, quasi feudale, quindi è pessima; ma finora ha garantito un minimo collegamento con le varie dimensioni nazionali dello sport e con le loro regole “più democratiche”. Nonostante tutte le storture che abbiamo imparato a vedere nei decenni del calcio italiano, ad esempio, tutti i vari livelli sportivi – dai dilettanti ai professionisti – contribuiscono alla formazione di un unico insieme che, almeno in teoria, segue regole condivise. Non bisogna però illudersi: seppure UEFA e FIFA risultassero oggi ancora vincitori – come prima della sentenza del dicembre 2023 – il modello Superlega ha già tracciato la direzione e le confederazioni internazionali potrebbero in futuro prendere decisioni che vadano in quella stessa direzione, ossia di business più profittevole e di minore democraticità sportiva. In cui si sancisce, in maniera più o meno diretta, che la testa della piramide sportiva gioca a un gioco diverso dalla base.
Cosa possiamo allora fare? Potremmo chiedere che alcune regole sportive di base, che ancora valgono a livello dilettantistico/popolare/giovanile, tornino a valere anche ai piani alti. Facciamo un paio di esempi: la contemporaneità dello svolgimento delle partite; l’unicità degli organismi federali, ossia l’abolizione delle leghe. Se ci poniamo in un’ottica sportiva, far svolgere le gare in orari diversi favorisce possibili irregolarità, perché alcune squadre conoscono già il risultato di altre oppure perché giocano con più/meno riposo fra una gara e l’altra. Invece l’esistenza di vari livelli di gestione del potere sportivo (lega serie A, lega serie B, lega dilettanti ecc.) crea nei fatti una distinzione giuridica fra chi sta in alto e chi sta in basso, minando la possibilità che i vantaggi (economici) di chi sta in alto arrivino fino all’ultimo livello, consentendo agli ultimi di crescere e di arrivare a competere – per meriti esclusivamente sportivi – su in vetta. Ovviamente queste proposte sono irrealizzabili nel mondo del “capitalismo monopolistico sportivo” di cui abbiamo parlato, ma suggeriscono una strada: evitare di rassegnarci anche noi a questa distinzione di livelli e riaffermare che ciò che avviene in cima alla piramide, è possibile perché c’è una massa di appassionati alla base. Serve perciò tornare a bilanciare il potere sportivo, a favore di una maggiore rappresentanza delle società che stanno in basso.
In conclusione: in un’epoca di nazionalismi e sovranismi – che appare sempre più come fumo elettorale negli occhi, se vediamo come i nazionalisti e i sovranisti siano quasi quotidianamente costretti ad accettare quelle regole economiche globali che dicevano di voler stravolgere – anche il business calcio mostra emblematicamente quanto solo la dimensione mondiale conti. Così come già avviene in tanti altri ambiti: la farmaceutica delle Big Pharma al momento delle pandemie, l’energia delle Big Oil al momento delle COP, la tecnologia digitale delle Big Tech in ogni ambito delle nostre vite, e così via. Emerge quanto tale controllo mondiale sia strettamente nelle mani di pochi giganti economici che dettano le regole: fosse anche la decisione di scegliere quale club non deve retrocedere mai, per non fargli perdere sponsor; fosse anche la decisione un domani di imporre sempre più interruzioni pubblicitarie al gioco, in nome della visione concessa gratuitamente, come già avviene su molti social network; fosse anche la decisione che la palla diventi, un giorno, un po’ meno rotonda. Per noi, invece, rotonda deve rimanere!