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CHE SUCCEDERÀ ADESSO? UN’ANALISI DELLA SITUAZIONE IN PALESTINA E COSA DOBBIAMO FARE NOI

La domanda che ci facciamo tutti, o che ci dovremmo fare, quando smettiamo di farci gli occhi rossi davanti ai video che arrivano dalla Palestina è: che succederà adesso? Se siamo sinceri, possiamo ammettere che non ne abbiamo troppo idea. D’altronde non sembrano averla nemmeno gli attori in campo, che infatti, com’è evidente, sono sorpresi dagli effetti delle loro azioni, esitano e vanno a tentativi.  Abbiamo la consapevolezza di trovarci nel bel mezzo di una “frattura” storica, causata dalla modifica degli assetti tradizionali dell’imperialismo che abbiamo conosciuto sin’ora, non solo in medioriente, ma a livello globale. Ecco perchè abbiamo bisogno di capire a fondo cosa sta succedendo, e cosa potrebbe succedere, per provare a intervenire e non assistere passivamente a un genocidio e perchè gli effetti di ciò che si muove in queste ore ci riguardano direttamente.

Nelle prossime righe vogliamo provare a restituire un quadro della situazione che non si trova spesso sui media, una lettura delle dinamiche sociali e politiche in Palestina, e qualche indicazione su cosa possiamo fare noi e come bisogna muoversi a livello internazionale per far avanzare la causa dell’umanità in questi tempi di barbarie.

1. Capire l’eccezionalità del momento

Siamo davanti a uno di quei momenti in cui la Storia si fa. Questo è il primo punto che dobbiamo fissare. Anche se a molti può sembrare che a scorrere sia sempre lo stesso sangue, questa non è una situazione già vista, qualcosa che può essere gestito con gli strumenti tradizionali. Non c’è esito predefinito, siamo come su un crinale: il precipitare degli eventi può portare in direzioni opposte. A una sostanziale sconfitta della resistenza palestinese con annessa pulizia etnica di Gaza, o al collasso di Israele per come l’abbiamo conosciuta. Per non parlare dell’ipotesi catastrofica di un conflitto regionale che potrebbe avere implicazioni mondiali. Ma anche al concretizzarsi, dopo 30 anni buttati, della soluzione “due popoli due stati”…

Checché se ne pensi di Hamas, il dato è che la sua strage, che ha provocato 1.400 morti fra gli israeliani, fra cui almeno 700 civili – una cifra incredibile, considerato che, in 15 anni di conflitto, tra il gennaio 2008 e il 6 ottobre 2023 erano stati uccisi 308 civili israeliani –, e che ha portato al rapimento di oltre 150 ostaggi, anche questo un dato senza precedenti, ha aperto uno spazio di “indeterminazione” proprio quando si pensava che la vicenda palestinese fosse destinata a spegnersi fra normalizzazione internazionale (gli “accordi di Abramo” che Israele stringeva con vari paesi arabi), progressiva colonizzazione dei territori palestinesi, silenzio mediatico e sostanziale disinteresse dell’opinione pubblica mondiale.

Checché se ne pensi di Hamas – e da comunisti, atei, femministi e anti-autoritari ne pensiamo tutto il male possibile, non ci sarebbe nemmeno bisogno di precisarlo se non vivessimo in un regime mediatico in malafede – non possiamo ritenerli, come i nostri politici e media fanno ogni volta che si relazionano con qualcosa che non è l’Occidente e i suoi alleati, “pazzi”, soggetti che agiscono mossi da soli impulsi primitivi e irrazionali.

Hamas, come la BBC ha avuto il coraggio di riconoscere, è un agente politico, che ha colpito per ragioni politiche: interpretare un desiderio di riscossa delle masse palestinesi e mettersi alla guida della Resistenza abbandonata dall’ANP, impedire la normalizzazione fra Israele e i paesi arabi sulla pelle dei palestinesi (cosa peraltro al momento riuscita con l’Arabia Saudita, il player più importante dell’area), fare proselitismo e mostrare ai suoi alleati internazionali che la spesa è stata ben investita. Hamas ha approfittato di un momento di difficoltà di Israele, divisa da forti manifestazioni e spaccata dentro i suoi apparati, e si è inserita in una situazione complessa a livello internazionale, con la crisi dell’egemonia USA – che si è manifestata con il ritiro dall’Afghanistan, con l’impantanarsi della guerra in Ucraina, con l’emergere di nuovi paesi sullo scenario mondiale –, per aumentare la confusione e produrre riconfigurazioni insperate a favore della sua visione del mondo. Ha preparato a lungo questo colpo, anche se per sua stessa ammissione – e su questo gli si può credere – non se ne aspettava un tale successo, e si è presumibilmente preparata ad affrontare una reazione non convenzionale.

Che è esattamente quanto Israele sta facendo. I bombardamenti sulla Striscia non sono mai stati così forti e spietati. Abbiamo tutti ancora negli occhi le immagini della strage avvenuta ieri nell’ospedale battista di Gaza, raso al suolo da un attacco aereo israeliano; lo stesso governo di Tel Aviv ammette di aver lanciato più di 1.000 bombe al giorno su 365 km² (per fare un confronto, la coalizione internazionale anti-Isis ne sganciava circa 80 al giorno su 46.000 km²), causando distruzioni equivalenti a quelle prodotte da un quarto di una bomba nucleare secondo Euro-Med Human Rights Monitor. Ci sono 3.731 edifici distrutti e 10.000 danneggiati, non solo alloggi ma anche sedi amministrative, fabbriche, negozi. 18 scuole sono inagibili e altre 150 hanno subito danni, 22 ospedali e centri sanitari sono stati danneggiati. Israele ha usato il fosforo bianco proibito dalle convenzioni internazionali, ha circondato la Striscia con un assedio, anche questo vietato dalle convenzioni, ha tagliato acqua, elettricità, benzina, internet.

Conseguenza di queste misure “terroristiche” è che al momento ci sono 3.478 palestinesi uccisi dai raid, fra cui 1.030 minori, 12 mila feriti, di cui il 64% sono donne e bambini, e altri 1.200 dispersi sotto le macerie. Dal 7 ottobre Israele ha ucciso un palestinese ogni cinque minuti, fra cui giornalisti, personale ONU, personale sanitario…

Insomma, quello che sta succedendo da dieci giorni, a detta degli stessi attori, segna un punto di non ritorno. Ma per andare dove?

2. La linea dominante in Israele e le sue impasse

Non crediamo che Israele ne abbia per davvero idea. Bisogna capire cos’è oggi Israele. Un paese socialmente diviso, dove sono aumentate le disuguaglianze economiche e le ostilità fra un’élite che beneficia di uno sviluppo, soprattutto dei settori tecnologici e ad alto valore aggiunto, e una maggioranza lavoratrice che non ce la fa e che matura una forte rabbia. Negli ultimi 12 anni in Israele ci sono state ondate di protesta fortissime, senza precedenti, contro il caro-vita, contro la corruzione della classe politica, contro lo stesso Netanyahu.

Inoltre, Israele è un paese composto per il 73% da ebrei divisi tra aschenaziti, mizrahì e altri sottogruppi come gli ebrei etiopi (anch’essi mobilitati in questi anni contro il razzismo e gli attacchi che hanno subito le loro comunità). C’è un corposo 21% di “palestinesi israeliani”, mai per davvero integrati, e un altro 5% di immigrati di varie nazionalità recentemente arrivati da Africa e Asia, cittadini anch’essi di serie B. Culture e provenienze molto diverse, tenute insieme non da un “sogno” o da elementi caratterizzanti (“socialismo” dei kibbutz, economia dinamica, cultura cosmopolita, “democrazia” e diritti civili), come si è a lungo rappresentata Israele non senza efficacia interna ed esterna, ma sempre più da una religione violenta (con l’aumento degli ultraortodossi, fenomeno nuovo per una società tendenzialmente laica) e soprattutto dall’odio verso l’Altro. In particolare quest’ultimo è l’unico vero collante di una fra le società più frammentate al mondo.

Una società rappresentata politicamente da diverse varianti di destra, alcune per la prima volta dichiaratamente fasciste, mentre tutti i partiti di sinistra, sommando anche quelli più moderati, non arrivano al 10%, e l’astensionismo e l’individualismo sono altissimi. Una società che ha a capo un premier vecchio, accusato di frode e abuso di potere e una classe politica che continua a risolvere le contraddizioni interne “esportandole” con aggressività verso l’esterno. La stessa vicenda dei coloni lo testimonia: questi negli ultimi anni hanno visto peggiorare le loro condizioni di vita e si sono rivolti elettoralmente alla destra per ricevere protezione, altri sono stati espulsi dalle città dall’aumento degli affitti e del costo della vita, e incentivati dal Governo a recarsi nei territori palestinesi, in Cisgiordania, dove ricevono sconti fiscali e licenze per armarsi e strappare terre ai palestinesi. Le colonie sono diventate così una sorta di “edilizia popolare” e di misura di contenimento sociale fatta pagare ai palestinesi.

Cosa può immaginare una società e una classe politica del genere per risolvere questa situazione?

Il Governo Netanyahu in questo momento ragiona sull’entrare nella Striscia, attuando “blitz” che puntino al recupero degli ostaggi e ai leader di Hamas, tenendo occupata una porzione al Nord, costruendo magari nuovi campi profughi a Sud o addirittura in Egitto. In questo modo potrebbe “svuotare” la Striscia e annettersene una parte – il che configurerebbe di fatto una seconda Nakba. Tutto questo nella convinzione che le portaerei americane e l’invio di 2.000 marines – anche queste misure senza precedenti – inibiscano Hezbollah e Iran, peraltro attanagliati da problemi di politica interna, dall’intervenire, e che i palestinesi di Cisgiordania e interni a Israele siano ormai rassegnati, cooptati, in parte integrati etc. (d’altra parte uno dei motivi per cui l’ANP, al di là della sua corruzione, della sua dipendenza dall’esterno, e dal suo svuotamento ideologico si comporta così è anche per la presenza, in Israele e Cisgiordania, di una borghesia palestinese “compradora” che fa affari con gli israeliani e che non è certo interessata a nuove Intifade).

Questo scenario, che comporterebbe comunque migliaia di morti palestinesi, la perdita degli ostaggi e un’oppressione inimmaginabile, certo segnerebbe un “successo” per i falchi di Israele. Ma alcune domande sono d’obbligo. Innanzitutto, quanto è fattibile? Israele era dovuta andare via dalla Striscia nel 2005 proprio perché non poteva più gestirla. Pensa di riuscirci ora? Spera che lo faccia l’ANP con le sue modalità collaborazioniste, o qualche altro consesso internazionale “moderato”, come la Lega Araba? E come potrebbe non riemergere dalle sue ceneri Hamas, che certo non ha tutti i suoi centri dirigenti intrappolati lì e gode di sostegni internazionali?

Inoltre: se Israele entra nella Striscia davvero nulla si muove? Hezbollah non attaccherebbe da nord per tenere impegnate le forze israeliane? I palestinesi di Israele e della Cisgiordania non reagirebbero al massacro di Gaza? Non ne sono già morti a decine, in questi giorni, nel silenzio internazionale, per le proteste contro i bombardamenti? E i campi profughi palestinesi in Libano, Siria, Giordania? E l’Iran non si è forse spinta ormai troppo in là, minacciando conseguenze? O Israele pensa di poter chiudere, con l’aiuto degli USA, anche quella partita (l’omicidio a Theran di uno dei capi delle Guardie della Rivoluzione fa davvero pensare che non tema questo coinvolgimento…)? E i paesi arabi che hanno incontrato gli USA chiarendo che sono contrari, lascerebbero fare questa carneficina senza minacciare ritorsioni almeno di carattere economico su gas, petrolio? E una ripresa del terrorismo a livello internazionale, “giustificata” emotivamente e ideologicamente dal massacro non è un problema anche per gli europei?

Infine: quanti soldati morti può reggere la società israeliana? Perché è chiaro a tutti che entrare a Gaza è un bel rischio. Difficile uscirne con poche perdite. Una cosa è averle subite per un attacco sul tuo territorio, altra cosa è aver scelto di mandare i tuoi ragazzi al massacro. È da segnalare che già l’altro ieri, nel silenzio dei media occidentali (ma non degli israeliani), i parenti e gli amici degli ostaggi hanno improvvisato una manifestazione contro Netanyahu, per chiedere di fermare i bombardamenti e trattare… Anche questo è un evento senza precedenti. Quante manifestazioni così, difficilmente reprimibili, ci potrebbero essere se la cosa andasse per le lunghe?

Le esitazioni e i rinvii di Israele nel procedere via terra indicano che almeno queste domande una parte della società israeliana se le pone e il governo ne deve tenere in conto. E se le pone anche una parte del mondo ebraico a livello mondiale, come testimonia la significativa protesta di 200 ebrei davanti alla Casa Bianca, determinati a ottenere un cessate il fuoco.

Quando si parla di “collasso di Israele” per come l’abbiamo conosciuta, l’ipotesi non è la più probabile, ma non è più così assurda. Un combinato di fattori (perdite militari, crisi economica, pressioni internazionali di paesi e società civili, difficoltà degli alleati occidentali), potrebbe quantomeno indurre il governo Netanyahu a cadere, e la necessità di una profonda ridefinizione degli assetti.

Ci sono forze in Israele che si stanno preparando per questo scenario? Avrebbero l’autorità per ritirare 700.000 coloni dai territori occupati, per dare seguito agli Accordi di Oslo e alle risoluzioni ONU, alla nascita di un vero Stato Palestinese, non fatto di bantustan, ma con una sua continuità territoriale e una sostanziale indipendenza? Al momento non se ne vedono, l’ala più efferata ha la meglio anche se, a parte bombardare a tappeto, non può strutturalmente avere un progetto credibile per il medio e lungo periodo.

3. Gli altri attori e le loro impasse

Ma se Israele non ha questa immaginazione, chi ce l’ha? Hamas decisamente no. Ha certo una tattica, ma la sua strategia è tesa a rendere impossibile una convivenza, sia con Israele o con la popolazione ebraica, sia con le altre forze politiche palestinesi: la sua aspirazione è a controllare tutta la società e restaurare un ordine di tipo tradizionale. C’è una certa “complicità” fra la destra israeliana e Hamas, non solo negli accordi taciti per una “gestione” della Striscia, ma nell’impianto complessivo: ognuno ha bisogno dell’altro per tenere in piedi il conflitto e la legittimazione. D’altronde Hamas compare tardi nella Resistenza del popolo palestinese, a fine anni ’80, e viene giocata da Israele e dall’Occidente in funzione anti forze laiche, di sinistra, comuniste, che trovavano più facilmente sponda sia in Israele che all’estero. Il nemico “mostruoso” è meglio del nemico presentabile.

Similmente, questa immaginazione è impossibile trovarla nell’ANP, un carrozzone corrotto, vuoto, vecchio, incapace di interpretare le esigenze di resistenza e di sviluppo della società palestinese. Una struttura politica silente anche in questi giorni, che non ha legittimazione elettorale, che è rappresentata da un presidente di 87 anni senza più alcuna credibilità.

D’altra parte, uscendo dalla Palestina, chi ha coraggio, inventiva, mezzi, non solo per proporre, ma per realizzare? Stendiamo un velo pietoso sull’ONU, apparato testimoniale, impotente e anche moralmente ambiguo, che non è nemmeno in grado di fare quello che giustamente fa il Papa: implorare un “cessate il fuoco”. In quel consesso solo Petro, presidente della Colombia, si è davvero distinto per visione e capacità di indicare una strada concreta, chiamando all’unità latino-americana (grazie anche a Venezuela e Cuba) e minacciando di interrompere le relazioni con Israele, cosa che, se fosse ripetuta anche da altri paesi, impatterebbe effettivamente su Israele.

Quanto agli USA e l’UE, lo vediamo: probabilmente ci sono apparati che pensano che, in questo momento in cui si deve fare la guerra alla Russia e alla Cina, il conflitto israelo-palestinese sia una gran seccatura perché complica il quadro e crea contraddizioni con i paesi arabi, che contemporaneamente intrattengono relazioni con Russia e Cina, più vicini a loro su questa questione. E tuttavia gli israeliani sono “i nostri”, non possiamo mollarli. Sono i nostri perché, com’è evidente dai morti, molti israeliani hanno un doppio passaporto, molta della politica europea è influenzata dai gruppi sionisti, c’è una costruzione del discorso, a partire dalla tragedia dell’Olocausto, che ancora i nostri destini. Ma, al di là degli aspetti simbolici, Israele è sempre stato un avamposto nel mondo arabo: ci serve. Anche le nostre economie, le nostre università e centri di ricerca, sono connessi. Perciò la cornice retorica, la propaganda, in Occidente è a senso unico. Ma questo rende impossibile a molti paesi dell’Unione Europea – che comunque sono già, dentro la NATO a guida USA, privi di indipendenza non solo strategica, ma persino tattica –, di potere effettivamente porsi come mediatori e promuovere una soluzione. Per quanto ne avrebbero tutto l’interesse sul medio periodo.

Non c’è da nutrire grande fiducia nemmeno nei paesi arabi, sebbene le dichiarazioni della Lega Araba, come dell’Unione Africana, siano ben più sensate di quelle occidentali. Alcuni di questi paesi hanno dimostrato di essere pronti a barattare cinicamente il destino del popolo palestinese per una normalizzazione con Israele, altri sono da sempre legati agli USA. Se avessero voluto mettere pressione per uno Stato Palestinese, ci saremmo arrivati già decenni fa. E tuttavia, sotto la spinta dei loro popoli, in questi giorni mobilitati per la Palestina, sono costretti a schierarsi più duramente e avrebbero il potere politico di evitare un massacro a Gaza.

Anche le minacce di Hezbollah e dell’Iran (paese peraltro non arabo, va ricordato) contano, ma bisogna vedere quanto siano realistica, e soprattutto tenere presente l’impostazione religiosa e tradizionalista dei soggetti. Come ci ricorda la mobilitazione delle donne e di tanti settori della società iraniana, non necessariamente quel modello di capitalismo autoritario configura un effettivo avanzamento per le masse arabe, anzi.

Lo scettro dell’ipocrisia spetta poi alla Turchia di Erdogan, paese membro della NATO, che quotidianamente massacra i curdi e occupa il loro territorio, e in politica interna spinge verso un ritorno al tradizionalismo, con l’utilizzo di gruppi fascisti e la blindatura totale del dibattito pubblico esattamente come Netanyahu in Israele, ma poi pretende di porsi come “protettore” dei palestinesi per aumentare la sua influenza nell’area e competere con altri player. Quella Turchia che più volte si è accordata con Israele proprio sulle spalle di palestinesi e siriani…

Infine, fra gli attori da tenere in conto ci sono anche la Russia e la Cina, con tutte le differenze del caso: la loro azione in quel teatro potrebbe essere effettivamente di mediazione, visti gli stretti legami diplomatici, commerciali, economici con tutti i paesi della regione – soprattutto la Cina è primo paese esportatore, ma in alcuni casi anche primo importatore di risorse energetiche –, ma non è probabile che gli USA gli vogliano regalare questo ruolo e evidenziare la crisi della loro egemonia… Inoltre Russia e Cina non hanno né la forza, alle prese con le loro questioni e un ciclo economico faticoso, né la voglia, se si pensa a come la Cina lavora sempre per quella stabilizzazione utile ai suoi traffici, di intervenire per davvero nel teatro mediorientale.

Insomma, tutti i soggetti in campo hanno certo dei margini anche importanti di azione, ma sono avviluppati da contraddizioni che li bloccano e certo nessuno è interessato a operare in modo disinteressato o rimettendoci in proprio. Che le loro minacce siano solo un modo per alzare la posta per poi trattare, che è la cosa più probabile, magari la “spartizione” della Striscia, o che questa retorica finisca per vincolarli e prepari quindi, magari non oggi, ma nell’arco di 5 o 10 anni, un vero conflitto regionale, sta di fatto che questi attori non consentono avanzamenti per la vita delle popolazioni dell’area.

4. Chi sono i nostri e cosa possiamo fare noi?

In realtà, gli unici soggetti che hanno l’inventiva per aprire una nuova sequenza siamo noi, intesi come popoli e classi oppresse del mondo, destinate a subire questa situazione e per questo interessati a cambiarla. Perché la subiremo tutti? Perché pagheremo di tasca nostra l’aumento delle materie prime, delle crisi energetiche, delle crisi economiche. Perché le nostre società, anche quelle europee, diventeranno meno democratiche e più oppressive. Perché saremo arruolati in guerre distruttive, in cui i primi a morire e perdere tutto saremo noi. Perché, anche se resteremo tranquilli in Europa, nulla impedirà a qualche disperato fanatico che vede nel sacrificio personale una vendetta contro le società occidentali complici di venirci a uccidere.

Quindi dobbiamo interessarci a questa situazione. Nessuno ci verrà a salvare, questo è un altro punto che dobbiamo capire a fondo. È chiaro che solo noi come proletari abbiamo l’interesse a sradicare il mostro che partorisce di continuo questi fenomeni. Un mostro che, prima che nazionalista e religioso, è economico e politico, perché anche in questo conflitto quello che si nasconde ma è centrale è il controllo delle risorse, la produzione di profitto, delle varie borghesie dell’area, e soprattutto di quella che agisce in combutta con l’Occidente, il complesso industriale-militare israeliano.

Chi sono i nostri, allora? Innanzitutto il popolo palestinese, che ha dimostrato nella storia di avere l’immaginazione e la forza per costruire un futuro diverso. Infatti, nonostante i media battano insistentemente su Hamas, in Palestina ci sono forze politiche laiche, democratiche e socialiste – da pezzi di Al-Fatah come Marwan Barghouthi (“il Mandela palestinese”, non a caso da anni imprigionato da Israele), a Iniziativa di Mustafa Barghouti, al Partito Popolare palestinese fino al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Forze che, anche a causa di Israele, oltre che dell’ANP e di Hamas, non riescono a esprimersi, ma che rappresentano una vera alternativa. Per non parlare di una galassia di associazioni, di componenti giovanili, di sindacati palestinesi che coraggiosamente in questi giorni si stanno mobilitando, anche rilanciando, di fronte all’impossibilità di uno stato palestinese, l’idea di uno stato unico di Palestina, sul modello Sudafrica, con ebrei e palestinesi che vivono insieme con gli stessi diritti, stato laico con libertà di culto etc.. Una proposta che è anche quella di gruppi politici palestinesi-israeliani, di alcuni gruppi di sinistra in Israele e della rete internazionale degli ebrei l’occupazione. Gruppi molto minoritari, certo, ma che vanno appoggiati perché sono comunque un problema interno per Netanyahu, e potrebbero trovare consensi una volta che la mancanza di soluzioni dei grandi attori si dovesse palesare.

Sono questi settori ad avere una vera immaginazione politica ed è a questi pezzi a cui dobbiamo dare il nostro sostegno. In secondo luogo, bisogna guardare alle masse arabe, che già da parecchio sono in movimento e sono state in grado di abbattere regimi e di far sentire la loro voce come non mai. Con loro va assolutamente costruito e rinforzato un rapporto politico.

Ieri sera, di fronte alla strage avvenuta a causa del bombardamento di un ospedale di Gaza, migliaia di palestinesi sono scesi in piazza nei territori occupati, scontrandosi duramente con la polizia dell’Anp. Centinaia di migliaia di persone si sono radunate spontaneamente in moltissimi paesi arabi, in Tunisia, Libano, Giordania, Turchia, concentrandosi di fronte alle ambasciate israeliane o alle ambasciate dei paesi europei che stanno sostenendo in silenzio il massacro dei gazawi.

Ma anche noi qui, nel ventre della bestia, possiamo fare tanto. Qualcosa è stato già fatto. Si guardi alle straordinarie manifestazioni di questi giorni in tutta Europa. Si guardi alla controinformazione che fa sì che milioni di persone non credano più ai loro governi. Si guardi alla presa di parola di pezzi della sinistra europea – Podemos, France Insoumise, il PTB belga, una galassia di reti e comitati etc – che hanno dimostrato, contro la censura, che altre visioni e soluzioni esistono.

Cosa possiamo fare noi, per evitare che dall’indeterminazione del momento si passi allo scenario più catastrofico?

  1. Fare girare informazione corretta, le immagini dalla Palestina che i nostri media non mostrano, costruire identificazione anche con la parte palestinese, presentata dai nostri media come “Altro” e “nemico”, fare conoscere la presenza dei diversi gruppi di sinistra presenti nella società palestinese e israeliana, mettere l’accento sempre sull’elemento dell’occupazione, del genocidio in corso e dell’apartheid israeliana che inizia nel 1948 e si sviluppa sistematicamente. Dobbiamo bucare la censura mediatica e il muro di silenzio costruito intorno alle rivendicazioni di chi chiede libertà e vita per il popolo palesinese, rigettando al mittente e senza paura l’assurda accusa di antisemitismo o di essere a favore dell’isis che ci viene sistematicamente mossa;
  2. Fare pressione sul nostro Governo, sulle istituzioni internazionali, sulle strutture di potere USA in Italia per impedire che Israele entri nella Striscia e acuisca il massacro, chiedere un cessate il fuoco e un negoziato vero che ponga al centro l’esistenza e l’autodeterminazione del popolo palestinese. Si può fare con le mobilitazioni di piazza, con i social, con il mail bombing, con le campagne di Boicottaggio, Disinvestimento e sanzioni. Dobbiamo contrastare senza mezzi termini il servilismo e l’ipocrisia della nostra classe politica, in tutte le sue sfaccettature, comprese quelle sedicenti di sinistra: non accettiamo odiosi doppi standard razzisti riguardo alla tutela della vita delle persone, non accettiamo che non si riconosca il diritto di esistere e autodeterminarsi del popolo palestinese, e che nessuno osi mettere in discussione le relazioni diplomatiche, militari, economiche con il governo israeliano;
  3. Se Israele dovesse entrare nella Striscia, scendere in piazza, occupare scuole e università, spingere per uno sciopero generale, per segnalare in tutti i modi la nostra contrarietà a quello che si configura sempre più come un genocidio;
  4. Non smettere di sostenere i progetti di ricostruzione della Palestina e di cooperazione internazionalista (non quella occidentalizzante!), organizzata dai gruppi laici e democratici del territorio;
  5. Organizzarsi sempre meglio: non si possono combattere forze così strutturate, censura mediatica, algoritmi social indirizzati a far scomparire posizioni diverse, se non si cresce a livello organizzativo: sia con coordinamenti stabili fra forze politiche e movimenti, sia dando forza, aderendo, sostenendo economicamente partiti politici che su questo punto hanno una linea chiara.

Non sappiamo stavolta come andrà finire, ma sappiamo che a volte è vero che “lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”. Cerchiamo in queste ore di crescere e di fiorire ovunque, per arrivare alla giustizia, senza cui non ci può essere pace.

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