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ALLA RADICE DELLA POLITICA FILO-ISRAELIANA DIVENTATA SENSO COMUNE IN GERMANIA

Le immagini hanno fatto il giro del mondo (o quasi, perché in Italia, ovviamente, i giornali mainstream non le hanno affatto riportate): venerdì 12 aprile a Berlino doveva iniziare la Conferenza Palestina 2024, iniziativa costruita da diverse associazioni palestinesi, organizzazioni ebraiche antisioniste e gruppi politici della sinistra radicale tedesca per accusare la complicità dello Stato tedesco nel genocidio di Israele contro il popolo palestinese e sviluppare delle soluzioni politiche per cui “ebrei, musulmani e cristiani possano vivere pacificamente dal fiume fino al mare con gli stessi diritti e le stesse libertà” e per cui “mai più” (genocidio) significa “mai più per tutti”.

Già nelle settimane precedenti alla conferenza le autorità tedesche avevano annunciato di controllare con particolare attenzione che questa iniziativa non diventasse un megafono di “antisemitismo e incitazione all’odio”. Una precauzione incomprensibile visto che gli organizzatori si sono sempre definiti antirazzisti e hanno condannato da sempre ogni forma di antisemitismo. Diverse iniziative di avvicinamento e autofinanziamento erano poi state impedite con la scusa che “non era garantita la sicurezza” (di chi, non si capisce). La repressione ha colpito in particolare gli ebrei antisionisti, prima con il blocco del conto corrente dell’associazione Jüdische Stimme für gerechten Frieden in Nahost (Voce ebraica per una pace giusta in Medio Oriente), una delle associazioni promotrici della conferenza, poi, al congresso stesso, con l’arresto di uno dei loro rappresentati più riconosciuti.

Il giorno dell’inizio della conferenza si è capito subito che non sarebbe durata a lungo: oltre 2.500 poliziotti mobilitati da diverse regioni del Paese distribuiti in città, 50 poliziotti dispiegati all’interno della sala di conferenza, accompagnati da alcuni agenti dei servizi segreti tedeschi (sic!), controllavano che venissero rispettate le “regole di condotta” imposte agli organizzatori. Dopo neanche un’ora gli agenti di polizia hanno interrotto il video messaggio di Salman Abu Sitta, attivista per la pace palestinese e padre di Ghassan Abu Sitta, famoso chirurgo plastico e ricostruttivo eletto rettore dell’Università di Glasgow il 24 marzo 2024. Proprio quest’ultimo doveva partecipare fisicamente alla conferenza, ma in mattinata era stato fermato all’aeroporto di Berlino e rispedito in Scozia con un Betätigungsverbot, cioè un divieto di ogni forma di attivismo politico in territorio tedesco. Una tale divieto era stato imposto anche a Yanis Varoufakis il giorno prima.

In seguito all’interruzione della conferenza, gli agenti di polizia hanno sequestrato i microfoni e spento la corrente per impedire la continuazione dello streaming online. Dopo circa un’ora di trattative tra organizzatori e forze dell’ordine e in totale assenza di una spiegazione del perché di questa interruzione, la conferenza è stata proibita definitivamente e i partecipanti sono stati invitati a lasciare la sale. In caso non fossero stati rispettati gli annunci, la polizia ha minacciato di intervenire con misure coercitive.

Le particolari relazioni tra Germania e Israele

Questa breve ricostruzione degli eventi è necessaria per comprendere il livello di assurdità di quello che è successo a Berlino il 12 aprile 2024. Ma per capire le ragioni profonde di questo comportamento delle autorità pubbliche nei confronti della solidarietà alla causa palestinese bisogna andare indietro nel tempo e sciogliere i nodi della “colpa storica” della Germania nei confronti degli ebrei. Spesso tendiamo a dire che nessun altro Paese è stato capace di fare i conti con la propria storia come lo è stata la Germania. Come prove vengono fornite le numerose dichiarazioni dei politici tedeschi dell’intero arco politico: “la sicurezza di Israele è ragione di stato tedesca” (Angela Merkel, CDU), “proteggendo Israele, proteggiamo noi stessi dai demoni del passato del nostro stesso popolo” (Martin Schulz, SPD), “il diritto all’esistenza di Israele è anche il nostro” (Katrin Göring-Eckardt, i verdi), la fondazione di istituzioni culturali come per esempio il Museo ebraico di Berlino nel 2001 o le enormi spese pubbliche nelle attività contro l’antisemitismo (lo Stato tedesco supporta con 22 milioni di Euro all’anno il Consiglio centrale degli ebrei e con 12 milioni la ricerca contro l’antisemitismo; a queste spese si aggiungono altri finanziamenti per campagne politiche e di sensibilizzazione, prevenzione nelle scuole etc.). Ma proprio la questione palestinese svela le profonde contraddizioni della politica filo-israeliana della Germania.

Tutto inizia già molto presto, all’indomani della fondazione della Repubblica federale di Germania nel 1949 con la cosiddetta “politica di riparazione” che la BRD aveva sviluppato nei confronti del “popolo ebreo”; una “riparazione” che però corrispondeva, in realtà, più alla “costruzione dello Stato di Israele” e dietro la quale si nascondevano interessi materiali e politici e non morali e ideologici. Infatti, sin dai primi anni ’50 le relazioni tra i due stati in sostanza rappresentavano un’operazione di scambio in cui la Repubblica Federale riceveva l’assoluzione dalle atrocità commesse contro il popolo ebreo con l’Olocausto, e Israele tutto ciò di cui aveva bisogno per costruire uno Stato in un contesto ostile: beni economici, aiuti finanziari e soprattutto armi. L’accordo di Lussemburgo firmato nel novembre del 1952 tra Adenauer e Ben Gurion rappresenta la formalizzazione di questa operazione di scambio.

L’obiettivo principale della Repubblica Federale era quello di rientrare al più presto nella cerchia delle nazioni “civilizzate”. La sua “politica di riparazione” nei confronti di Israele faceva parte della politica estera volta a ripristinare la sua sovranità e il margine di manovra a livello internazionale inserendosi saldamente nel campo politico dell’Occidente. In altre parole, la BRD post-bellica per ritornare a far parte delle grandi nazioni mondiali doveva dimostrare che c’era stata una netta cesura tra la Germania nazista e il nuovo Stato federale. Quale opportunità migliore di dimostrare questa svolta fondamentale se non con il supporto incondizionato allo Stato ebraico di Israele?

Questa “riabilitazione” tedesca che utilizza Israele per i propri scopi politici permette quindi all’intero Paese di non doversi confrontare con i reali problemi della Germania post-nazista, come per esempio la mancata denazificazione delle istituzioni statali e l’antisemitismo ancora fortemente diffuso tra il popolo tedesco. Inoltre, deviare l’attenzione verso il nascente Stato di Israele permetteva di non dover rispondere ai bisogni dei circa 300.000 ebrei che, dopo la guerra, erano rimasti in Germania e che soffrivano ancora dei traumi del passato. Concentrarsi su Israele – uno Stato geograficamente lontano – era un modo per non dover fare veramente i conti con la propria storia ancora “presente” sul proprio territorio.

Dagli anni ’50 fino agli anni ’90 quindi la politica israeliana della Germania aveva soprattutto una funzionalità (geo)politica ed economica; ma questa politica era allo stesso tempo capace di produrre una sovrastruttura ideologica secondo cui gli interessi degli ebrei coincidevano con quelli dello Stato di Israele e secondo cui la Germania doveva aderire incondizionatamente alle sue politiche per scaricarsi delle colpe storiche dello sterminio di 6 milioni di ebrei.

Dietro questa ideologia chiamata “cultura della memoria” (Erinnerungskultur) si trova un antisemitismo ancora fortemente diffuso sia nelle istituzioni che nell’intera società tedesca; ne sono una prova i numerosi reati antisemiti commessi ogni anno, di cui la stragrande maggioranza (80%) attribuibile, secondo le statistiche ufficiali, alle organizzazioni di destra ed estrema destra. Inoltre, questa presunta “cultura della memoria” sembra fermarsi di fronte a un’altra forma di razzismo molto diffuso in Europa, cioè l’islamofobia. Infatti, anche i reati contro le comunità e le persone musulmane sono fortemente aumentati in Germania, senza che le istituzioni avessero reagito con finanziamenti e campagne specifiche. Anzi, dopo il 7 ottobre 2023 alcune istituzioni musulmane sono state perfino criminalizzate con l’accusa, mai provata, di supporto al terrorismo.

Si può quindi affermare che, quando le istituzioni tedesche e i loro politici parlano di Israele (e, inevitabilmente, anche di Palestina), parlano di se stessi, della loro identità bianca, tedesca, considerata superiore e che facendo ciò tentano deliberatamente di nascondere la loro storia e la loro attualità spiacevoli e incriminanti. In altre parole: difendendo le politiche di Israele la Germania commette è un atto di whitewashing.

Una ragione di stato diventata senso comune

Non sorprende quindi che ogni contestazione alle politiche coloniali e di apartheid di Israele vengano represse e criminalizzate in Germania; in gioco è l’identità stessa dell’intero Stato tedesco. Ed è per questo che negli anni questa politica filo-israeliana si è trasformata in una vera e propria “ragione di stato” portata avanti e difesa da tutti i governi tedeschi, indipendentemente dal colore politico, e in un “senso comune”. Ma lo sviluppo più preoccupante lo si può costatare nella sua diffusione nella sinistra istituzionale e extraparlamentare.

Storicamente la cosiddetta sinistra filo-israeliana nasce con la riunificazione della Germania negli anni 1989/90. Il movimento antifascista, che si è sempre caratterizzato per una forte condanna all’antisemitismo, vede nella riunificazione della Germania la realizzazione di quel progetto di potenza mondiale a cui la Repubblica Federale ambiva, una sorta di replica della “Grande Germania” nazionalsocialista. “Nie wieder Deutschland” (mai più Germania) infatti diventa la parola d’ordine del movimento anti-nazionale e antifascista. Per caratterizzare la sua lotta contro il ritorno della Germania tra le grandi nazioni imperialiste, il movimento si deve differenziare da uno degli elementi strutturanti della Grande Germania: l’antisemitismo. Il suo anti-antisemitismo e la critica radicale della nazione tedesca però producono paradossalmente un “Ersatz-Nationalismus”, cioè un nazionalismo sostituto che si identifica con la nazione che per il movimento più di tutte rappresenta la lotta contro l’antisemitismo: Israele.

La distorsione della realtà non si ferma qui. Questa sinistra antifascista diventata sionista identifica proprio nelle comunità musulmane e nel movimento di solidarietà con la Palestina i maggiori nemici da combattere. E con chi si allea in questa presunta lotta contro l’antisemitismo? Con chi, ancora oggi, è la voce istituzionale che difende Israele: lo Stato tedesco. Cioè quella Germania volta a diventare potenza mondiale la cui critica stava proprio alla base della svolta anti-deutsch del movimento antifascista.

Di conseguenza, negli ultimi 30 anni la divisione del movimento antifascista tedesco in una parte anti-deutsch e in una parte antimperialista si è accentuata. Dopo il 7 ottobre il divario è cresciuto ancora una volta, ne sono una prova le manifestazioni degli ultimi mesi. L’8 marzo per esempio, i cortei femministi erano due: uno che definisce l’occupazione israeliana della Palestina la causa per l’oppressione delle donne e porta in piazza una critica del femminismo imperialista; l’altro invece che identifica nella presunta islamizzazione del Medio Oriente la prima causa dell’oppressione delle donne palestinesi e che sventola la bandiera di Israele perché Stato ebraico. Oppure in quelle antirazziste, dove oggi da un lato l’antirazzismo è fortemente caratterizzato dalla solidarietà al popolo palestinese e alle comunità musulmane, dall’altro un antirazzismo di carattere anti-musulmano e sionista (e che quindi non ha più nulla a che vedere con l’antirazzismo!).

Il genocidio palestinese: l’assoluzione finalmente raggiunta?

Dietro alla repressione contro il movimento per la Palestina si trova quindi un intreccio di ideologie e politiche anti-arabe, anti-musulmane e in difesa di Israele. Il giorno dopo l’interruzione della Conferenza Palestina, la Ministra degli interni tedesca Nancy Faeser ha argomentato che questa era avvenuto per la presenza di “islamisti”. Già all’indomani del 7 ottobre erano state adottate misure politiche contro l’intera comunità musulmana e araba presente sul territorio tedesco.

Nel quartiere con maggiore presenza palestinese di Berlino, a Neukölln, il partito di governo SPD e quello di opposizione CDU hanno ordinato alle scuole di distribuire l’opuscolo del titolo “Il mito di Israele #1948” in cui l’esistenza della Nakba viene messa in discussione. Sempre la CDU a fine 2023 aveva proposto di inserire il riconoscimento dello Stato di Israele come prerequisito per ricevere la cittadinanza tedesca.

Il 7 ottobre ha quindi prodotto una nuova cesura nei rapporti tra Israele e Germania, praticamente il tanto ricercato raggiungimento dell’assoluzione tedesca all’Olocausto. Questa assoluzione è rappresentata dal fatto che i due Stati oggi si trovano – ironia della sorte – insieme davanti alla Corte Internazionale della Giustizia: Israele accusato dal Sudafrica per genocidio, la Germania dal Nicaragua per la sua complicità. Un’assoluzione che però avviene al costo del diritto all’esistenza stessa del popolo palestinese.

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Fonti:
– Daniel Marwecki, Germany and Israel, Whitewashing and Statebuiliding, 2020.
Matthew Read, What’s really behind Germany’s unshakeable support of Israel?, 2024: https://peoplesdispatch.org/2024/03/27/whats-really-behind-germanys-unshakeable-support-of-israel/
– Bue Rübner Hansen, The New German Chauvinism – Part 1, 2024: https://lefteast.org/the-new-german-chauvinism-part-i/
– Bue Rübner Hansen, The New German Chauvinism – Part 2, 2024: https://lefteast.org/the-new-german-chauvinism-part-ii/
– The German Question with Emily Dische-Becker – The Dig, Podcast on Spotify: https://open.spotify.com/episode/4f4oOU8cdt5nqdBR9CmvUl

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