Il 6 aprile ricorrono dieci anni dalla scossa che ha distrutto la città di L’Aquila.

A 10 anni da questo terremoto la città di L’Aquila è ancora il più grande cantiere d’Europa, poiché si continua a lavorare, soprattutto in centro storico, mentre gli abitanti della periferia sono quasi tutti rientrati nella propria casa. Nei centri circostanti, “piccoli” ma popolati anche fino a 5000 abitanti, la ricostruzione non è mai iniziata: Paganica, Tempera, Camarda, Coppito, Sassa, sono 66 i paesi rimasti fermi al 2009, con i palazzi storici fatiscenti, i puntellamenti ormai ‘scaduti’, i luoghi di ritrovo del centro abbandonati. Frazioni e borghi si spopolano ritrovando un destino simile al centro storico della propria città. L’economia stenta a ripartire con i pochi negozianti che coraggiosamente hanno deciso di riaprire la loro attività in mezzo ai cantieri e a palazzine seicentesche bellissime ma vuote. Con una vita sociale che si riduce allo struscio del fine settimana o agli annoiati aperitivi serali. Una visione cieca, disordinata e disorganica della città che unisce le due amministrazioni, quella passata a guida PD e l’attuale a guida Fratelli d’Italia, in un continuum di mancanze che ci restituiscono una città tutta periferica, quasi uscita da un romanzo di Italo Calvino. I 19 progetti c.a.s.e. piantati in zone prive di ogni servizio, senza bar, negozi alimentari, piazze o punti di ritrovo, sono di fatto casermoni dormitorio. Nessuna scuola è stata ricostruita: bambini, studenti e studentesse e rispettivi insegnanti sono ancora tutti nei M.U.S.P., moduli ad uso scolastico provvisori. Anche se il termine “provvisori” dopo 10 anni é un insulto alla semantica.

Anche gli sfollati di Marche e Umbria attendono ancora, dopo tre anni, di vivere in vere città, con servizi funzionanti e all’interno di una reale comunità, ed accedere a fondi per una vera ricostruzione e messa in sicurezza del territorio. Si può dire dunque che oggi non è solo l’anniversario di un terribile evento sismico, ma ricorre anche la memoria di un modello di ricostruzione che non ha funzionato. Si può pensare che non abbia funzionato per mancanza di fondi: eppure nelle Marche i fondi di solidarietà europea alle zone terremotate sono ammontati a 248 milioni di euro, a cui si sarebbero dovuti aggiungere altri 200 milioni solo dal governo italiano. Ma di questi, 7.7 milioni sono stati riservati al settore turismo e tutti sono comunque stati spalmati su un territorio molto più ampio che le sole aree del cratere. Non mancano le risorse, ma la coscienza nell’usarle: a L’Aquila i soldi in cassa per le scuole ci sono ma sono fermi per qualche oscura perversione burocratica, mentre i grandi centri commerciali, costruiti in tempi record, sono un po’ ovunque e costituiscono la principale fonte di approvvigionamento, raggiungibile solo in auto o con i pochi mezzi pubblici; ormai sono diventati anche un inquietante surrogato del campetto sotto casa, intere generazioni millennial stanno crescendo all’Aquilone. Probabilmente non è ancora abbastanza, perché l’amministrazione attuale ha appena autorizzato la costruzione dell’ennesima area commerciale di 3000 mq: oltre alla gravità del costante consumo di suolo e della cementificazione di aree verdi, non si riesce a capire a cosa servano tutti questi compratoi, visto lo spopolamento costante e la mancanza di lavoro. Ma la risposta si trova nel destinatario della delibera, che rimanda alle solite concessioni di comodo con poca chiarezza sulla provenienza del capitale dell’investitore. Stessa logica si incontra nel Patto per lo sviluppo presentato dalla regione Marche: 300 pagine di “possibili” progetti che di fatto rispecchiano le volontà di grandi aziende, a volte già promotrici di vecchi progetti di speculazione sul territorio (un caso per tutti, i 20 milioni destinati al Quake Lab Center, promosso come eventuale attrattore scientifico-tecnologico e turistico, ma sostenuto anche da Genera Scarl, già finanziatrice del progetto Ascoli21 che nel 2010 avrebbe voluto destinare 100.000 metri quadrati del centro storico ascolano ad un’area residenziale privata).

Non si può dire nemmeno che la ricostruzione non ha funzionato perché mancano esempi di risposte oculate a danni simili nel passato: il caso del Friuli Venezia Giulia devastato dal terremoto del 1976 è ancora citato come modello. Lì la situazione è stata riportata alla normalità in meno di dieci anni con azioni prima sulle fabbriche, poi sulle case ed infine sui beni culturali ed avvalendosi delle competenze di tecnici esperti e a conoscenza del territorio. Due pratiche completamente trascurate nel caso abruzzese, dove le fabbriche e aziende già in crisi prima del sisma hanno approfittato della situazione per chiudere (e certamente una manciata di assunzioni nei negozi non può far fronte alle ondate di licenziamento, come quella dei 95 dipendenti della Intecs) e per la cui ricostruzione Matteo Renzi nel 2016 si è affidato, con il piano CasaItalia, a Renzo Piano, architetto forse di prestigio ma sicuramente non esperto di disastri ambientali né della regione del centro Italia.

Del resto non è vero nemmeno che il terremoto è un disastro imprevedibile e a cui è difficile rimediare. Innanzitutto perché nel 2019 esistono accorgimenti preventivi di tutela del territorio e degli edifici che eviterebbero moltissimi danni e morti, e invece i primi edifici ad essere a rischio oggi sono le scuole. Poi perché se ci fosse davvero preoccupazione per la sicurezza di un’area, non si progetterebbe nella stessa regione un’opera ad alto rischio di esplosione come la TAP. Infine perché lo stesso identico modello di (non) ricostruzione è stato applicato ad un disastro affatto ambientale, quale il crollo del ponte Morandi a Genova: i lavori sono stati affidati all’arbitrio quasi esclusivo di un commissario, con molte deroghe alle norme anticorruzione (anche se la mafia non è esattamente nota per le preoccupazioni per il benessere dei cittadini); lo stesso commissario ha scelto il progetto più bello, senza nemmeno indulgere in valutazioni sull’opportunità di recuperare quanto rimasto dell’opera, piuttosto che demolire tutto; i comitati cittadini sono stati gli unici a vigilare sulle implicazioni per la salute di questi lavori, mentre dall’alto arrivano solo immagini di progetti futuristici con piste ciclabili e parchi, per una piccola area di una valle in cui inizierà solo in questi mesi la costruzione di una (unica) struttura sanitaria e in cui la mobilità rimane uno dei problemi principali, con o senza ponte.

Oggi, quindi, come tanti altri giorni, è l’anniversario di azioni che privilegiano l’interesse di pochi, piuttosto che il bene di tutti e tutte; è l’anniversario di vite stravolte, tragedie inascoltate, esistenze lasciate in solitudine. A L’Aquila la responsabilità dello scenario disastroso sta nelle scelte (e non) delle amministrazioni succedutesi, che oggi si colorano anche di xenofobia al grido di “Prima gli aquilani”. Ma non si tratta di scelte solo locali: nelle Marche l’ufficio speciale ricostruzione (USR) ha subito grandissimi rallentamenti dal dover attendere il rinnovamento dei contratti degli addetti, che non possono essere più lunghi di 24 mesi per i tetti stabiliti dal Decreto dignità. Si torna alla normalità basandosi sulla precarietà. Dalle istituzioni invece occorrerebbe una strategia della prevenzione, ovvero un’azione commisurata a scelte di priorità, basata sul patrimonio di conoscenze acquisite nelle varie discipline coinvolte, su una cultura della prevenzione e una corrispondente preparazione tecnica diffusa e ramificata sui territori, superando la logica emergenziale.

Per fortuna, però, oggi è anche l’anniversario di forme di resistenza comunitaria, come l’esperienza del gruppo Emidio di Treviri che nel centro Italia ha ora lanciato una campagna di autoricostruzione, o come le Brigate di Solidarietà attiva, che in molte tragedie sono intervenute portando aiuti concreti ed umanità. In Abruzzo l’unico aspetto positivo emerso in questi 10 anni è la reazione carica di forza creativa di tanti cittadini e cittadine, tanti giovani che tramite processi di ricostruzione sociale dal basso hanno ricomposto in parte il tanto frammentato tessuto sociale, con un’elaborazione collettiva del lutto e riscrivendo insieme la narrazione della città che si vuole. Questa reazione si è concretizzata in due spazi sociali occupati, di cui uno ora chiuso, ma in cui è stata possibile la realizzazione di migliaia delle cose immaginate, con una grossa produzione di musica, cultura e arte; pratiche di mutualismo; partecipazione nella vita politica, anche a livello istituzionale; ispirazione per l’attività lavorativa di alcuni. E’ nato cioè un laboratorio da cui escono i pezzi della città desiderata, e contribuire a far generare questi frammenti, farli uscire fuori come i semi di alberi che si radichino nel suolo per germogliare in mezzo a quelle gru e a quel cemento è una delle azioni di Potere al Popolo, la creazione di coscienza e potere popolare.

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