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Venti di guerra: cosa sta succedendo in Iran

Contributo di Roberto Prinzi

 

Non è facile dire con certezza come vadano le cose nello Stretto di Hormuz, situato tra il Golfo Persico e il Mare Arabico. Le diverse versioni fornite da iraniani e americani non aiutano, ma del resto non potevamo aspettarci diversamente dato che lì è in corso una guerra: l’Iran non è stato ancora bombardato, è vero, ma il conflitto è già in atto. Se non vogliamo considerare le guerre per procura in Medio Oriente in chiave anti-iraniana (evidenti, ad esempio, i bombardamenti israeliani in Siria), lo strangolamento di Teheran registra nuovi avanzamenti ogni giorno che passa: dal ritiro americano all’accordo sul nucleare l’anno scorso; il ritorno delle sanzioni; la militarizzazione dell’area da parte occidentale. Nell’ultimo mese, un ruolo da protagonista (in negativo) se l’è cucito addosso l’Inghilterra che già non gode di ottima nomea in Iran: la “civilissima” Londra, infatti, è quella che nell’800 aveva cercato di controllare il sud della Persia perché via alle Indie; nel 1941 aveva invaso l’Iran anche se teoricamente il Paese a maggioranza sciita si era dichiarato neutrale; e nel 1951, dopo che il leader iraniano Mossadeq aveva osato nazionalizzare il petrolio, aveva scatenato l’embargo (eppoi la sua rimozione). Bisognerebbe ricordare e studiare la storia quando si parla del presente.

E’ evidente che l’obiettivo di Usa e Inghilterra è quello di provocare l’Iran in ogni modo possibile nel tentativo che la Repubblica Islamica possa commettere un clamoroso errore che richieda “necessariamente” un intervento armato. Quanto accaduto il 4 luglio scorso con il fermo della petroliera iraniana nei pressi di Gibilterra (ufficialmente perché la nave trasportava greggio verso la raffineria di Banyas, in Siria, in violazione delle sanzioni dell’Unione europea al governo siriano di Bashar al-Assad), le provocazioni con i droni e le militarizzazioni degli stati vassalli arabi rientrano in questa strategia. Ora arrivano 500 soldati a stelle strisce in Arabia Saudita: un ritorno, dopo il ritiro del 2003, che ci riporta ai tempi della Prima guerra del Golfo dove il “territorio sacro” era stato profanato dagli stivali americani scatenando reazioni rabbiose di gran parte della popolazione locale. Ma si sa per i regnanti medievali sauditi il territorio dove è nato l’Islam è “sacro” solo per giustificare le loro politiche barbare, per il resto può essere violato. Le provocazioni toccano l’Iran anche a distanza di chilometri: ecco l’Argentina di Macrì – vicina alla presidenza americana – che l’altro giorno (che tempismo!) ha deciso di congelare i beni del partito libanese Hezbollah (filo-Iran) perché gruppo “terrorista” responsabile nel passato di due stragi di ebrei nel paese sudamericano. Inutile dire che sono accuse mai provate.

Provocare Teheran nello Stretto di Hormuz vuol dire volergli dare un duro colpo alla sua economia: importantissimo geopoliticamente (qui transitano un quinto delle esportazioni mondiali di petrolio) lo Stretto è infatti il passaggio della maggior parte del petrolio estratto in Iran (i due terzi delle esportazioni della Repubblica islamica). Strangolare Hormuz insieme alle sanzioni è un mix micidiale per una economia, quella iraniana, che già da tempo sta arrancando anche per responsabilità occidentale. Rendere insostenibili le condizioni di vita degli iraniani in modo che la Repubblica islamica imploda al suo interno è un obiettivo gradito e neanche tanto nascosto a Washington.

Teheran sta cadendo nel tranello: la gestione della “crisi” è a volte imbarazzante sebbene vada contestualizzata all’interno della politica interna iraniana dove alzano sempre più la voce le forze conservatrici. I proclami muscolari, le azioni sul campo come l’abbattimento di un drone americano, il sequestro di due petroliere britanniche e una imbarcazione panamese non fanno che dare credito agli occidentali. E né contribuiscono a migliorare la sua immagine gli arresti dell’antropologa Fariba Adelkhah e della ricercatrice 40enne Nazanin Zaghari-Ratcliffe, molto probabilmente merce di scambio rispettivamente con Francia e Inghilterra per provare ad allentare la morsa soffocante occidentale ai suoi danni. Dopo tutto non è facile gestire la crisi per il presidente “moderato” Rouhani il quale, dopo il fallimento del “suo” accordo sul nucleare che gli iraniani hanno sempre rispettato, è costretto a fronteggiare forze conservatrici non meno medievali dei tanti odiati rivali sauditi. Da sempre in prima linea schierati contro il patto con il “grande Satana”, di fronte alle mosse scellerate americane celebrate però a Tel Aviv, ora hanno gioco facile a dire che è stato un “grosso errore” quell’intesa vista la slealtà occidentale. In questo clima di tensione altissima, l’Europa non è pervenuta: il suo modo di aggirare le sanzioni è stato ridicolo e fallimentare. La politica estera di Bruxelles dopo tutto, tranne qualche dichiarazione ufficiale che lascia il tempo che trova, non è molto diversa da quella dettata dagli americani: e non vale solo per l’Iran. Basta chiedere ai palestinesi.

Siamo in guerra. Lo siamo da anni. Ma a breve potremmo vedere altra distruzione con bombe a stelle e strisce colpire migliaia di iraniani. Non siamo di fronte ad uno scherzo, a dichiarazioni belliche che lasciano il tempo che trovano. Basta seguire la cronologia degli eventi degli ultimi mesi e notare la lenta ma costante escalation. Con notevole e colpevole ritardo, pare se ne stia accorgendo addirittura anche la stampa italiana. Se i protagonisti, a parole, dicono che non vogliono l’apertura di un nuovo conflitto, nei fatti stanno facendo di tutto per iniziarlo. Basta solo una piccola miccia.

Dobbiamo incominciare a pensare di iniziare a denunciare quanto sta avvenendo. Ora, non quando (speriamo mai) i caccia civilissimi occidentali mieteranno vittime in Iran. Gli effetti potrebbero essere devastanti e il Medio Oriente è già troppo inzuppato di sangue.

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