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Crisi climatica: l’inequivocabile necessità di un cambiamento rapido e radicale

Come noto, pochi giorni fa è stata rilasciata la prima parte del nuovo report dell’IPCC sui cambiamenti climatici. Compilato da oltre 200 scienziati e scienziate di tutto il mondo.
Per certi aspetti il rapporto non fa che confermare quello che la comunità scientifica evidenzia da più di trentanni, tuttavia due aspetti sono particolarmente degni di nota.
In primo luogo la gravità della situazione.

Le alterazioni osservabili già oggi nell’atmosfera, oceani, criosfera e biosfera devono farci capire una volta per tutte che il cambiamento climatico non è solo un fardello che peserà sulle spalle delle future generazioni, bensì una realtà con cui alcune comunità già oggi si trovano a combattere e che sempre di più interesserà anche il nostro quotidiano, come ci ricordano gli incendi nel Mediterraneo di queste settimane e le alluvioni che hanno spazzato via intere comunità del Nordrhein-Westfalen in Germania.

Ricordiamo infatti che oggi la terra è già mediamente più calda di 1,1 °C rispetto all’era preindustriale (1850 circa). Gli stati che hanno firmato gli accordi di Parigi si sono impegnati nel fare tutto il possibile affinché l’aumento di temperatura sia contenuto ben al di sotto dei 2 gradi centigradi, cercando di non superare 1,5 °C, entro la fine del secolo. Eppure secondo il nuovo report dell’IPCC perfino lo scenario migliore (qualora raggiungessimo un bilancio netto delle emissioni di gas serra pari a zero entro il 2050), prevede che l’aumento globale entro i prossimi 30 anni raggiungerà almeno 1,6 °C. Questo ci porterà ad esempio, entro pochi decenni, ad assistere ad almeno un’estate senza ghiaccio al Polo Nord. Ma anche un continuo innalzamento dei mari risulta ormai inevitabile, e ci vorranno secoli prima che la rotta venga invertita. Ma più tempo perdiamo, peggio sarà.

Il secondo punto che è importante rimarcare è che il rapporto non lascia spazio di dubbio sulla natura antropica del surriscaldamento globale.
A tal proposito è doveroso individuare i principali responsabili, per lo meno degli ultimi decenni. Dobbiamo infatti ricordarci che siamo stati costretti a temporeggiare per troppo tempo, incrociando orde di “negazionisti” che trovavano ampio spazio su tv e giornali.
Per decenni le multinazionali dei combustibili fossili hanno portato avanti una campagna di disinformazione, ultra finanziata, volta a negare l’effetto serra e i cambiamenti climatici causati dall’umanità, per poter continuare a sfruttare i giacimenti ricevendo lì dove possibile anche sussidi pubblici.
La dolosa responsabilità di grosse compagnie petrolifere nell’ostacolare l’informazione scientifica ed un cambio di rotta politica è stata ampiamente documentata, sia che si tratti di grosse compagnie oltreoceano come la Exxon, che l’italiana ENI.
Stiamo parlando di intrecci mostruosi tra politica e lobby che tutt’oggi continuano a plasmare l’agenda politica anche Europea (come evidenzia ad esempio il report di Recommon “Ripresa e Connivenza”). Grosse multinazionali che influenzano i destini del pianeta per i propri interessi economici. E una classe politica quasi sempre supina o corrotta. In ogni caso complice del baratro verso cui stiamo precipitando.

Le conseguenze di questi comportamenti spregiudicati si riversano sulla natura e l’umanità tutta ma in particolare sulle fasce più fragili. In molti luoghi le popolazioni più povere e meno responsabili delle emissioni di gas serra sono e saranno le più colpite, e avranno meno mezzi per fronteggiare adeguatamente il problema.

Infatti, determinati eventi climatici più estremi si concentrano in alcune parti del pianeta particolarmente fragili. Ad esempio i fenomeni di siccità estrema stanno maggiormente colpendo le regioni del Mediterraneo e dell’Africa sudoccidentale. Siccità significa meno raccolti, meno introiti, più povertà e fame. Insomma, le premesse per un incremento delle migrazioni verso luoghi più fortunati.

Ecco perché ci appare doveroso iniziare a parlare di stato di “emergenza climatica e sociale”. Una crisi porta con sé l’altra e vanno affrontate insieme per ottenere risultati efficaci e di lungo termine. Non possiamo prescindere dalle questioni sociali mentre affrontiamo la crisi climatica, e viceversa.

La buona notizia è che per quanto il quadro disegnato dal report sia allarmante sul fronte dei cambiamenti climatici, viene anche evidenziato come vi sia ancora tempo per evitare quantomeno lo scenario peggiore purché si attuino interventi rapidi e radicali nella nostra società.
E questi cambiamenti vengono ormai richiesti a gran voce non solo dalla comunità scientifica ma anche da movimenti per il clima come gli ormai ben noti Fridays For Future o Extiction Rebellion.
Sotto molti aspetti l’uscita di questo report è strategica essendo avvenuta tre mesi prima della COP26 di Glasgow (UK), cioè del summit globale sui cambiamenti climatici, nel corso del quale i governi dovrebbero (in teoria) accordarsi sulle misure, drastiche, da prendere per invertire la rotta. Eppure finché grosse multinazionali, che sono fiorite e prosperano in una società capitalista alimentata dall’estrattivismo fossile, continueranno a dettare l’agenda politica dei governi non avremo cambiamenti se non di facciata.
Tocca a noi ascoltare e rendere concreto quest’urlo “inequivocabile” che partendo dalla comunità scientifica ha ormai raggiunto il popolo e dovrà condurre verso un drastico cambiamento del modo in cui la nostra società è organizzata. Questo modello basato sul profitto messo sopra salute e ambiente è il cancro che dovremo estirpare dal nostro pianeta. Prima che sia troppo tardi.

 

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