*In malese, orangutan significa “popolo della foresta”, ma quelle foreste stanno scomparendo.
Mentre i delegati dei Paesi e delle imprese lasciavano la 27. Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la polvere si è posata nei resort di Sharm el-Shaikh, in Egitto. Nell’accordo finale, l’unico passo avanti compiuto è stata la creazione di un “fondo per le perdite e i danni” per i “Paesi vulnerabili”. Tuttavia, nonostante sia stato salutato come una svolta, l’accordo è poco più del finanziamento del Santiago Network per le perdite e i danni concordato alla COP25 nel 2019. Resta inoltre da vedere se questo nuovo finanziamento sarà effettivamente stanziato. Nell’ambito di accordi precedenti, come il Fondo verde per il clima istituito alla COP15 nel 2009, i Paesi industrializzati avevano promesso di fornire ai Paesi in via di sviluppo finanziamenti per 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020, ma gli obiettivi dichiarati non sono mai stati raggiunti. Alla chiusura della COP27, le Nazioni Unite hanno espresso “serie preoccupazioni” per il fatto che questi impegni passati “non sono ancora stati mantenuti”. Ancora più importante, il Piano di attuazione di Sharm el-Sheikh rileva che “la trasformazione globale verso un’economia a basse emissioni di carbonio dovrebbe richiedere investimenti per almeno 4-6.000 miliardi di dollari all’anno” – un impegno che non è previsto nel nuovo accordo. L’Agenzia internazionale per l’energia ha dichiarato che nel 2022, gli investimenti annuali globali per l’energia pulita rimarranno al di sotto di 1.500 miliardi di dollari. Come annunciato, si tratta di una “spesa record per l’energia pulita”, eppure è di gran lunga inferiore alle somme necessarie per una vera transizione.
“Un fondo per le perdite e i danni è essenziale”, ha detto il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres a conclusione del vertice di quest’anno. E ha aggiunto: “Ma non è una risposta se la crisi climatica spazza via dalla carta geografica un piccolo Stato insulare o trasforma un intero Paese africano in un deserto. Il mondo deve ancora fare passi giganti per quanto riguarda le ambizioni climatiche. Le voci di coloro che sono in prima linea nella crisi climatica devono essere ascoltate”.
Una di queste voci è quella dell’orangotango, la grande scimmia delle foreste del Borneo e di Sumatra che i malesi chiamano popolo della foresta (in malese, orang significa “persona” e hutan “foresta”). Secondo la Lista Rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, gli oranghi del Borneo, di Sumatra e di Tapanuli hanno subito un forte calo demografico e sono ora classificati nella categoria “pericolo critico” che rappresenta la fase precedente all’estinzione in natura. Oggi esistono meno di 800 orangotanghi Tapanuli e la loro popolazione complessiva si è ridotta di quasi la metà nell’ultimo secolo. Di questo nessuno parla nei dibattiti sul clima.
Nel 2019, le Nazioni Unite hanno pubblicato un rapporto scioccante che mostrava la quasi estinzione di un milione degli otto milioni di specie animali e vegetali del mondo, compresa la perdita del 40% delle specie di anfibi e di un terzo di tutti i mammiferi marini. Nell’ambito dei risultati sulla biodiversità e sugli ecosistemi, gli autori hanno scritto che “le specie di grandi dimensioni, che crescono lentamente, che sono specialiste dell’habitat o che sono carnivore – come le grandi scimmie, gli alberi tropicali di legno duro, gli squali e i grandi felini – stanno scomparendo da molte aree”. La situazione è desolante, hanno avvertito, “a meno che non si intervenga per ridurre l’intensità dei fattori che determinano la perdita di biodiversità”.
Cosa sta determinando questa perdita di biodiversità? Il rapporto comprende un lungo elenco in cui una parola ricorre più volte: deforestazione. In una pubblicazione storica, The State of the World’s Forests 2020, il Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) hanno rilevato che dal 1990 sono andati persi ben 420 milioni di ettari di copertura forestale, anche se il tasso di deforestazione è diminuito da 16 milioni di ettari all’anno negli anni ’90 a soli 10 milioni di ettari all’anno tra il 2015 e il 2020. Le foreste coprono circa un terzo della superficie globale, oltre quattro miliardi di ettari. Metà delle foreste sono relativamente intatte, mentre altre – in particolare le foreste pluviali – rischiano di essere distrutte.
A poche settimane dalla sua rielezione, Luiz Inácio Lula da Silva, che entrerà in carica come 39° presidente del Brasile nel gennaio 2023, è tornato sul palcoscenico globale della COP27. È arrivato insieme ad alcuni leader della comunità indigena brasiliana, tra cui il deputato federale dello Stato di Roraima, Joênia Wapichana, e tre membri del Congresso appena eletti: Célia Xakriabá (deputata federale per lo Stato di Minas Gerais), Sônia Guajajara (destinata a dirigere il nuovo Ministero dei Popoli Indigeni) e Marina Silva (ex ministro dell’Ambiente di Lula, che probabilmente riprenderà la carica). Al vertice, Lula ha ribadito l’accordo del Brasile con la Repubblica Democratica del Congo e l’Indonesia per la creazione di una “OPEC delle foreste pluviali”, stipulato lo scorso anno alla COP26 di Glasgow. Più della metà delle foreste pluviali del mondo si trova in questi tre Paesi ricchi di risorse che sono state estratte per i profitti delle imprese multinazionali e con conseguenze catastrofiche per l’ambiente. I tre Paesi però non sono riusciti ad avanzare sugli obiettivi di sviluppo sociale delle e dei loro proprǝ cittadinǝ. “È importante che questi tre Paesi rafforzino la loro alleanza strategica per aumentare l’influenza nei negoziati sul cambiamento climatico a livello globale”, ha detto il ministro coordinatore degli affari marittimi e degli investimenti dell’Indonesia, Luhut Binsar Pandjaitan (l’Indonesia ha cercato di creare diversi cartelli, tra cui uno con il Canada per un organismo di produttori di nichel simile all’OPEC).
Le dimensioni e la velocità con cui la foresta pluviale globale viene saccheggiata sono allarmanti. Nel 2021, il mondo ha perso 11,1 milioni di ettari di foresta pluviale, circa la dimensione dell’isola di Cuba. Per dirla in termini calcistici, con la Coppa del Mondo in corso, il mondo ha perso 10 campi da calcio di foresta pluviale al minuto. Lo scorso anno, sotto la guida di Jair Bolsonaro, il Brasile ha promosso la più grande devastazione di tutti i Paesi con 1,5 milioni di ettari di foresta persi. Queste antiche foreste, dense di vegetazione e animali, sono ormai scomparse. Alla COP27 Lula ha dichiarato: “Intraprenderemo una lotta molto determinata contro la deforestazione illegale”.
Brasile, Repubblica Democratica del Congo e Indonesia non sono soli. Il Forest and Climate Leaders’ Partnership, presieduto dal Ghana e dagli Stati Uniti e composto da 53 Paesi, ha assunto impegni coraggiosi per porre fine alla deforestazione. Prima della COP27, il ministro dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile della Colombia, Susana Muhamad, ha annunciato la creazione di un Blocco amazzonico composto dai nove Paesi che condividono la foresta pluviale della regione (Brasile, Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Guyana, Suriname, Venezuela e la Guyana occupata dalla Francia). Intanto, la Norvegia ha dichiarato che dopo l’insediamento di Lula riprenderà a fornire fondi al Brasile per la protezione della foresta pluviale, fondi che erano stati sospesi durante la presidenza di Bolsonaro.
L’approccio Brasile-Repubblica Democratica del Congo-Indonesia è concepito nel quadro della mitigazione, dell’adattamento e degli investimenti, non attraverso la vuota conversazione della COP. Il viceministro indonesiamo per l’ambiente e la gestione forestale, Nani Hendriati, ha spiegato come il Paese promuoverà l’ecoturismo nelle foreste di mangrovie attraverso un approccio blue carbon per garantire che il turismo non distrugga le mangrovie e per arrestare l’annosa e dilagante deforestazione del Paese (ad esempio, il 40% del vasto sistema di mangrovie dell’Indonesia è stato distrutto in soli 25 anni tra il 1980 e il 2005). Nuove iniziative nel Paese, ad esempio, promuovono l’allevamento di granchi nelle mangrovie anziché permetterne la distruzione. In questo spirito, il presidente indonesiano Joko Widodo ha portato i leader mondiali a piantare semi di mangrovia nel parco forestale Taman Hutan Raya Ngurah Rai durante l’incontro del G20 a Bali, in Indonesia, che si è svolto dopo la COP27.
Queste opportunità fotografiche sono importanti se mirano davvero a far luce sul problema della deforestazione. Tuttavia, non è stata fatta luce sulle multinazionali minerarie che hanno distrutto le foreste pluviali tropicali in tutto il mondo. Un recente studio pubblicato dai Proceedings of the National Academy of Sciences degli Stati Uniti d’America ha esaminato l’impatto dell’attività industriale mineraria sulla deforestazione nelle regioni tropicali. Prendendo in esame una selezione di 26 Paesi, i ricercatori hanno scoperto che l’estrazione mineraria industriale in Indonesia è stata responsabile di uno sconcertante 58,2% della deforestazione in questi Paesi tra gli anno 2000 e 2019. Tuttavia, con una mossa preoccupante nel 2020, il governo indonesiano ha approvato una nuova legge sull’estrazione mineraria che consente di estendere i permessi con una regolamentazione ambientale minima o nulla. Pius Ginting dell’ONG Azione per l’ecologia e l’emancipazione del popolo (AEER) ha dichiarato: “Quando le concessioni minerarie aumentano, aumenta anche la deforestazione, si verifica una perdita di biodiversità e si frammenta l’habitat [di animali e persone]”. Quest’anno l’Indonesia ha revocato circa duemila permessi d’estrazione mineraria, ma la revoca è dovuta principalmente alla regolarizzazione del sistema di permessi e non a quella per la protezione dell’ambiente. Le pressioni dei movimenti popolari in Indonesia e l’impatto catastrofico dei disastri climatici e ambientali hanno messo in guardia il governo sulla sua vicinanza alle multinazionali minerarie.
Nel frattempo, la questione dell’orangotango rimane senza risposta. Un riesame accademico del miliardo di dollari speso per la conservazione degli oranghi dal 2000 al 2019 ha rilevato che “la protezione dell’habitat, il pattugliamento e la sensibilizzazione del pubblico hanno avuto il maggior ritorno sugli investimenti per il mantenimento delle popolazioni di oranghi”. Tuttavia, questi fondi non hanno portato a grandi risultati. La questione chiave per porre fine alla deforestazione – compreso l’arresto dell’espansione delle piantagioni di olio di palma, di legno e di legname nel Borneo e a Sumatra – è fuori discussione. Quanta attenzione verrà prestata a questi temi nella prossima Conferenza delle Parti della Convenzione sulla diversità biologica, che si terrà a Montreal (Canada) dal 7 al 19 dicembre? Qualcuno ascolterà la voce dei “popoli della foresta”?
In ottobre, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale (FMI), Kristalina Georgieva, ha dichiarato a un incontro di organizzazioni della società civile a Washington che l’FMI “sta effettivamente sostenendo la biodiversità. Per esempio, ci sono economisti in grado di misurare il valore monetario di un elefante e il valore di una balena”. I commenti della Georgieva riecheggiano un’osservazione fatta da Karl Marx nel primo volume de Il Capitale (1867): “In qualche occasione in Inghilterra vengono ancora impiegate donne invece di cavalli per rimorchiare ecc. le barche dei canali, perchè il lavoro richiesto per la produzione dei cavalli e delle macchine è una quantità matematica data, e invece quello per il mantenimento delle donne della sovrappopolazione è al disotto di ogni calcolo”.
Qual è il valore monetario di un orangotango? E quello della sopravvivenza del pianeta? La classe dirigente può pure essere in grado di calcolare questi valori, ma è chiaro che non è disposta a pagare il conto per salvare il pianeta.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della quarantasettesima newsletter (2022) di Tricontinental: Institute for Social Research.