Toscana

[Siena] Di lavoro si muore

Dal primo gennaio a oggi sono morte circa 150 persone sul posto di lavoro. Nel 2017, secondo i dati istat che non tengono di conto dei lavoratori a cui non spetta la copertura Inail come i pompieri e i lavoratori a nero, sono morte 746 persone mentre svolgevano il proprio lavoro e altre 283 in itinere cioè mentre si recavano a lavoro.
Non si può più continuare a parlare di incidenti. Più di mille morti all’anno, di media tre al giorno, sono una strage. Una strage voluta da chi negli ultimi trenta anni ha praticato una politica volta ad annullare la sicurezza del e sul posto di lavoro, tramite la distruzione dello Statuto dei Lavoratori, il disinvestimento sugli organismi di tutela e di controllo e il continuo aumento dell’età pensionabile, minando così la dignità e il valore della vita stessa dei lavoratori.

La questione dell’età pensionabile è di un’evidenza lampante se guardiamo a questi indici del 2015 (riportati nello schema sottostante) oppure se facciamo riferimento ai dati INPS più recenti del 2017, i quali ci parlano del decesso di 746 lavoratori di cui il 3,9% dai 15 ai 24 anni, l’8,6% dai 25 ai 34 anni, il 16,6% dai 35 ai 44 anni, il 30,6% dai 45 ai 55 anni, il 30,8% dai 56 ai 64 anni e, infine, il 9,5% per gli ultra sessantacinquenni.

Da questi semplici elementi, oltre che dalla quotidiana cronaca di stillicidi, si evince chiaramente come l’aumento dell’età lavorativa, prolungando la richiesta di efficienza e reattività psicofisica quando oramai è l’usura a farla da padrone sul fisico di una persona che ha più di 55 anni ma ne lavora da almeno 30, sia una chiara concausa.

Se ultimamente si sente molto parlare della riforma pensionistica Fornero ciò è perché ha avuto forti impatti sulle aspettative di vita delle persone ma occorre tenere presente come essa non sia che l’ultimo stadio di un processo di continue riforme in campo previdenziale cominciato da oltre venticinque anni.

A cominciare dal 1992 con la riforma Amato, proseguendo con la legge Dini nel 1995 e poi con le successive riforme di Prodi nel 1997, Maroni nel 2004, Damiano nel 2007, Sacconi nel 2011 e, infine, la succitata Fornero del 2012, questa serie di cambiamenti legislativi ha seguito la direzione fondamentale dell’aumento dell’età pensionabile di vecchiaia, ovvero l’età minima per poter accedere alla pensione per motivi anagrafici e il progressivo aumento del numero di anni richiesti per la pensione di anzianità, ovvero quella ottenibile in base al numero di anni lavorati, fino alla sua totale abolizione, avvenuta con la legge Fornero che l’ha sostituita con la pensione anticipata concepita tuttavia come opzione penalizzante.

Oltre all’aspetto relativo all’allungamento della vita lavorativa in quanto tale, occorre poi sottolineare come certamente influisca sulle morti e sugli infortuni da lavoro la precarietà che esso ha assunto da almeno un ventennio sulla scia del ritornello dell’aumento di produttività.

La deregolamentazione del mercato del lavoro, iniziata con il Pacchetto Treu del 1997 e proseguita con la riforma Biagi del 2003 ha introdotto la fattispecie del lavoro interinale producendo una generazione di lavoratori che passa da una mansione all’altra senza che prima questi siano correttamente formati sugli aspetti della sicurezza della specifica mansione: un metalmeccanico ha rischi diversi da un muratore, un portuale da un bracciante. Per quanto possano raccontarci che formalmente un lavoratore interinale sia legalmente tutelato in base alle specifiche norme riguardanti quel particolare settore, l’esperienza quotidiana ci fa vivere una realtà basata su contratti settimanali, o persino giornalieri, dove è ovvio che nessun datore di lavoro perderà tempo per dotare di nozioni e talvolta anche proprio di dispositivi, il neoassunto a scadenza.

Oltre alla somministrazione individuale di lavoro, operata dalle agenzie interinali, altra causa di sfruttamento con relativi rischi di infortuni anche mortali sono le catene di appalti e subappalti che vengono usata dalle imprese pubbliche, in molti casi ormai divenute aziende speciali cioè enti strumentali dell’ente locale dotate di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di proprio statuto, approvato dal consiglio comunale o provinciale la cui sua gestione è affidata a un consiglio di amministrazione, un presidente e un direttore, al quale compete la responsabilità gestionale. Anche le grandi aziende private come l’Ilva o i grandi colossi della distribuzione come SDA e GLS utilizzano per la gran parte del proprio personale (facchini, magazzinieri, trasportatori, addetti alle pulizie etc.) aziende in appalto o subappalto che salgono spesso agli onori della cronaca per incidenti mortali.

Questa situazione è stata ulteriormente aggravata dalla Legge Fornero n. 92/2012 del mercato del lavoro, la quale dà di fatto inizio allo smantellamento dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori riducendo drasticamente lo spazio decisionale del giudice nelle ipotesi di reintegro del lavoratore illegittimamente licenziato per giustificato motivo oggettivo (cioè, ad esempio, per cause economiche).

Infine, con la pubblicazione dei decreti attuativi del cosiddetto “Jobs Act”, benché sia prevista la graduale introduzione di un contratto unico a tempo indeterminato e a tutele crescenti (che andrebbe, a detta dei suoi promotori, a sostituire quelle forme contrattuali che hanno dato origine alla precarietà), la caratteristica dell’indeterminatezza del nuovo contratto di lavoro è volutamente superata da norme che – sia formalmente che sostanzialmente – precarizzano ancora di più il mercato del lavoro e creano gli strumenti per lo smantellamento dei diritti dei lavoratori, generando un ampio squilibrio tra le posizioni contrattuali tra lavoratore e datore.

Tutto questo è potuto succedere in virtù dell’effimera opposizione che i sindacati confederali hanno mosso contro questi provvedimenti, volti di fatto a ridurre i salari attraverso la creazione di una concorrenza spietata tra i richiedenti lavoro, ed eliminare le garanzie contrattuali e di legge in favore dei lavoratori facilitando i licenziamenti e i demansionamenti. Qualora non fosse stato ancora sufficiente per il padronato il grado di sfruttamento permesso dal quadro legislativo sopra esposto gli arrivano periodicamente in soccorso i vari contratti collettivi nazionali sottoscritti dai sindacati confederali dove vengono accettate le richieste padronali di un ulteriore aumento delle ore lavorative su base settimanale e mensile quando, proprio in termini di sicurezza sul posto di lavoro, si è evidenziata, sia in termini di cronaca sia in termini di studi statistici, che una buona parte degli infortuni (mortali e non) avvengono nelle ore di straordinario o comunque in orari particolari come i turni notturni.

Ulteriore prova di un sistema che è sempre più responsabile diretto delle morti sul lavoro è il ruolo sempre più residuale che viene dato di anno in anno ai controlli sulla sicurezza da parte degli istituti pubblici preposti a farlo.

Solo nel 2017 i controlli sui luoghi di lavoro per individuare quelle aziende che impiegano dipendenti “in nero” o che violano le norme sulla sicurezza si sono ridotti drasticamente: nel 2016 sono state condotte verifiche su 192mila imprese, nei dodici mesi successivi si sono fermate a 160mila, con un calo del 16%. Se andiamo ancora più indietro a oltre 10 anni fa, nel 2006 appunto, l’attività ispettiva totale riguardava più di 290mila aziende, mentre 5 anni fa, nel 2012, le ispezioni sono state 244mila e nel 2013 i controlli sono scesi a 235mila.

Ad oggi abbiamo circa quattromila ispettori per tutto il territorio italiano a fronte di un milione e mezzo di imprese. Questo è il reale rapporto di forze che misura l’ipocrisia dei governi quando parlano di vigilanza sul lavoro.

Ultimo tassello di questo processo è stato ancora una volta il Jobs Act, la riforma ha preso il largo a inizio 2017 ignorando di intervenire sulla sicurezza del lavoro nel Paese dove più di mille persone all’anno muoiono mentre si guadagnano da vivere.

In sostanza, i datori hanno sempre più possibilità di sfuggire ai controlli e, quelle poche volte che vengono scoperti nella loro illegalità, il calcolo dei costi benefici li fa preferire il pagamento di una multa alla regolarizzazione su contratti e sicurezza. Senza contare che in caso di morte di un lavoratore i datori possono contare su un sistema legale e giudiziario che sovente non applica pene o solo in misura ridotta non paragonabili a le altre pene previste e applicate per i vari casi di omicidio.

Per esperienza sappiamo bene come questa continua ricattabilità ci porti a lavorare in silenzio in condizioni di pericolosità per la nostra salute con la paura di ribellarci per sperare nel rinnovo del contratto, sappiamo come questo assillo ci faccia mettere in viaggio per recarci sul posto di lavoro pure se abbiamo un utilitaria e la strada sia completamente ghiacciata, sappiamo quanto sia stancante rimanere in corsa per tutta la giornata tra turni spezzati per servire ad un ristorante o doppi lavoretti per riuscire a racimolare una vaga somiglianza di stipendio. Sappiamo perfettamente, dunque, quali siano i rischi che corriamo tutti i giorni anche se proviamo a non pensarci, ma non vogliamo più accettare che si parli di fatalità o casualità quando è evidente che si tratta di un sistema organizzato per funzionare proprio così.

Lascia un commento