post voto

Siamo il cambiamento. Oltre Macerata e il #10F

Contributo alla discussione su fascismo e razzismo. Per sottoscriverlo firma qui: http://bit.ly/2HFfOCw

Potere al Popolo Macerata, tra i promotori della manifestazione del 10 Febbraio a Macerata

Le date rientrano nell’ordine simbolico dei significati che diamo alle cose nello spazio della memoria e dell’interpretazione della realtà.

La data del 10 Febbraio è per noi data simbolo di una significativa risposta a 30.000 voci ad un atto barbarico di terrore fascista, che ha reso evidente la frantumazione contemporanea del suolo democratico e i buchi neri di una trasformazione sociale critica e complessa. Questa trasformazione deve essere sottratta alla narrazione univoca di parodie mediatiche economicamente e politicamente funzionali ad un sistema disfunzionale al benessere sociale. Il 10 Febbraio siamo stati narrazione collettiva e plurale: abbiamo sottratto la nostra città alla paura e all’orrore.

 

Il 10 Febbraio è stato riappropriazione, rivendicazione, empatia e scelta. E’ stato un passaggio fondamentale per i cittadini maceratesi e per i cittadini italiani, per chi vorrebbe essere riconosciuto come cittadino italiano, per i migranti, per le comunità straniere, per i movimenti, per gli ‘insubordinati’ delle organizzazioni territoriali e per le istituzioni che con la loro assenza hanno, ancora una volta, allungato la distanza fra le parti sociali e la politica.

A partire da questa data è più che mai chiara la necessità di guardarsi in faccia e fermare quei tratti mobili fatti di: azioni, pratiche, formazioni politiche, stratificazioni di pensieri, scelte di potere e assordanti silenzi. Ciò che ne emerge è la presenza di un doppio livello di barbarie, che si spalleggiano alimentandosi a vicenda. La barbarie chiamata fascismo che, nonostante sia collocato in una storicità passata, esonda i libri di storia e i dizionari, cercando un agibilità e trovando una legittimità che costituzionalmente non gli appartiene. Abbiamo assistito ad una campagna elettorale in cui il cittadino si è ritrovato a scegliere di essere rappresentato, in uno stato democratico, da forze anti-democratiche legate a pensieri che violano i principi fondamentali del diritto internazionale. Uno dei principi cardine su cui poggia il progresso sociale e culturale è l’uguaglianza, tanto a livello legislativo quanto quale humus educativo di coesione sociale. Tale principio è del tutto assente, ed anzi se ne rivendica pubblicamente e politicamente l’esatto contrario: il riconoscimento della differenza territoriale, fisica e culturale come strumento disumanizzante ed escludente. Di fatto il razzismo è la forma più organica nonché la più usata e abusata dalla retorica fascista contemporanea, che guarda alla società attuale attraverso la banalizzazione e la strumentalizzazione di fenomeni complessi fisiologicamente propulsivi. La lente è quella dell’ignoranza. A questo si aggiunge lo sdoganamento, sempre più reticolare, di una forma di disumanizzazione rivendicabile politicamente poiché presente nel bar, nella scuola, nell’officina, nella piazza, in quelle realtà dove si concentra la vita della società civile. Ed è proprio quest’ultima a soffrire, dato il pilatesco silenzio delle istituzioni rispetto alla repressione di questo fenomeno, che in tal modo si amplifica, trovando legittimazione nel mutismo accondiscendente dello Stato.

Qui si colloca il secondo livello di barbarie, che è il silenzio degli indifferenti. L’indifferenza del volgere lo sguardo, l’indifferenza di uno stile di vita che si crogiola nel consumo individuale di sentimenti, di pensieri, di comportamenti, di tutti quei fili tirati dalla mano del neo-liberalismo. All’interno della storia, che ci permette di classificare come aberranti le pratiche fasciste, c’è anche l’importante lezione (troppo spesso ridimensionata nei manuali) di come l’apatia sociale sia stata quel contributo decisivo per l’affermazione del fascismo e delle marginalizzazioni sociali. Vogliamo ora e da questo momento una rottura del lasciarsi vivere addosso, delle catene di cui non sentiamo più il peso ma che segnano un procedere vuoto, colpevole. Vogliamo la criticità del pensiero, l’esposizione di corpi democratici, l’acquisizione di una coscienza non solo individuale ma anche e soprattutto collettiva, la ridiscussione di pensieri pre-confezionati e di intellettualismi usa e getta. D’altra parte, quando si è di fronte ad un abisso tra le istituzioni e la società non è corretto e non è utile polarizzare le responsabilità. Bisogna piuttosto interrogare o capire chi sono e di cosa sono fatti quei corpi intermedi che gestiscono la narrazione dei fenomeni. Rispetto, infatti, agli episodi di cronaca che hanno occupato la scena mediatica nell’ultimo periodo, emerge chiaramente come i mezzi di comunicazione siano stati complici diretti della barbarie, veicolando informazioni deformanti e funzionali alla politica del terrore.

Siamo di fronte ad un sistema in crisi. Nell’evanescenza delle strutture democratiche, nell’assenza del pensiero critico, nel perpetrarsi di un’ideologia formalmente estinta e nell’assorbimento di questa nel tessuto civile, nella spettacolarizzazione del disagio sociale e nel naufragio intellettuale causato dal sistema neo-liberale è necessario ripensare nuove forme di democrazia.

Il 10 febbraio abbiamo fatto una grande, collettiva scelta radicale, tale da farci superare ogni differenza rispetto alle nostre storie, alle nostre forme di lotta. Questo ci ha fatto capire che possiamo e dobbiamo battere nuovi sentieri senza abbandonare la collettività delle scelte, perché c’è una eco che personalmente ci suona in testa: «Divisi siamo niente, uniti siamo tutto».  E questo tutto è ciò che proponiamo di articolare in forme pratiche di costante riappropriazione cittadina individuale, organizzata e collettiva. Ripensarci per ripensare. Aggregarci per conoscere, informare, liberare e costruire. Innanzitutto riaprendo gli spazi del dibattito democratico e civile, cioè agevolando e incidendo nella discussione in quei luoghi che sono officine del pensiero collettivo: scuole, ospedali, istituti di cultura.  Tali officine devono essere supportate e rieducate anche e soprattutto attraverso la creazione di nuovi spazi dal basso, nei quali il vincolo sia la rete locale di strada, del quartiere e della città, che possano essere un modello complementare e uno stimolo creativo. L’interazione fra le due passa attraverso una progettualità di rilancio delle forme di relazionalità, mutualismo, sostegno, incontro e scambio, che scavalchi ogni categoria economica e anagrafica.    

Nella riappropriazione, nella creazione spontanea e nella progettualità democratica vanno inserite delle azioni concrete di cittadinanza attiva che esprimano una posizione netta contro chiunque sostenga cattiva informazione o dia spazio a realtà fasciste, disumanizzanti e discriminatorie, attraverso il boicottaggio di locali, lo spam sulle piattaforme online ed azioni satiriche. Una cittadinanza attiva che si muova costantemente nella promozione di altre forme di comunicazione e di comprensione attraverso l’uso di linguaggi non ufficiali. Primo fra tutti il linguaggio dell’arte, dell’interpretazione teatrale, visiva, poetica e musicale, il quale da sempre ha il privilegio di accedere per contatto diretto e intimo alla realtà, maneggiandone e curandone la complessità.

A questo si aggiungono la diffusione di pratiche di educazione informale rispetto alla formulazione di un’identità socio-culturale recettiva alle possibilità del presente e agli stimoli che nascono da un incontro di modelli, gestualità, tradizioni ed espressioni umane differenti; nonché la sensibilizzazione rispetto a meccanismi politico-economici che manovrano e condizionano i consumi, e che richiedono forme di assidua e costante lotta quotidiana, mettendoci di fronte a delle scelte che ci spingano fuori la zona di comfort. E’ importante ricordare, infatti, che l’esercizio del voto non è solo quello della cabina elettorale, ma è un esercizio di scelta costante e radicale alla quale si accede solo per coscienza critica e solo attraverso la consapevolezza della fondamentale possibilità di incidere sulla realtà. Infine, è necessario aumentare e amplificare le narrazioni già esistenti, che sono tante, che sono belle e molto spesso scansate al margine dal teatrino mediatico e dalla paura costituita nel vedersi sottrarre l’esercizio indiscriminato del potere, qualora non funzionassero più i sedativi e gli steroidi sociali. La risposta data a Firenze, all’ultima delle mine messe in serie dalla politica trionfale dell’odio, è ossigeno nei polmoni per chi, come noi, crede fermamente che nei periodi più bui a nulla vale aspettare il giorno se possiamo essere noi la luce.

 

L’urgenza che sentiamo addosso non proviene esclusivamente da episodi violenti, dall’indifferenza, dalla complicità istituzionale e mediatica. C’è una geografia di sistema che impartisce ruoli e disegna confini: il centro e la periferia. Questa periferia dove vengono costrette le marginalità, i cosiddetti sacrificabili, è in movimento verso il cuore del benessere, il quale a un tratto si accorge di essere solo forma. Noi abitanti del centro abbiamo preso coscienza di essere tutti sacrificabili. Ciò significa che né la violenza, né l’indifferenza, né la complicità istituzionale e mediatica hanno la forza di scuoterci tanto quanto la realizzazione dello stato di estraniamento a cui siamo sottoposti, che ci porta ad una crisi di identità tale da farci morire tutti stranieri al linguaggio della convivenza. Se non conviviamo non sappiamo chi siamo e dove stiamo andando. Per questo motivo, dobbiamo inserirci nella realtà con un nuovo immaginario, che sia il prodotto di abilità civili, culturali e politiche, in grado di ridisegnare una nuova geografia sociale decentralizzata, in cui la coscienza identitaria si trovi a suo agio a ogni latitudine. Quest’impegno non può essere circoscritto a singole azioni, è necessario creare una rete le cui maglie possano tenere nel tempo, così da permettere alle pratiche di formarsi e diventare pensiero condiviso. Non sarà questione di settimane o mesi, paradossalmente l’urgenza deve essere tradotta in costante ostinazione. La naturale conseguenza di un processo di questo tipo sarà specchio di una orizzontalità che avrà sempre la forza e il coraggio di osare il cambiamento.    

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