Lazio

[Roma] Cosa ci insegna la storia di Micaela Quintavalle?

Per una volta fa notizia: una lavoratrice che denuncia i problemi della propria azienda, le pericolose condizioni di lavoro e i rischi in cui incorrono i consumatori (in questo caso gli utenti del servizio pubblico), viene licenziata. Stiamo parlando di Micaela Quintavalle, autista di ATAC, la famigerata azienda di trasporto pubblico romano. Ieri è stata licenziata dopo 128 giorni di sospensione senza stipendio per aver raccontato in un video de Le Iene i problemi strutturali che si nascondevano dietro le decine di autobus andati a fuoco a Roma negli ultimi due anni. 

La sua storia è simile a quella di Dante De Angelis, licenziato (e poi reintegrato) da FS per aver denunciato le condizioni in cui versavano di treni e infrastrutture, e probabilmente a tanti altri lavoratori e lavoratrici che provano a far sentire la propria voce e per questo vengono presi di mira da capi, capetti e padroni. Raramente queste storie fanno notizia, la maggior parte delle volte la repressione aziendale vince, perpetuando quel regime di omertà che i lavoratori dipendenti di questo paese conoscono bene, soprattutto da quando hanno cominciato a svanire diritti e cultura sindacale. Quello stesso regime di cui parla Micaela proprio in quel video, quando racconta che la maggior parte dei guasti e dei difetti dei mezzi vengono taciuti, dato che “i colleghi non segnalano niente perché hanno paura di finire nelle liste nere”.

Per una volta tutto questo suscita indignazione e guadagna spazio sulle prime pagine dei giornali. Complice è probabilmente il piacere che hanno i giornalisti nel romanzare storie di lotta che hanno per protagonista una donna, che deve essere costretta nel ruolo della “pasioanaria”, badando più al personaggio che a quello che dice. E probabilmente anche quello che hanno nel parlar male di aziende pubbliche, visto che quelle private spesso e volentieri detengono quote degli stessi giornali per cui scrivono (e magari nelle aziende pubbliche vorrebbero metterci le mani…) Ma conta anche la giusta esasperazione dei milioni di cittadini romani che ogni giorno prendono i mezzi in condizioni inaccettabili e che non possono non inorridire di fronte a un’azienda che, anziché fare qualcosa per rimediare, licenzia chi denuncia i problemi.

E di problemi ATAC ne sta accumulando esponenzialmente negli ultimi anni e la causa principale, quella più evidente, è anche quella più taciuta: la clamorosa mancanza di investimenti e finanziamenti statali nel settore del trasporto pubblico che, come dice chiaramente la Cassa Depositi e Prestiti, “per anni sono stati quasi azzerati e i vincoli imposti dal Patto di Stabilità Interno hanno compromesso i finanziamenti degli Enti Territoriali al TPL”. L’età media della flotta dei mezzi a disposizione di ATAC è raddoppiata negli ultimi dieci anni e supera anche di tre volte quella di città come Berlino, Parigi, Londra. Il risultato sono i guasti continui, i mezzi senza aria condizionata costretti a girare perché altrimenti il servizio collasserebbe, i pericoli per lavoratori e passeggeri, i famigerati incendi. E i crescenti costi delle manutenzioni sono diventati anche profitti per quei privati che mentre sfruttavano i propri lavoratori lucravano sulle disfunzioni del servizio pubblico, fino a che, l’altr’anno, l’azienda stessa non ha deciso di internalizzare questi servizi capendo che la cosa non era più sostenibile. 

E gli sprechi, le clientele, i furti? Certo ci stanno anche questi. Abbiamo tutti sentito parlare di “parentopoli”, dello scandalo dei biglietti clonati i cui proventi andavano a rimpinguare le casse di alcuni partiti, della compravendita dei permessi sindacali, ecc. Ma queste non sono disfunzioni, bensì elementi essenziali del quadro di abbandono e saccheggio del servizio pubblico e del suo uso privatistico. In un meccanismo a cascata che va dall’alto verso il basso: ai manager strapagati viene dato mandato di “razionalizzare”, cioè di abbassare i costi, di spremere i lavoratori, di tagliare parte del servizio. Se poi non ci riescono, perché i problemi infrastrutturali rimangono lì (e Roma è una città enorme dalla struttura urbanistica estremamente dispersa e caotica), poco male: dopo un po’ di teatrino vengono mandati a casa con delle buone uscite stellari e sono pronti a rivendersi al miglior offerente nel sistema di porte girevoli tra pubblico e privato di cui gode la classe dirigente italiana. Intanto la politica, che si nasconde dietro la crisi, il “ce lo chiede l’Europa”, l’austerità, rinuncia a qualsiasi piano di rilancio del servizio pubblico e piuttosto lo sfrutta per piazzare qualche parente tra il personale amministrativo, per intascarsi un po’ di proventi, per far vincere qualche appalto a un amico. Infine molti sindacati rinunciano alla lotta e vendono il proprio silenzio in cambio di promesse di carriera per alcuni loro dirigenti, della gestione di qualche assunzione, di qualche permesso in più, addirittura dell’appalto sulla mensa del dopolavoro!

Poi però succede che qualcuno si incazza, che non ne può più di pagare sulla sua pelle gli effetti di questo sistema marcio, di vedere manager strapagati, politici corrotti, sindacalisti venduti continuare ad arricchirsi mentre il proprio salario si restringe, il lavoro si fa più usurante e gli orari aumentano. Ed è lì che subentrano i vecchi metodi del terrore aziendale: sanzioni disciplinari per chi si limita a rispettare il regolamento sulla sicurezza, sospensioni e licenziamenti per chi denuncia pubblicamente i problemi, mancati avanzamenti di carriera per chi li pone. È la storia di Micaela Quintavalle, ma anche di Christian Rosso e di tante lavoratrici e lavoratori dell’azienda. Lavoratori che quando protestano vengono subito criminalizzati da politici e giornali che sparano dati a caso su salari che nessun macchinista ha mai visto, che mettono nel grande calderone dell’“assenteismo” chi usufruisce dei permessi della legge 104, che tacciono sul dilagare delle malattie professionali e che non dicono mai – mai – che le assunzioni in ATAC sono bloccate da dieci anni e che si stima che ci sia bisogno di almeno altri mille autisti per garantire il pieno servizio. Mobilitazioni che vengono soffocate da una propaganda asfissiante che confonde abilmente diritti con privilegi, che mette sullo stesso piano chi approfitta dell’azienda pubblica per fare i propri interessi con chi difende i diritti acquisiti con anni di lotte  Per non parlare poi delle sempre più stringenti limitazioni del diritto di sciopero in nome di quello stesso “diritto alla mobilità” che viene negato a suon di tagli e austerità.

Se questa è la situazione è chiaro che molti penseranno solo a sé stessi, si piegheranno a queste logiche marce e opportuniste sperando di ricavarne qualche piccolo vantaggio personale, fosse anche soltanto quello di un permesso o di uno straordinario in più, finiranno per stare zitti o leccare il culo, sperando magari di cavarsela. Eppure nonostante il quadro deprimente sono state numerose le battaglie portate avanti da autisti e macchinisti negli ultimi anni, tra scioperi normali, scioperi “bianchi”, scioperi “selvaggi”, manifestazioni di piazza. È da alcune di queste mobilitazioni che è salita alla ribalta Micaela, anche se poi con il suo sindacato ha deciso di non sostenerle tutte. Ed è in queste mobilitazioni che l’abbiamo conosciuta e abbiamo conosciuto altri come lei. Non si tratta di eroi, ma di persone normali che difendono il proprio salario e i propri diritti, affermando così però principi che valgono per tutti: che la dignità di chi lavora va rispettata e che il servizio pubblico va difeso. Queste persone richiedono il nostro sostegno, di noi che usufruiamo del servizio, di noi che nei nostri posti di lavoro subiamo pressione e ricatti simili. Solo con la solidarietà tra lavoratori e utenti si può fermare chi è interessato allo sfascio del servizio pubblico, solo con il protagonismo delle classi popolari si possono fermare gli sciacalli che ci lucrano sopra.

Oggi allora mandiamo tutta la nostra solidarietà a Micaela. La lotta continua!

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