Nel pieno di una guerra che, ad oggi, ha mietuto oltre 35mila morti, Israele è stata portata davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, la quale ha ritenuto vi fossero i presupposti per procedere per genocidio.
Contestualmente, lo scorso gennaio, mentre già si contavano decine di prigionieri politici palestinesi uccisi nelle carceri israeliane per tortura e negligenza sanitaria, con numerose testimonianze di torture e abusi, l’Italia ha comunque deciso di dar seguito a una richiesta di estradizione avanzata dalle autorità israeliane a carico di Anan Yaeesh, un palestinese residente in Italia, rimettendo quindi la decisione al piano giudiziario. Questo episodio si inserisce in un quadro più ampio di repressione della resistenza palestinese, sia all’interno dei territori occupati che a livello internazionale, Italia inclusa. Le azioni intraprese dal governo italiano, in collaborazione con Israele, sollevano preoccupazioni significative riguardo alla protezione dei diritti umani e alla legittimità della resistenza palestinese nel contesto del diritto internazionale.
Ed è così che, nel pieno dispiegarsi della violenza colonialista israeliana, un fronte di diretta repressione della resistenza palestinese si apre anche sul territorio italiano. A gennaio l’Italia riceve una richiesta di estradizione da parte del suo alleato: Israele vuole Anan Yaeesh, residente in Italia dal 2019 con lo status di protezione umanitaria: un palestinese di Tulkarem che per la sua partecipazione alla seconda intifada ha già scontato il carcere e subìto gravi ferite provocate da un agguato delle forze speciali israeliane, in quello che a tutti gli effetti è stato un tentativo di esecuzione extragiudiziale. I giudici della Corte d’Appello de L’Aquila rigetteranno, a marzo, la richiesta di estradizione per «la concreta possibilità che [nelle carceri israeliane] venga sottoposto a tortura» ma, non a caso il giorno prima dell’udienza, e solo dopo aver acquisito informazioni (con macroscopiche forzature procedimentali), scatta un ulteriore mandato di arresto nei confronti di Anan e dei suoi coinquilini, Ali Irar e Mansour Doghmosh, che, per presunte azioni di resistenza nei Territori Occupati, si trovano quindi da marzo scorso nelle carceri italiane con l’accusa di associazione con finalità di terrorismo internazionale (art. 270-bis c.p.). Arresti evidentemente politici: frutto della fedeltà che ciecamente lo Stato italiano continua a serbare nei confronti di Israele, nonostante gli evidenti crimini umanitari degli ultimi otto angosciosi mesi abbiano (finalmente!) palesato agli occhi di tutti i cittadini del mondo l’insopportabile e pluridecennale pulizia etnica della Palestina. Arresti infami volti a criminalizzare la resistenza in Palestina, in spregio dello stesso diritto internazionale che riconosce il diritto all’autodeterminazione e alla resistenza, anche armata, nei territori sotto occupazione, come è quello palestinese. Il processo ad Anan per la sua rivendicata appartenenza alla Brigata Tulkarem è un processo alla resistenza. Non si tratta di un piano puramente giuridico, non lo è mai stato. Si tratta di un messaggio politico: per dimostrare la propria lealtà a Israele, l’Italia è disposta a replicare sul proprio territorio la repressione che i sionisti portano avanti in Palestina contro il popolo palestinese. Anan però è semplicemente un uomo che ama profondamente la propria terra e che è disposto a sacrificarsi per vederla finalmente libera, per vederla in pace: non può essere processato per questo! Gli arresti di Anan, Ali e Mansour purtroppo non stupiscono, rappresentano piuttosto un ulteriore passaggio della più grande manovra di criminalizzazione e demonizzazione della resistenza palestinese e del movimento internazionale di solidarietà. Mentre i media non perdono occasione per manipolare gli eventi bellici, adottando un approccio antistorico, compromettendo così la comprensione politica dei fenomeni resistenziali in genere e quello della resistenza palestinese in particolare, in Italia le istituzioni democratiche conducono un’ampia campagna repressiva del movimento per la liberazione della Palestina. Si presentano disegni di legge che equiparano antisionismo e antisemitismo, si aprono procedimenti disciplinari contro docenti che hanno osato parlare di Palestina a scuola, si considera penalmente perseguibile la sola partecipazione a manifestazioni e presìdi, si manganellano gli studenti medi e universitari che pretendono la fine delle collaborazioni accademiche con l’industria bellica, si imputano reati associativi per terrorismo e si revoca lo status di rifugiato politico per semplici “post” sui social network, così come accaduto all’educatore Seif Bensouibat. Inoltre la scorsa settimana, con grande sollecitudine, è stata fissata all’11 luglio l’udienza in Cassazione in cui verrà discusso il ricorso contro le misure cautelari.
Anche in virtù di questa nuova scadenza si rende ancor più necessario e urgente costruire una mobilitazione contro questa campagna repressiva. L’ingiusta carcerazione di Anan, Ali e Mansour è estremamente allarmante: può aprire le porte a una diffusa persecuzione dei palestinesi anche in territorio italiano ed estremizzare la già diffusa criminalizzazione di chiunque si batta per la propria autodeterminazione. Il processo alla resistenza palestinese è uno dei tanti tasselli dello scenario di guerra a cui l’Italia e l’Unione Europea partecipano attivamente. La resistenza non si arresta! La resistenza non si processa!