Calabria

[Reggio Calabria] L’ipocrisia delle condoglianze istituzionali o delle parole ad effetto

Né nuove tende, né un centro di accoglienza lager possono essere considerati una soluzione all’ormai cronico problema dell’accoglienza dei braccianti nell’area di San Ferdinando.

Tanto meno è accettabile che l’unica preoccupazione istituzionale sia la tutela della zona Zes di recente costituzione, mentre i progetti di accoglienza diffusa rimangono solo sulle carte dei protocolli e oltre 35mila alloggi (confermati dall’Istat) in zona rimangono sfitti.

A otto anni di distanza dalla rivolta di Rosarno, che ha chiarito anche a chi per anni ha fatto finta di nulla la drammatica realtà che vivono i braccianti della Piana, sfruttati nelle campagne e marginalizzati nei centri abitati, Prefettura, Regione, Comuni interessati e persino il Governo con il suo commissario straordinario, nominato proprio per gestire S. Ferdinando, continuano a parlare di emergenza.

Ma la drammatica situazione della Piana è una cronica piaga dell’umanità e della democrazia, che ciclicamente degenera in tragedia. L’ipocrisia delle condoglianze istituzionali o delle parole ad effetto, non può nascondere la realtà. Sono state le politiche istituzionali a favorire la creazione di un vero e proprio ghetto nella zona industriale di San Ferdinando, lontano da qualsiasi tipo di commercio o servizio. Quella tendopoli – è utile ricordarlo – è l’erede di quella nata come “soluzione temporanea” ben 8 anni fa, per ospitare “temporaneamente” i braccianti che prima vivevano nei centri abitati. Da allora, nulla è cambiato. Le tende, divenute baracche di stracci, hanno continuato a crescere, gonfiarsi e svilupparsi, in assenza delle condizioni minime di vivibilità. Nel ghetto, la corrente elettrica arriva solo grazie a fortunose connessioni ai pali della luce, non c’è acqua calda, né servizi, ci si scalda attorno ai fuochi o ai fornelletti a gas.

Nella tendopoli, nella stagione delle arance sono ammassate oltre 2mila persone, sfruttate nei campi da caporali che li scelgono ogni mattina agli incroci come bestie al mercato, e condannati a vivere in condizioni inumane. Ma questi uomini e queste donne non sono fantasmi.

Più di trecento di loro hanno regolare contratto di lavoro, che prevede che le aziende agricole forniscano loro vitto e alloggio, e più di mille sono iscritti all’anagrafe di San Ferdinando. In più, nella tendopoli hanno trovato riparo anche un numero imprecisato di richiedenti asilo, ostaggio di una burocrazia pachidermica e miope che li condanna a lunghe attese, senza offrire loro alcun tipo di assistenza. Gente come Becky Moses, arrivata al ghetto di San Ferdinando perché “espulsa”, a causa della burocrazia, dal Cas di Riace in cui si stava ricostruendo una vita e morta bruciata.

Sono queste le condizioni che hanno portato alla trasformazione della “tendopoli temporanea” in una sacca di disagio ed emarginazione sociale, consolidata dalle gerarchie che nel tempo si sono consolidate nel campo e di cui i braccianti sono ostaggio. Si tratta di una situazione che sta bene a ‘ndrangheta e padroncini, che nell’esercito dei senza diritti trovano braccia per lavorare ai limiti dello sfruttamento, ma forse anche alle istituzioni, che sembrano aver delegato il controllo del ghetto ai pochi che lì vi gestiscono commerci illegali, prostituzione e piccoli traffici.

Solo quando l’ormai cronico quadro di emarginazione sociale degenera in un evento eclatante, le istituzioni si muovono. L’anno scorso, dopo l’omicidio di Sekiné Traorè, ucciso da un proiettile sparato da uno di quei carabinieri chiamati in soccorso dagli stessi migranti per sedare una rissa, la Prefettura ha avviato le procedure per la costruzione di una nuova tendopoli. E per di più per soli 550 dei 2mila migranti all’epoca presenti nell’area. Quest’anno, dopo la morte di Becky Moses, la risposta della prefettura è tende e ancora tende. Ma questa non è una soluzione e gli eventi tragici degli ultimi otto anni lo hanno ampiamente dimostrato. Tale testarda cecità istituzionale sembra ispirata dalla volontà di nascondere più che risolvere il problema. Sarà magari perché in periodi prossimi a scadenze elettorali non si vuol smettere di solleticare la pancia a chi considera le migrazioni un problema e non una risorsa? In Calabria, esperienze come quella di Riace e degli altri Comuni in cui da tempo si pratica l’accoglienza diffusa, dimostrano esattamente il contrario.

Ma per metterle in pratica serve il coraggio politico e sociale necessario per spezzare la catena di connivenze costruita da chi specula sui braccianti e sui migranti senza diritti. Il coraggio che nessuna delle istituzioni che oggi si dovrebbe occupare di San Ferdinando sembra avere. Loro e soltanto loro è la responsabilità dell’agghiacciante situazione nella tendopoli, che dopo l’incendio non può che degenerare.

Esempio ne sia quanto avvenuto qualche giorno fa ai reporter di La7, Dominella Trunfio e Franco Cufari, aggrediti da un abitante del ghetto e difesi da molti altri. A loro, che paradossalmente con il proprio lavoro hanno denunciato ingiustizie e discriminazione, e a tutta la comunità di migranti che in queste ore viene messa sotto accusa strumentalizzando la vicenda va la nostra piena solidarietà.

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