Non sappiamo se la misura di cui parliamo finirà davvero nella legge di bilancio: il governo del cambiamento d’opinione quotidiano è così allo sbando che dalla sera alla mattina cambiano le decisioni. Ad ogni modo, la novità presentata oggi sulle pagine del Sole 24 Ore – e successivamente ridiscussa, per le proteste dei costruttori – la dice lunga sulla direzione del Governo, e sulla sciatteria con cui lavora. Nel maxiemendamento alla legge di bilancio, il Governo giallo-verde vorrebbe inserire un meccanismo di bonus-malus per l’acquisto di nuove auto. In pratica sono previsti degli incentivi fino a 6000 euro per l’acquisto di nuove auto elettriche, ibride, oppure a metano o a diesel di piccola cilindrata e basse emissioni, mentre per le altre auto, a diesel o a benzina, con un livello più alto di emissioni, sono previste tasse da 150 a 3000 euro. A denunciare il carattere elitario – nonché bislacco – del provvedimento è Marco Stella, “compagno” AD della Dierre di Maranello e presidente dell’Anfia, associazione componentisti delle industrie del settore automotive. Sulla base dei dati relativi alle immatricolazioni dell’anno che sta terminando, a ricevere l’ecobonus sarebbero 120000 vetture, mentre circa un milione sarebbero tassate. In particolare, sottolinea Stella, a ricevere il bonus sarebbero coloro che possono acquistare vetture il cui prezzo varia da 30.000 a 100.000 euro; l’auto più acquistata in Italia, invece, la Panda prodotta a Pomigliano (10.000 euro il prezzo all’incirca) sarebbe tassata tra 400 e 1000 euro, anche nella sua versione a metano. L’aspetto bislacco, sempre denunciato da Stella, è che praticamente nessuna delle auto incentivabili è prodotta in Italia: un vero e proprio provvedimento suicida, che mortifica ulteriormente il già agonizzante mercato dell’auto e danneggia anche chi lavora sul territorio nazionale, la cui produzione verrebbe ulteriormente mortificata. Se ciò non bastasse, ci sarebbe da ritenere che nessuno, al governo, in questi giorni abbia gettato un occhio su ciò che sta succedendo in Francia, dove proprio una tassa “ecologica” sui carburanti, quindi su coloro che abitano nelle periferie e sono costretti a prendere l’auto anche per andare a lavorare, ha scatenato un movimento di protesta che non accenna a fermarsi.
Mentre il cosiddetto “reddito” e la cosiddetta “quota 100” si allontanano sempre più, restano i condoni fiscali, le mini flat-tax sulle partite IVA, le conferme degli incentivi per l’acquisto di beni per le imprese, tutte misure a vantaggio del profitto e della rendita. Verso il lavoro e il welfare ci sono, invece, provvedimenti contrastanti: da un lato un numero consistente di assunzioni – in parte un atto dovuto e previsto da anni, ma rispetto al quale dovremo aspettare i vari bandi – e, se confermata, la fine del blocco del turn over nelle pubbliche amministrazioni; dall’altro, i tagli al fondo ordinario per l’istruzione, gli scarsi o nulli aumenti di spesa sanitaria, i tagli maquillage alle spese militari.
È presto per fare i conti: dopo aver fatto gli spavaldi sui media, Di Maio e Salvini sono tornati a cuccia di fronte alle minacce di procedura di infrazione ricevute dall’UE, e stanno trattando per abbassare ulteriormente – oggi si parla del 1,9-2% – il già ridotto rapporto deficit/PIL inizialmente programmato al 2,4% (che non era per nulla espansivo, essendo in linea con quello degli ultimi anni).
La direzione della manovra, comunque, è chiara, nella sua confusione:
non c’è traccia di provvedimenti reali a difesa di lavoro e salari;
è stato cancellato ogni impegno concreto a favore dell’ambiente, con il sì a quasi tutte le grandi opere inutili – dal TAP al TRIV – e il balbettio grillino sul TAV;
sono sogni sempre più lontani il reddito e la pensione;
fioccano conferme e rassicurazioni a padroni, padroncini, grandi evasori fiscali e chi più ne ha più ne metta.
Una Confindustria sempre più piccola e sempre più affamata ha protestato contro questo governo perché non ne ha mai abbastanza e teme gli effetti concreti delle manovre speculative, mentre il fronte del lavoro tace o balbetta, e non riesce ad unire le tante piccole vertenze in atto.
Potere al Popolo!, nel suo piccolo, c’è: l’8 Dicembre a Torino, Venosa, Giugliano, in Veneto per dire no alle grandi opere inutili e sì alle piccole opere utili, ai trasporti di prossimità, agli investimenti in sanità e istruzione; il 15 a Roma, con le lavoratrici e i lavoratori immigrati, per dire ancora una volta NO all’infame decreto sicurezza ed unire concretamente le lotte degli sfruttati. Noi abbiamo scelto da che parte stare, e tu? Which side are you on?