della Camera Popolare del Lavoro Napoli
La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime le disposizioni del decreto targato Renzi in materia di computo dell’indennizzo sanzionatorio in caso di licenziamento ingiustificato: in pratica, dicono i giudici, non si può stabilire a monte quanto costa licenziare un lavoratore, sulla base dell’anzianità, ma la decisione dev’essere presa dai giudici. La critica si è abbattuta, quindi sia sulla versione renziana del decreto, che prevedeva un indennizzo massimo pari a 24 mensilità, sia sulla versione giallo-verde varata col cd. Decreto Dignità che ha portato il limite a 36 mensilità. Restano invece valide tutte le limitazioni relativa alla casistica per cui è ancora prevista la reintegra della lavoratrice o del lavoratore.
Cade, quindi, una presunta “conquista” della parte grillina della maggioranza, e contemporaneamente si mette in evidenza come, in materia di diritto del lavoro, i governi passati e presenti abbiano viaggiato con l’acceleratore a tavoletta, forzando i limiti imposti dalla Costituzione ogni volta che era possibile, nel consenso generale. È significativo, ma non stupisce, che un rilievo del genere, anche piuttosto facile, non sia stato mosso non diciamo da noi, dal popolo che pure contro il Jobs Act ha dato battaglia, ma da chi è teoricamente garante della Costituzione, il Presidente della Repubblica che all’epoca non era più Napolitano, ma l’ “istituzionalissimo” Mattarella. La sentenza, dunque, pur non avendo particolari conseguenze positive sul piano pratico, ha il merito, come altre nel passato, di “disvelare” la tensione continua al sovvertimento delle garanzie costituzionali al quale gli ultimi venti, trent’anni ci hanno abituato. Ma c’è dell’altro. Ad essere messo in discussione è il principio per cui il padrone deve sapere dall’inizio quanto gli costa un lavoratore e quanto gli costerà licenziarlo, principio che aveva pure fatto diminuire le cause in tribunale: se già so quanto ti devo dare che andiamo a fare dal giudice? ti do la cifra, magari un po’ di meno, e te ne vai a casa!
Viene meno, insomma, uno degli elementi fondamentali delle teorie dell’oscuro Pietro Ichino, vero padre del Jobs Act e acerrimo nemico dei diritti di chi lavora, e cioè che l’azienda debba essere in grado, a monte, di determinare col massimo grado di precisione la spesa per il lavoro, ivi compresa quello da sostenere per l’eventuale licenziamento. Rimettendo la scelta ai giudici si lasciano nell’indeterminatezza entrambe le parti in causa, ma viene quantomeno ribadito che il licenziamento ingiustificato non può essere “normalizzato” attraverso una banale funzione aritmetica che ne determini il costo.
Per tutto il resto, a partire dal ripristino della reintegra, non ci sono sentenze che tengano: le uniche possibilità di cambiamento risiedono nella ripresa del conflitto sociale nel Paese e nei luoghi di lavoro, come del resto dimostrano i diversi contratti firmati dopo il 2015 che, grazie alla forza di lavoratrici e lavoratori, prevedono la disapplicazione delle modifiche all’art. 18 introdotte dalla Fornero e da Renzi. Tristemente, aggiungiamo, non servono a nulla nemmeno i voti dati a maggioranze di un presunto “cambiamento”: senza la reale intenzione di fare gli interessi delle masse popolari, le mirabolanti parole spese dai 5 Stelle in campagna elettorale si sono trasformate nel titolo di una bella canzone di Franco Ricciardi: “Prumesse mancate!”