Il reddito di cittadinanza (RDC), nonostante le tante criticità, ha costituito sia un’importante misura di sostegno contro l’indigenza, permettendo a circa 450 mila famiglie di uscire da una condizione di povertà assoluta, sia una misura di lotta aumentando il potere contrattuale dei beneficiari sul mercato del lavoro.
Sin dalla sua introduzione, questo provvedimento è stato oggetto di un feroce attacco politico delle forze parlamentari sia dell’attuale maggioranza che di una parte dell’opposizione. L’attacco ha mirato sia ad etichettare i beneficiari come “fannulloni che sfruttano la possibilità di avere un sussidio pubblico per evitare di lavorare” sia a riportare continuamente il costo elevato della misura sulle finanze pubbliche.
Il primo attacco ha finito con l’invertire la relazione causale tra la richiesta del sostegno pubblico e la ricerca di lavoro dato che è la bassa probabilità di trovare un lavoro regolare, stabile e adeguatamente retribuito ad aumentare la domanda di un sostegno al reddito, non il contrario. Il secondo attacco ha puntato a mostrare solo i numeri assoluti del reddito di cittadinanza senza paragonarli alla spesa che ogni anno i contribuenti devono affrontare per sostenere il vero fardello del paese: la classe imprenditoriale. Infatti, a fronte di un impegno economico da parte dello stato di meno di sette miliardi nel 2023, meno dello 0.4% del Prodotto Interno Lordo (PIL), per il reddito di cittadinanza, la spesa elargita per far fronte alle “esigenze” della classe imprenditoriale è stata più di 55 miliardi, più del 3,1% del PIL, nello stesso anno.
Sebbene le tesi che hanno spinto all’eliminazione del sussidio sostituendolo con due misure peggiorative, assegno di inclusione (ADI) e supporto formazione e lavoro (SFL), non rispecchiano alcun criterio di oggettività, l’offensiva anti-reddito da parte di un ampio spettro politico e di molti media mainstream asserviti al potere liberista ha generato forte indignazione, caratterizzata da forti venature classiste, spesso degenerato in una sorta di pregiudizio verso le aree più povere del Paese.
LA SITUAZIONE ATTUALE
L’offensiva politica si è successivamente concretizzata nell’eliminazione del reddito di cittadinanza da parte dell’attuale governo, il quale ha suddiviso, in maniera completamente arbitraria, la platea dei beneficiari in due distinte categorie: “non occupabili” ed “occupabili”.
I “non occupabili” sono nuclei familiari con componenti disabili, minorenni o ultrasessantenni che possono fare domanda per ricevere l’Assegno di Inclusione, il diretto discendente del reddito di cittadinanza con un peggioramento sia in termini di durata che in termini economici. Nei primi mesi del 2024, le domande per l’ADI sono state la metà di quelle inviate annualmente per ottenere il reddito di cittadinanza, passando da circa tre milioni di beneficiari ad un milione e mezzo secondo il rapporto di luglio 2024 pubblicato dall’Osservatorio sull’assegno di inclusione dell’INPS. Questo dato, probabilmente, risente dei requisiti patrimoniali più restrittivi, sottoforma di una diversa scala di equivalenza, e della recente spinta inflazionistica che ha portato a un lieve aumento dei redditi (inferiore al tasso di crescita dei prezzi dei beni di consumo), causando l’esclusione di chi, in questo modo, ha superato la soglia minima del valore ISEE.
Due gruppi sono esemplificativi del passaggio peggiorativo dal RDC all’ADI: le famiglie monogenitoriali con un figlio a carico e i single. Per quanto riguarda il primo gruppo, il governo ha riparametrizzato verso il basso l’ammontare del sostengo per le famiglie monogenitoriali, mentre ha riparametrizzato verso l’alto il sostegno per le famiglie bigenitoriali con più di due figli a carico. Questo cambiamento nella scala di equivalenza va a colpire principalmente le donne con un figlio a carico costringendole ad accettare lavori “cattivi” per compensare la perdita integrale o parziale del sussidio. Per il secondo gruppo, i single vengono automaticamente esclusi dalla possibilità di percepire l’ADI. La privazione di questo diritto limiterà la probabilità di emancipazione per gli individui che vivono da soli e li spingerà a rientrare nei precedenti nuclei familiari o a crearsene uno nuovo per sostenersi.
Un altro dei principali limiti della riforma introdotta dal governo Meloni consiste nella decisione di escludere da tale platea i soggetti considerati “occupabili”, coloro che non rientrano nei requisiti per fare domanda di ADI. Questi ultimi possono fare domande per Supporto per la Formazione e il Lavoro, un contributo economico condizionato alla ricerca attiva di opportunità lavorative.
Il beneficio in questione prevede requisiti di accesso ancora più stringenti (legati in questo caso al singolo componente del nucleo familiare) e consiste in un sussidio di appena 350 € mensili per 12 mesi in tutto l’arco della vita; come se la situazione di indigenza non potesse superare l’arco temporaneo di un anno.
Questa misura è legata alla partecipazione a politiche attive, come ad esempio l’iscrizione da un corso di formazione, a seguito di un colloquio obbligatorio presso i Centri per l’Impiego (CPI) o all’affidamento ad un’Agenzia per il lavoro (APL). Purtroppo, molti beneficiari, soprattutto in alcune regioni, non riescono a percepire effettivamente tutte e 12 le mensilità e comunque difficilmente in modo continuativo. Molto spesso, infatti, ci sono difficoltà ad attivare i corsi di formazione, la presa in carico da parte dei CPI e delle APL non è sempre continuativa e le politiche attive da proporre sono purtroppo limitate. Tutto ciò finisce per limitare la durata effettiva del beneficio che, in molte occasioni, non supera i tre o quattro mesi.
L’impianto complessivo della riforma risente, quindi, in misura sostanziale, dell’applicazione del criterio dell’“occupabilità”, collegato a parametri completamente slegati dalle caratteristiche del mercato del lavoro. Ciò è confermato dai dati relativi alla platea dei soggetti beneficiari: parliamo, infatti, di soggetti che, nella maggior parte dei casi (circa il 60% dei beneficiari) superano i 40 anni e possono contare un livello d’istruzione molto basso (solo il 30% va oltre la scuola dell’obbligo); infine, buona parte dei percettori risiedono nelle aree del Paese con un tasso di disoccupazione più elevato (oltre il 65% degli stessi vive nel Mezzogiorno). Alla luce di tali dati, è evidente come, nel complesso, siamo di fronte a soggetti difficilmente collocabili nel mondo del lavoro.
L A NOSTRA PROPOSTA
Per i motivi appena ribaditi, è necessario, quindi, andare oltre la contrapposizione tra soggetti “occupabili” e soggetti “non occupabili” che rimarca delle definizioni collegate principalmente alla definizione neoclassica della produttività degli individui. Simili categorie non sono giustificabili dato che le loro definizioni rientrano in quei concetti astratto-filosofici di stampo liberale ma che vengono pubblicizzati come verità assolute sia da un ampio spettro dell’arco parlamentare e sia da molti media nazionali.
Per superare le attuali categorie normative liberiste, la platea dei soggetti indigenti può essere suddivisa, approssimativamente, in quattro sub-categorie che ci permettono di identificare le politiche pubbliche da attuare per superare la loro condizione di indigenza:
- Molti percettori del SFL sono considerati, per definizione, soggetti “occupabili” ma, considerando le loro caratteristiche essenziali (sesso, età, titolo di studio, varie forme di disagi, precedenti esperienze lavorative e livello della disoccupazione nel territorio dove vive), molto difficilmente possono essere prese in considerazione da imprese private, che potrebbero preferire assumere altri concorrenti che, per varie ragioni, garantiscono maggiori garanzie di produttività (es. giovani, stranieri e, in generale, tutti quei soggetti disposti ad accettare condizioni di lavoro estremamente sfavorevoli).
Il discorso, ovviamente, cambia completamente se prendiamo in considerazione lo Stato (in tutte le sue articolazioni) in qualità di soggetto economico attivo. Le politiche pubbliche possono superare la ricerca immediata del profitto a breve termine per concentrarsi su altri scopi da raggiungere.
Per lo Stato potrebbe essere conveniente assumere un disoccupato, piuttosto che limitarsi all’erogazione di un sussidio economico; anche qualora non si riscontrasse tale vantaggio, un ente pubblico può ritenere che la creazione di un posto di lavoro dignitoso risponda a un interesse prevalente rispetto a considerazioni di natura contabile.
Le situazioni devono essere, dunque, valutate caso per caso, ma lo Stato dovrebbe porsi l’obiettivo di assumere tutti i soggetti che possono, in qualche modo, essere contribuire al soddisfacimento dei bisogni collettivi.
Pertanto, ogni volta che è possibile (nel concreto) inserire un disoccupato in un processo lavorativo, lo Stato deve intervenire in maniera diretta, attraverso un piano di assunzione capace di coinvolgere anche i soggetti che oggi accedono agli istituti sopra esaminati.
Un intervento del genere deve necessariamente adattarsi alla composizione del bacino di riferimento, adottando criteri oggettivi legati, ad esempio, all’anzianità contributiva e alla situazione economica valutabile, ad esempio, tramite il valore dell’ISEE.
A tal proposito, va rilevato che, allo stato attuale, è previsto il meccanismo introdotto dall’art. 16 della Legge 56/87 che disciplina l’assunzione nel pubblico impiego di lavoratori che non sono andati oltre la scuola dell’obbligo. Questa possibilità non ha avuto larga attuazione. Nell’ambito di un più vasto piano di assunzioni potrebbe essere utile rivedere quest’istituto, adattandolo a un mercato del lavoro profondamente cambiato, ma è possibile anche immaginare altri tipi di intervento per inserire nel mercato del lavoro soggetti che presentino le caratteristiche tipiche della platea interessata. In Francia, ad esempio, è stato avviato, ormai da molti anni (in alcuni territori), il progetto “Territoires zéro chomage” che risponde proprio all’esigenza di impiegare i disoccupati per la realizzazione di lavori socialmente utili.
Nei casi in cui non è possibile, in alcun modo, inserire un soggetto nell’ambito del processo lavorativo, l’unica soluzione possibile consiste nell’erogazione di una misura unica contro la povertà che vada oltre gli istituti attualmente previsti. Deve trattarsi, infatti, di una forma di sostentamento seria, in grado di far fronte alla crescita dei prezzi dei beni di consumo; un beneficio del genere dovrà basarsi su criteri di accessibilità più favorevoli rispetto alla situazione attuale e la sua durata deve essere legata esclusivamente al permanere dello stato di indigenza.
- Tanti soggetti, invece, non trovano collocazione nel mercato del lavoro per fattori che esulano dalla propria capacità di svolgere alcun tipo di attività lavorativa. Semplicemente, nell’attuale mercato di lavoro le imprese private finiscono per determinare in misura sostanziale i criteri di accesso.
Può, dunque, accadere che un soggetto abbia la possibilità di svolgere una data attività lavorativa e tutta l’intenzione di mettersi all’opera ma, nonostante ciò, non riesca a trovare una collocazione lavorativa. Questo può avvenire, ad esempio, nel corso di una crisi di sovrapproduzione, durante la quale le aziende sono portate a rivedere i propri livelli produttivi (e quindi occupazionali).
Questo caso ci permette di ribaltare il nesso causale tra erogazione di un sussidio e la creazione di un posto di lavoro; secondo questa prospettiva, il responsabile dell’alto livello di disoccupazione non è il lavoratore pigro, ma il mercato del lavoro privato orientato esclusivamente al profitto.
A tal fine, è necessario un vasto piano di assunzioni pubbliche volte, da un lato, a garantire una situazione di piena occupazione e, nello stesso tempo, a rinforzare gli organici di molti enti che hanno subito le conseguenze di un lungo periodo di limitazioni al turn-over.
- È importante, inoltre, prendere in considerazione tutti quei lavoratori che non hanno un lavoro stabile e sono costretti a trovare, di volta in volta, nuovi modi per continuare a sopravvivere. Questa situazione induce questi soggetti disposti, data l’assenza di serie offerte di lavoro, ad accettare pessime condizioni lavorative, che sfociano spesso nel “lavoro nero”, o quanto meno nel “lavoro grigio”.
A tal proposito, è importante capovolgere l’accusa di chi ha provato a vedere in questi lavoratori degli approfittatori che preferiscono lavorare senza contratto per poter continuare a percepire il sussidio.
Questo tipo di ragionamento è servito, spesso, ad alimentare un pericoloso pregiudizio nei confronti delle aree più povere del Paese (Mezzogiorno in primis), senza tener conto che si tratta di regioni caratterizzate (non da ieri) da un’elevata percentuale di lavoro sommerso che non può essere assolutamente addebitata all’istituzione del Reddito di cittadinanza. Un fenomeno del genere si radica facilmente in un territorio contraddistinto da una classe padronale particolarmente arrogante e da forme estreme di povertà (non solo economica).
Per frenare questa tendenza è necessario, in primo luogo, dotare di maggiori strumenti l’Ispettorato del Lavoro, a partire da un rinforzamento dell’organico. Allo stato attuale, le verifiche condotte non sono abbastanza capillari da indurre i datori di lavoro a modificare i propri comportamenti.
Una sistematica azione di contrasto al lavoro sommerso sarebbe sicuramente osteggiata anche da buona parte della piccola e media borghesia, ma su questo dobbiamo essere chiari: non possiamo permettere che imprese improduttive sopravvivano solo grazie a ingenti aiuti pubblici e alla tolleranza di uno Stato che si disinteressa dei piccoli e grandi abusi.
- Un cospicuo numero di lavoratori può contare, invece, su un regolare contratto di lavoro, magari anche full-time a tempo indeterminato, ma la sua paga è davvero bassa, per cui lo stipendio non permette a sé stesso e alla propria famiglia di vivere un’esistenza dignitosa. Siamo di fronte a quello che viene definito “lavoro povero”, un fenomeno che sta crescendo in maniera significativa in molti Paesi, anche grazie all’importanza assunta dal settore terziario a basso valore aggiunto.
Questo è un caso completamente differente da quelli indicati in precedenza. In queste situazioni incidono molto le relazioni industriali e la capacità dei sindacati di inserirsi in un percorso di lotta capace di difendere il potere d’acquisto dei lavoratori.
Nel nostro tessuto produttivo molti lavoratori (spesso nel settore dei servizi a basso valore aggiunto) restano esclusi dalla possibilità di avanzare vertenze sindacali, per cui è necessario immaginarsi altri strumenti di lotta in grado di interessare la classe lavoratrice nel suo complesso. Anche per questo motivo noi abbiamo lanciato la campagna per introdurre un salario minimo legale di almeno 10 €/h, facendo leva sulla capacità mobilità dei lavoratori.
Al di là degli interventi sopra indicati, può essere importante utilizzare le misure contro la povertà per aiutare anche questi lavoratori, integrando il loro salario fino a raggiungere un valore “ragionevole”.
Alla luce di queste considerazioni, è evidente come la gestione di una situazione così complessa, che riguarda soggetti spesso molto differenti tra loro, non può essere affidata a soluzioni semplicistiche (spesso ideologiche, simboliche o comunque strumentali alla costruzione di una certa narrazione), come l’arbitraria divisione tra “lavoratori occupabili” e “lavoratori non occupabili”, nel tentativo di stampare un marchio di vergogna, uno stigma nei confronti dei soggetti che non sono stati in grado di trovare un posto di lavoro in pochi mesi, senza portare avanti un ragionamento sul funzionamento di un mercato del lavoro che esclude sistematicamente alcune categorie di persone.
Nel concreto, in assenza di un intervento diretto dello Stato, il diritto al lavoro, centrale nel nostro impianto costituzionale, resta un impegno programmatico che non trova una realizzazione pratica nell’attuale sistema economico. Una piena realizzazione del diritto al lavoro è inscindibile da un aumento del potere contrattuale degli individui lavoratori attraverso un sussidio al reddito che esula dalle definizioni strategiche implementate dall’attuale e vecchia maggioranza per aumentare lo sfruttamento dei lavoratori con paghe orarie da fame con o senza contratto di lavoro. Un sostegno al reddito acquisisce tale funzione in un contesto di deterioramento del potere sindacale in molti settori e ad una mancanza di controlli per il rispetto dei minimi contrattuali. In questa ottica, un reddito di base per gli indigenti rappresenta una misura di salario minimo, o anche un salario di riserva, al di sotto del quale i lavoratori non vogliono e non devono lavorare.