Il 23 gennaio 2019 si sono materializzati a Caracas i piani orchestrati in queste settimane a Washington. Guaidò, un semisconosciuto appartenente al partito Voluntad Popular, nominato lo scorso 5 gennaio Presidente della Asamblea Nacional (il Parlamento venezuelano, ritenuto illegittimo dal Tribunal Supremo de Justicia per aver incorporato tre parlamentari accusati di aver comprato voti), si è autoproclamato legittimo presidente del Venezuela. Pochi minuti ed è arrivata l’investitura ufficiale di Trump, dopo che già il giorno precedente era giunta quella del suo vice, Mike Pence.
Ancora pochi minuti e si sono uniti al coro Ivan Duque e Jair Bolsonaro, presidenti della Colombia e del Brasile. A seguire, Guaidò è stato riconosciuto anche da altri paesi latinoamericani, quelli del Gruppo di Lima, creato pochi mesi fa proprio in funzione antibolivariana, e anche da alcune delle icone della “sinistra” nostrana, come il primo ministro canadese Justin Trudeau. Tutto secondo gli schemi.
Siamo dunque arrivati a un punto di non ritorno, l’annuncio del golpe contro Maduro e contro il chavismo. Si tratta ora di capire quali forme assumerà la sua materializzazione. “Tutte le opzioni sono sul tavolo” hanno dichiarato sia Trump che Guaidò. Significa che anche la carta dell’invasione armata non è esclusa. Anzi, sono sempre più numerosi quanti, dal campo dell’opposizione, invocano apertamente l’intervento straniero per sovvertire dei rapporti di forza che, all’interno del paese, li vedono al momento perdenti.
Alla faccia dei “patrioti”. Potranno provare a giocare la carta dell’“incidente” alla frontiere con la Colombia, con l’obiettivo di creare il “casus belli”. Potranno provare a convincere settori delle Forze Armate a tradire la Uniòn Civico-Militar, a tradire il processo bolivariano e a passare dalla parte dell’opposizione. Ci hanno provato più volte in questi anni (il caso più famoso, eccezion fatta per il golpe del 2002, è quello di Oscar Pérez del giugno 2017), l’ultima con l’insubordinazione di lunedì 21 gennaio a Cotiza, stroncata con l’arresto di 27 militari e senza spargimento di sangue.
A questi tentativi ha risposto il Ministro della Difesa Vladimir Padrino Lopez, che nelle ultime ore ha dichiarato che “non accettiamo un presidente imposto all’ombra di oscuri interessi e autoproclamato al di fuori della legge. La Fuerza Armada Nacional Bolivariana difende la nostra costituzione ed è garante della sovranità nazionale.”
Potranno provare a riattivare la violenza di piazza, le “guarimbas”, che hanno già seminato morte nel 2017 e che hanno fatto nuovamente la loro comparsa nelle ultime ore. Si tratta di atti che vengono presentati, con un uso spregiudicato dei social network, come spontanei; in realtà si tratta di azioni organizzate, programmate, attivate da gruppi armati – spesso delinquenti pagati. I manifestanti denunciano la “dittatura” chavista.
Una dittatura ben strana quella che ha permesso anche lo stesso 23 gennaio di sfilare liberamente a migliaia di oppositori. L’obiettivo delle “guarimbas” e delle manifestazioni di piazza è abbattere il morale dei chavisti e, all’opposto, dare forza alla destra.
Le ipotesi sono tante e nessuna va esclusa. Non lo fa il nemico (“Tutte le opzioni sono sul tavolo”, ricordiamolo), non possiamo farlo noi. Per la terza volta in cinque anni la destra va all’assalto del potere in Venezuela. Spesso ha sottovalutato la forza del chavismo che, malgrado le difficoltà economiche che si vivono nel paese, ha mostrato di essere il progetto storico cui è aggrappata tenacemente gran parte delle classi popolari.
Una forza reale, che ha saputo affrontare con intelligenza e con l’individuazione di soluzioni democratiche anche i momenti più duri, quelli che avrebbero fatto cadere preda della disperazione tante e tanti.
In questa fase gioca un ruolo preminente il piano internazionale. Poco dopo il golpe di Trump, Maduro ha dato 72 ore di tempo ai funzionari statunitensi per lasciare il paese. Il Venezuela, infatti, ha deciso che quando è troppo è troppo e ha annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Passino le sanzioni, passi l’esser considerati “una minaccia inusuale e straordinaria” dall’amministrazione Obama, ma un golpe è superare ogni limite.
Intanto la Repubblica Bolivariana ha incassato il sostegno della Bolivia, della Russia e, novità positiva, del Messico del neo-presidente Lopez Obrador (AMLO), per citare tre degli esempi più significativi. Per contro, ogni governo ulteriore che rinoscerà Guaidò come presidente del Venezuela sarà una pallottola in più nelle mani dei golpisti.
Per questo è fondamentale che la solidarietà internazionale si faccia sentire. Che imponga ai governi di ricercare il dialogo, di rispettare il diritto internazionale e, soprattutto, la volontà di un popolo che ha mostrato un attaccamento incredibile alla democrazia partecipativa e “protagonica” che ha saputo costruire in questi vent’anni, nel mezzo di millecontraddizioni.
Il 12 aprile 2002 l’allora presidente statunitense Georg W. Bush riconosceva Pedro Carmona Estanga, leader della Confindustria venezuelana, come legittimo presidente venezuelano, dopo il golpe dell’11 aprile contro Chàvez. L’indomani, 13 aprile 2002, Chàvez fu riportato al palazzo presidenziale di Miraflores dal popolo venezuelano e da ampi settori dell’esercito, rimasti fedeli alla rivoluzione bolivariana. Carmona fu messo agli arresti.
17 anni dopo quegli eventi gli USA ci riprovano, col solito codazzo di governi servili. L’assedio diplomatico si stringe e siamo noi stessi chiamati in causa perché l’appoggio dei nostri paesi a Guaidò significherebbe l’appoggio a un colpo di Stato. Non rendiamoci complici di questo crimine. Non restiamo in silenzio. Non si può stare alla finestra.
Con la rivoluzione bolivariana!