«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», affermava Tancredi ne Il gattopardo.
Con le norme di modifica dell’Esame di Stato conclusivo della scuola superiore, il governo giallo-verde dimostra – ancora una volta – di sapere interpretare benissimo le parole di Tomasi di Lampedusa. Si ostenta il vessillo del cambiamento, ma di fatti si praticano le medesime politiche dei governi precedenti.
Approdati al governo anche sulla spinta dei movimenti di protesta contro la “Buona scuola” di Renzi, gli esponenti della maggioranza Lega-5 Stelle si pongono in totale continuità con il processo di asservimento dell’istruzione pubblica alle esigenze del mercato. Per comprenderlo è sufficiente osservare come, nel corso degli ultimi mesi, è stato trasformato e svuotato di senso quello che – a livello popolare – ancora è chiamato “l’esame di maturità”.
A giugno 2019 le quasi 470.000 tra studentesse e studenti che si troveranno a cimentarsi con la tappa conclusiva del proprio ciclo di istruzione superiore non troveranno più il tema di Storia tra le possibili opzioni della prima prova scritta, quella un tempo volta ad accertare le capacità di scrittura, argomentazione, rielaborazione, analisi e critica. Non è l’unica novità: anche la tipologia B (il saggio breve o articolo di giornale) viene sostituita da una replica dell’analisi del testo da svolgersi su un passo dal taglio saggistico e non letterario, ambito a cui resta destinata la tipologia A.
Il dicastero del Ministro Bussetti, d’altra parte, così agendo, non fa altro che recepire e ratificare i risultati di un’apposita Commissione di esperti istituita dall’ex ministra Fedeli per riformulare le prove conclusive del primo e secondo ciclo d’istruzione. La continuità con i governi precedenti e con gli obiettivi della Legge 107/2015 non potrebbe essere più lineare.
Ciò che ne emerge è una prima prova scritta che si configura come esercizio di scrittura funzionale, cioè quella propria dei rapporti professionali finalizzati a rispondere a esigenze di tipo pratico e non intellettuale. Assistiamo al trionfo della didattica per competenze, che nessuno – si tratti della maggioranza di governo o del PD – accenna a mettere minimamente in discussione. Questa delle competenze è la beffarda maschera dietro cui si cela la distruzione dei contenuti disciplinari, la mortificazione del senso critico e l’appiattimento dell’apprendimento alla semplice applicazione di tecniche e strategie.
Le seconde prove scritte saranno verifiche miste (latino-greco, matematica-fisica, ecc.) che trovano impreparati, circa la modalità, insegnanti e studenti, visto che le circolari ministeriali sono di recentissima emanazione e nulla precisano a riguardo. Il Ministro Bussetti però ha rassicurato il mondo scolastico, in linea con la pratica politica imbonitrice e da strong motivators del suo governo, affermando che saranno pubblicate delle simulazioni. Forse il Ministro dimentica che l’insegnamento e l’apprendimento sono processi elaborati e seri, che necessitano di sedimentazione e riflessione e non si possono esaurire in semplici simulazioni da svolgere poche settimane prima dell’Esame. Ecco tornare la logica delle competenze, del saper fare, dell’insegnante ridotto ad “addestratore tecnico”: l’apprendimento scolastico però ha tutt’altro spessore rispetto all’acquisizione meccanica di procedimenti, come si fa nelle aziende per testare un nuovo prodotto. Effettivamente il Ministro ha nel suo curriculum anche un diploma di dirigenza pubblica e gestione manageriale del personale e non c’è da stupirsi se le linee guida dei suoi provvedimenti siano quelli tipici di un manager d’azienda che pretende efficacia, efficienza ed obbedienza da parte dei lavoratori, e che così pensa di ridurre insegnanti e studenti a esecutori acritici.
Ma non potevamo aspettarci altro da un governo che include nel suo contratto il «superamento» della legge 107/2017 e però affida l’istruzione pubblica ad un ministro tutt’altro che contrario alla “Buona Scuola”. In una video intervista rilasciata ad aprile 2017 (“SempioneNews”), Bussetti ha dichiarato che la “Buona Scuola” «è un’ottima legge che ha permesso di cominciare a ragionare con un sistema integrato tra mondo del lavoro e scuola». In un’altra intervista del dicembre 2018 ha affermato che il punto di contatto, tra la scuola e il mondo del lavoro, sono proprio le competenze e che, pertanto, l’Alternanza Scuola-Lavoro, che non è stata abolita, ma solo ridotta nel numero di ore, deve basarsi su “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”.
In modo coerente e conseguente a tali affermazioni, il colloquio dell’Esame di Stato si trasforma in un asettico interrogatorio che parte dall’esposizione delle attività di Alternanza Scuola-Lavoro: la tanto decantata riduzione delle ore di Alternanza ha in realtà il suo contrappeso nella centralità che essa assume nell’esame conclusivo. È davvero cambiato tutto, affinché non cambiasse nulla.
Il colloquio prosegue con la scelta, da parte del candidato, di domande per competenze, precedentemente formulate dalla commissione esaminatrice, e inserite in buste chiuse o forse – chissà – in un bussolotto che lo studente-croupier dovrà estrarre! Non c’è spazio per approfondimenti personali, né per far emergere interessi culturali o spunti critici: le studentesse e gli studenti dovranno attenersi rigorosamente all’esposizione rigida dei programmi e dimostrare di aver acquisito competenze utili a diventare nuovi lavoratori precari, se va bene utili impiegati o nuovi disoccupati.
Non va nemmeno dimenticato che la prova Invalsi, diventata obbligatoria per accedere all’esame: sarà inserita nel fascicolo finale dello studente. È abbastanza prevedibile che nei prossimi anni sarà uno degli elementi della valutazione finale.
Continua la lunga marcia verso un sistema di istruzione pubblica ridotto a mero strumento di trasmissione di un sapere anonimo, formalizzato e acritico. Come insegnanti e studenti dobbiamo in tutti modi arginare questa deriva che vorrebbe la scuola piegata alla pressione del dogma utilitaristico, proprio del pensiero neo-liberale: noi vogliamo che il compito principale della scuola sia ancora quello di potenziare ciò che Kant chiamava «l’uso pubblico della ragione», attraverso cui si può trasformare la conoscenza culturale in sapienza e per mezzo del quale è possibile immaginare un orizzonte futuro diverso da quello imposto.
In questo quadro così grigio e mortificante, riteniamo che spetta agli insegnanti, anche contrastando la spinta a trasformarci in burocrati, in docenti-funzionari di uno Stato asservito alla logica di mercato, e agli studenti, opponendosi a un modello di scuola che li vorrebbe come persone omologate, conformi e sottomesse, salvare questo esame con atti di disobbedienza intellettuale e fare in modo che gli studenti e le studentesse possano esercitare la loro ragione e le loro capacità creative e critiche.
Tavolo Scuola di Potere al Popolo.