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Un commento sul “codice rosso” e sulle contraddizioni di questo governo

Contributo del tavolo Genere, laicità e diritti di Potere al popolo

È di qualche giorno fa la notizia dell’approvazione del cosiddetto “Codice Rosso”, ovvero un provvedimento proposto dal governo che punta ad inasprire le pene in caso di reati relativi alla violenza di genere e che intende allo stesso tempo accorciare le tempistiche di indagini e processi. L’idea alla base di tutto il provvedimento secondo i promotori è quella di restituire a reati che vedono le donne come vittime tutta l’urgenza che è stata troppe volte negate dal punto vista politico e legale.

Le principali novità introdotte dal provvedimento riguardano l’accorciamento dei tempi di indagine in caso di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni aggravate avvenute in famiglia o tra conviventi (con l’obbligo di sentire la vittima entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato), l’inasprimento della pena in caso di reati di violenza sessuale, stalking e maltrattamenti in famiglia, e infine l’introduzione di articoli specifici su sfregio, nozze forzate e revenge porn. Sicuramente non possiamo che apprezzare il fatto che simili comportamenti vengano configurati come reati penalmente rilevanti, ricordando che, per esempio, il revenge porn ha causato negli anni moltissime vittime tra le donne che  hanno preferito togliersi la vita pur di non scontare le angherie psicologiche e la violenza gratuita derivante dalla diffusione di video intimi. Riteniamo poi un passo avanti l’estensione dei termini previsti per esporre denuncia in caso di violenza sessuale dai 6 mesi a un anno, essendo consapevoli di quanto può essere difficile per una donna decidere di esporsi in prima persona in tal senso, sapendo troppo spesso che non riceverà tutto il supporto e il sostegno di cui avrebbe bisogno.

Partiamo da qui per presentare, quindi, delle riflessioni: per quanto l’inasprimento delle pene intenda mettere in evidenza la gravità di reati che sono stati troppo spesso “invisibilizzati” e minimizzati nella loro importanza negli ultimi anni, siamo convinti che non basti inasprire le pene per risolvere il problema. Siamo consapevoli che sia importantissimo denunciare, per esempio, in caso di violenza sessuale e fisica, ma se poi la donna che denuncia non viene messa in condizione di tutelarsi concretamente, avendo diritto a un rifugio sicuro,  sostegno psicologico adeguato, a un percorso di inserimento lavorativo in caso di dipendenza economica dal marito o compagno violento, come si può pretendere che questa stessa donna si esponga o continui l’iter processuale? Purtroppo sono già molti i casi di donne che, avendo denunciato  ed essendosi trovate troppo spesso abbandonate a sé stesse, hanno dovuto scontare in prima persona la vendetta dei loro “ex”, rimettendoci spesso la vita. In tal senso, anche l’obbligo di sentire la vittima entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato andrebbe accompagnato dalla messa in protezione della donna stessa, per non parlare poi delle lunghissime tempistiche dei processi che vedono le donne abbandonate a loro stesse in assenza di supporto efficace, e contro cui il codice rosso non introduce, di fatto, nessun cambiamento. Non basta inasprire le pene in sé, occorrono servizi adeguati, occorre riconoscere la violenza di genere come una priorità politica da affrontare su più piani: quello penale sicuramente, ma soprattutto quello sociale ed economico, decidendo di investire in servizi che consentano nel concreto alle donne di ricostruirsi una propria vita e di uscire dalle dinamiche di oppressione e violenza interne al nucleo familiare. E questo non è stato fatto neanche da chi oggi critica il codice rosso come semplice spot, ma che, quando stava al governo, si è ben guardato dall’investire in case rifugio e centri antiviolenza, decidendo, anzi, di comprimere ulteriormente quei servizi che svolgono un ruolo prioritario nella lotta alla violenza di genere.

D’altra parte, poi, non può mancare un lavoro culturale ben più profondo: sappiamo tutti che spesso il personale delle forze dell’ordine e gli stessi giudici e avvocati non hanno una preparazione adeguata e sono i primi a ridimensionare diversi episodi di violenza o a interpretare le stesse leggi in modo tale da mettere ancor una volta le donne sul tavolo degli imputati, come è emerso più volte nei processi per violenza sessuale. In tal senso è fondamentale pensare a corsi di formazione specifica sull’argomento che contribuiscano a cambiare la mentalità diffusa anche tra chi dovrebbe di fatto garantire supporto alle donne che subiscono determinati reati sulla propria pelle. E poi, andando oltre il piano puramente giuridico e penale, occorre fare prevenzione, ovvero parlare di questo tema nelle scuole, con i più giovani, per fornire un’educazione diversa e formare le nuove generazioni a dinamiche relazionali basate sul rispetto reciproco estirpando alla radice l’idea che l’amore debba essere sinonimo di possesso e prevaricazione.

Infine non possiamo fare a meno di notare l’evidente contraddizione che esiste tra i provvedimenti del codice rosso e il disegno di legge Pillon, entrambi frutto di questo governo: che senso ha inasprire le pene in caso di violenza domestica se poi si intende rendere sempre più difficile e problematico il divorzio per le donne che non hanno i mezzi economici per sostenere i costi della mediazione famigliare prevista dal dl Pillon e che sono esposte da questo stesso disegno di legge alla minaccia di vedersi togliere l’affidamento dei figli con lo spauracchio della sindrome di alienazione parentale (i cui presupposti scientifici e medici sono stati, tra l’altro, sconfessati da tempo)? La violenza di genere è una delle vere emergenze di questo paese e come tale va affrontata in modo coerente e serio, pensando a soluzioni reali e concrete che consentano alle donne di liberarsi davvero del controllo di compagni e mariti violenti e di crearsi una vita autonoma  e indipendente avendo accesso a servizi sociali che non le facciano sentire sole e abbandonate a sé stesse e con percorsi di inserimento lavorativo che non le vedano relegate a posizioni sottopagate e precarie costringendole, ancora una volta, a rimettersi alla protezione e sostegno economico di un uomo.

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