Questo documento, frutto del lavoro collettivo delle compagne e i compagni dei nodi di PaP! Alba, Ciriè, Domodossola e Torino, servirà da base di discussione per una iniziativa pubblica in diretta Facebook lunedì 8 giugno alle 20.30, con interventi di USB, CUB, Assemblea 21 (Torino), Fondazione Promozione Sociale, Collettivo Studentesco Antifascista (Alba), Laboratorio Chabas (Alba). Tutti i dettagli dell’iniziativa li trovate qui!
Il Piemonte, partito in sordina, ha gradualmente scalato le classifiche delle regioni italiane più colpite dal Covid-19. Da inizio aprile, in Piemonte l’indice dei positivi ogni centomila abitanti è cresciuto dell’83,1%, contro un incremento nazionale del 31,4%. Mentre chiudiamo il documento, la nostra è stabilmente la seconda regione italiana per numero di contagi, dietro alla sola Lombardia (sono quasi 90.000 i contagi alla fine di maggio).
La gestione di Cirio e Icardi è senz’altro risultata fallimentare, anche nella poco comprensibile emulazione delle scelte lombarde: “la centralità attribuita agli ospedali, così trasformati in focolai di contagio; l’alleggerimento degli ospedali, rapidamente intasatisi, con spostamento dei malati nelle Rsa e conseguente strage degli anziani pazienti; la costruzione alle Officine grandi riparazioni di un ospedale analogo a quello della Fiera di Rho, ultimata proprio quando la pressione sulle strutture ospedaliere iniziava a scemare; la sottovalutazione della risposta territoriale, sino allo scandalo delle centinaia di segnalazioni dei medici di base andate perdute; la mancata fornitura di adeguate protezioni al personale sanitario”. (nota 1)
Crediamo tuttavia, allo stesso tempo, che l’emergenza abbia anche messo a nudo carenze strutturali del sistema sanitario regionale, che rimandano a scelte politiche di lungo corso, portate avanti anche da tutte le giunte regionali precedenti, di centro-destra come di centro-sinistra; in un contesto generale caratterizzato, a partire dal 1992 e con una intensificazione dopo il 2011, da uno smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale istituito nel 1978, avvenuto all’insegna dei principi di aziendalizzazione, privatizzazione e regionalizzazione. (nota 2) Quest’ultima, poi rafforzata con la riforma del titolo V della Costituzione nel 2001 – e di cui l’autonomia differenziata recentemente perseguita con decisione da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna rappresenterebbe l’ulteriore salto di qualità – va letta nel contesto di un forte taglio dei finanziamenti erogati dallo Stato centrale alle Regioni, che dunque devono trovare da sé le risorse per la sanità e ciò le porta fisiologicamente ad aprire spazi agli investimenti privati.
È stato d’altra parte proprio il meccanismo stesso dell’aziendalizzazione della sanità (che dunque diventa soggetta agli stessi meccanismi di qualunque azienda, costretta a puntare sulla propria “competitività” per poter stare sul mercato) e il perverso meccanismo dei vincoli di bilancio, prima ancora di qualunque possibile “inefficienza”, a spingere la nostra regione verso il drastico ridimensionamento della spesa sanitaria. Nel 2010 la Regione, guidata allora da pochi mesi dal leghista Cota dopo 5 anni di presidenza Bresso (PD), deve firmare il cosiddetto Piano di rientro, che prevede un contenimento dei costi per 162 milioni nel 2013 e, in modo cumulativo, di 248 milioni per il 2014 e 360 per il 2015.
Decisive risultano le politiche nazionali nel frattempo introdotte, in particolare dal governo Monti, che impone, in ossequio ai diktat dell’austerità europea (si veda il pareggio di bilancio inserito direttamente in Costituzione), tagli draconiani agli ospedali, ai posti letto, alla medicina territoriale e al personale sanitario. Negli anni successivi proseguono naturalmente i tagli alla sanità che si vede sottratti, come documentato recentemente dalla Fondazione Gimbe, 37 miliardi negli ultimi 10 anni. Tra il 2011 e il 2013 elementi nazionali influiscono su una regione già in piano di rientro, in particolare “il d.l. 95/2012 (conv. l. 135/2012) e il d.l. 158/2012 (conv. l. 189/2012), i quali offriranno un impulso decisivo specificamente alla revisione della rete ospedaliera (posti letto) e territoriale (cure primarie), senza considerare altri aspetti non minori come ad esempio le norme sull’acquisto di beni e servizi” (vedi pag 17 del link). Tali indicazioni vengono effettivamente recepite dalla successiva giunta Chiamparino (PD), che nel 2014-2015 provvede di fatto a una riforma strutturale della sanità regionale. (vedi pp 19-20 del link)
I risultati? Tra il 2010 e il 2017, il personale sanitario è sceso di oltre 3.800 unità (-6,7%, di cui 426 medici, -4,8%, e 595 infermieri, -2,69%), i letti di quasi 6.000 posti (crollando da 4,5 a 3,1 ogni mille abitanti), gli ospedali da 44 a 36. Più nello specifico, è tutta la dimensione della medicina territoriale ad essere stata del tutto trascurata, come emerso in modo drammaticamente evidente durante l’emergenza Covid-19.
È questo stesso sistema, ora, ad essere esposto agli altissimi rischi derivanti da una radicale riapertura delle attività produttive, la cosiddetta “Fase 2”, più dettata dagli interessi delle imprese che ispirata all’interesse e alla salute collettiva. Mentre il Partito Democratico critica l’operato della giunta Cirio rilanciando sulla salute come “investimento produttivo” a partire dal progetto del Parco della Salute, e cioè dando ulteriore campo libero ai privati nella gestione diretta della sanità, come Potere al Popolo crediamo sia invece giunto il momento di rompere con questi indirizzi politici e con un intero modello che si è dimostrato fallimentare, aprendo una battaglia politica per riportare al centro il servizio sanitario nazionale con un piano straordinario di potenziamento e assunzioni, interamente pubblico, interrompendo immediatamente ogni collaborazione con il settore privato e uscendo dai paletti determinati dai vincoli di bilancio.
In questo lavoro ci concentriamo dunque sui seguenti punti di analisi:
- Le carenze della rete di medicina territoriale
- Logica dell’eccellenza vs presidi sul territorio: alcuni casi studio
– Il progetto del Parco della Salute a Torino
– L’ospedale di Verduno e la dismissione dei presidi di Alba e Bra
– Il ridimensionamento dell’ospedale di Lanzo
– La sanità del Verbano-Cusio-Ossola tra criticità del territorio e progetti di ospedale unico - Il caso tamponi e le carenze strutturali della diagnostica piemontese
- Le RSA e i malati non auto-sufficienti
1. Le carenze della rete di medicina territoriale.
Nel maldestro tentativo di coprire le mancanze della gestione dell’emergenza della sua giunta, il presidente della Regione Cirio dice però una cosa esatta quando afferma che nelle difficoltà abbia avuto un grande peso l’abbandono della medicina territoriale, maturato negli anni (peraltro anche grazie alla gestione della sua parte politica).
Come si legge in un recente intervento dell’Ordine piemontese dei medici e degli odontoiatri, “la situazione problematica in cui si è venuta a trovare la nostra Regione è leggibile proprio in questo sbilanciamento della gestione dei pazienti negli ospedali anziché sul territorio, che avrebbe potuto e dovuto essere un primo filtro efficace, se adeguatamente attrezzato e supportato. Si è anche pagato il progressivo depotenziamento delle risorse territoriali, dovuto ai continui tagli e al contenimento della spesa che hanno impedito fossero realmente operative le aggregazioni funzionali territoriali, dotandole degli strumenti sia diagnostici che informatici che sarebbero stati di estrema utilità per fronteggiare un’emergenza di questo tipo. E si sono sovraccaricati gli ospedali, anche loro gravemente penalizzati in questi anni da tagli di personale e posti letto”.
La concentrazione sui poli di eccellenza, “hub” come poli concentrati di tecnologie e competenze, al centro da anni delle strategie di riqualificazione del settore, ha comportato il totale abbandono di un sistema territoriale integrato e armonizzato con il sistema ospedaliero (e anche, nell’emergenza, l’eccessiva concentrazione dei pazienti negli ospedali, con gravissimi limiti nella presa in carico dei pazienti al livello territoriale). Più in generale, è tutta la dimensione della prevenzione, “gamba” fondamentale della riforma del 1978, ad essere stata del tutto tralasciata.
Un punto sul quale si misurano le difficoltà della medicina territoriale riguarda i medici di medicina generale (MMG), o medici di base. La situazione non riguarda certo solo il Piemonte, se ricordiamo la campagna condotta in modo costante negli ultimi anni contro i riferimenti medici sui territori, che solo l’estate scorsa poteva consentire al leghista Giorgetti di affermare che i medici di base sono un residuo del passato, destinato a scomparire.
Per quanto riguarda la nostra regione, in effetti, dal 2000 ad oggi il numero di pazienti in media a carico dei medici di famiglia piemontesi è salito del 20% (+220 pazienti per ogni medico). Nel 2005, al momento del passaggio di consegne tra Ghigo e Bresso (PD), erano 3.497 (uno ogni 1.095 abitanti). Cinque anni dopo, all’arrivo di Cota (Lega), erano già scesi a 3.335 e, di lì a poco, un anno prima dell’elezione di Chiamparino (PD, 2014), si erano assottigliati a 3.178. Il saldo: 583 medici di famiglia in meno dal 2000 al 2017 (i dati ufficiali del servizio sanitario si fermano a quell’anno). In un recente rapporto si è inoltre messo in luce come Torino sia agli ultimi posti in Italia nel rapporto medici di base/abitanti.
Va aggiunto di passaggio che anche lo status di “liberi professionisti” dei medici di base va urgentemente rivisto, riportandoli sotto la diretta dipendenza dal pubblico in un più ampio progetto di potenziamento del servizio sanitario pubblico a tutti i livelli.
Le carenze del collegamento tra il sistema centrale e i medici sul territorio sono emerse nel modo più palese nella mancata presa in carico di centinaia di pazienti con sintomi da Covid-19, le cui segnalazioni sono andate perse a centinaia, mai recepite dal sistema informatico del SISP (Servizio di igiene e salute pubblica). Questo perché il SISP delle ASL è anch’esso strutturalmente sottodimensionato rispetto alle necessità, prima di tutto per quanto riguarda il personale: solo tre persone sono state infatti deputate alla gestione delle segnalazioni dei medici di famiglia, e in totale 450 dipendenti risultano totalmente insufficienti.
Tutte le difficoltà della medicina territoriale sono inoltre emerse con la attivazione del tutto parziale, durante l’emergenza, delle USCA, le Unità Speciali di Continuità Assistenziale con funzione di implementazione della gestione dell’emergenza sanitaria (assistenza tramite monitoraggio a distanza o visite domiciliari o in strutture territoriali). In Piemonte la carenza è imbarazzante, si pensi che solo nella Città di Torino, ancora a fine aprile sulle 18 previste dalla legge che ne istituiva l’introduzione solamente 2 erano state effettivamente attivate.
2. Logica dell’eccellenza vs presidi sul territorio: alcuni casi studio
Uno dei grandi dogmi dei processi di smantellamento della sanità è centrato sulla contrapposizione tra grandi e moderni ospedali, ispirati al principio dell’eccellenza, e presidi diffusi sul territorio, considerati sinonimo di inefficienza e dispersione delle risorse. Dobbiamo chiarire che non siamo affatto contrari ad un necessario ammodernamento delle strutture e al perseguimento degli standard più elevati nella ricerca medica e nella clinica, tutt’altro; ma non possiamo non rilevare come la logica dell’eccellenza, strettamente legata alla redditività di potenziali investimenti da parte di soggetti privati, sia stata coltivata proprio in opposizione al principio dell’universalità e gratuità del diritto alla salute.
È un dato di fatto che nella nostra Regione alla chiusura di ospedali territoriali non ha corrisposto nient’altro se non un oggettivo ridimensionamento della qualità del servizio offerto a migliaia di persone.
Proponiamo qui alcuni “casi studio” che ci sembrano particolarmente significativi.
Il progetto del Parco della Salute a Torino
Il Parco della Salute è un progetto, la cui definizione e caratteristiche sono ancora in corso, che dovrebbe ridisegnare completamente la sanità territoriale del torinese, con conseguenze che arriverebbero ad impattare anche le città immediatamente limitrofe. Polo, appunto, d’eccellenza, dovrebbe contenere in sé un ospedale altamente specializzato, che accentrerebbe in sé le funzioni svolte attualmente da molte altre strutture sparse nella città di Torino, così come un centro di ricerca medica dedicato alle più alte complessità.
La storia del progetto affonda le sue radici sin dai tempi delle Olimpiadi, quando, facendosi forti dello stato di necessità in cui versa la sanità torinese, molti imprenditori si erano interessati alla progettazione e costruzione di un grande polo sanitario-ospedaliero a Torino Sud, anche nell’ottica di un generale rilancio economico e sociale di un’area altrimenti “depressa”. Le amministrazioni passano, ma le necessità delle strutture ospedaliere torinesi restano, così come resta immutata la risposta della politica. Con Chiamparino viene definitivamente stabilito il luogo, appunto l’area di Torino Sud, e la metodologia di progettazione, costruzione e finanziamento: la partnership pubblico-privata.
Pur con tutte le incognite che ancora ci sono, questi pochi elementi già dipingono un quadro preoccupante, in particolare l’utilizzo della PPP. Questo metodo di collaborazione tra pubblico e privato conosce la sua fortuna sin dagli anni 90, man mano che la retorica liberal, sempre più dominante, promuoveva la sparizione dello Stato dallo scenario politico a favore di un più “efficiente” ed “efficace” intervento privato, anche e soprattutto su temi chiave quali l’istruzione, le infrastrutture, la sanità. La PPP assume spesso forme più complesse del semplice appalto. Anche il modo di finanziamento della PPP può variare, ma già sappiamo che per il Parco della Salute si utilizzerà il sistema del project financing, che prevede la costituzione di una Associazione temporanea di impresa per la realizzazione e gestione del progetto, autonoma ed autosufficiente rispetto alle imprese che, congiuntamente, hanno contribuito a costituirla.
Prima caratteristica fra tutte che distingue la PPP da un più semplice appalto è la durata del contratto, che varia tra i 20 e i 30 anni, regalando quindi un monopolio di lunghissima durata ad un gruppo di imprese, verso le quali l’ente pubblico è vincolato contrattualmente. Oltre alla costruzione fisica dell’opera, alle imprese viene affidata anche la gestione di una serie di servizi, in sanità quelli generalmente detti “no-core” (ovvero non strettamente sanitari), tramite i quali il privato genera i profitti che gli serviranno a coprire il costo dell’investimento iniziale e non solo (nota 3). In tutto questo, qualsiasi aumento rispetto al costo iniziale previsto (cosa che accade molto di frequente in questo genere di progetti) sarà ovviamente coperta dell’ente pubblico, ingabbiato in vari obblighi contrattuali. Si arriva così al paradosso di una regione che, per poter garantire i profitti ai privati ingaggiati, si trova a dover tagliare i servizi “core”, eliminando posti letto e posti di lavoro tra medici, infermieri ed OSS, pur di rientrare nei suoi stessi piani di spesa.
Con questo sistema, le risorse della parte privata che si è ingaggiata nella partnership sono tutelate al 100%, mentre i rischi vengono scaricati complementarmente sull’ente pubblico.
A parte il metodo di finanziamento del progetto, al momento sono ben poche le altre informazioni a disposizione sul Parco della Salute:
- Sappiamo quali strutture vi verranno convogliate: le Molinette, il Sant’Anna, il CTO. In seguito ad una serie di discussioni, si è deciso di escludere il Regina Margherita dal complesso, e di eventualmente includerlo in secondo momento (operazione che, per i motivi ben presto spiegati, risulta tutt’altro che semplice ed evidente). La scelta di stipare tutte queste specializzazioni in uno spazio ridotto si accompagna ad una drastica riduzione dei posti letto, ad aggravare una situazione già ben sotto la media europea (nel 2017, secondo l’OECD, la media europea si attesta sui 4,7 posti letto per mille ab., mentre in Italia a 3,2). La scusa addotta è quella dell’eccellenza: certo, i posti letto saranno meno, ma saranno deputati alla cura e alla gestione di casistiche ad alta complessità. Tutto questo senza un vero e proprio piano di rafforzamento della sanità territoriale, quella ordinaria, forse meno entusiasmante, ma che di fatto costituisce la grande maggioranza delle patologie che affettano la popolazione. Si assiste dunque ancora una volta ad un processo di depauperamento della sanità territoriale che, in luce soprattutto di quanto espresso in queste pagine, non possiamo che ritenere estremamente miope e preoccupante.
- Sappiamo inoltre dove si costruirà: nell’area ex Avio-Oval, stretto in una fascia di terra vicina alla ferrovia. E sappiamo che lo spazio è insufficiente per includere tutti i posti letto attualmente distribuiti nelle strutture citate in precedenza. Inoltre, non sembra chiarissimo quale sia lo stato del suolo di dell’area ex industriale, che potrebbe essere ancora contaminata da metalli pesanti. Rimane inoltre non chiarissimo in che modo l’amministrazione conta di risolvere le evidenti problematiche urbanistiche che sorgeranno nel quartiere in termini di viabilità. L’area è già densamente popolata, ma deficitaria per quanto riguarda i collegamenti ed il trasporto pubblico. In un contesto del genere la costruzione di un ospedale rischia di impattare in modo significativamente negativo il territorio, in particolare senza un piano urbanistico complessivo, che al momento ci sembra non esista. (nota 4)
Infine, non possiamo che constatare la mancanza di trasparenza e comunicazione con la cittadinanza da parte delle varie amministrazioni su questo importantissimo tema. Nessuna amministrazione si è davvero impegnata per coinvolgere i beneficiari ultimi del progetto, ovvero i cittadini torinesi e non solo, nella sua definizione, o quantomeno ad informarli costantemente e in maniera chiara. La complessità del tema, o la protezione della concorrenza in fase di gara, per cui non sarebbe possibile diffondere informazioni dettagliate sul progetto in corso di definizione, non possono essere ritenuti degli argomenti validi per evitare il dibattito pubblico; si tratta piuttosto della precisa volontà politica di non coinvolgere la popolazione nella programmazione, nelle scelte e nella discussione sull’amministrazione e gestione della città.
L’ospedale di Verduno e la dismissione dei presidi di Alba e Bra
Nel territorio di interesse dell’Asl CN 2 (Roero, Langhe, Alba, Bra) la crisi sanitaria determinata dall’epidemia di Covid-19 si complica intrecciandosi con la travagliata vicenda dell’apertura anticipata rispetto a quanto programmato, del nuovo ospedale di Verduno, che, pensato come polo d’eccellenza di una medicina d’avanguardia, è tuttavia ancora al centro di tante criticità irrisolte, non ultima quella relativa alla viabilità che, già gravemente carente prima, quanto a rete stradale, viene ulteriormente penalizzata dalla soppressione di molte corse dei mezzi pubblici (bus e corriere provenienti non solo da Alba e Bra ma da tutto il territorio di Langhe e Roero) in seguito alle misure imposte di riduzione dei servizi pubblici, finalizzate a contenere la diffusione dell’epidemia. Il nuovo ospedale diventa così sempre più difficile da raggiungere, non solo dall’utenza, ma anche dagli stessi lavoratori che vi prestano servizio.
Nominato commissario straordinario il dottor Monchiero, l’ospedale di Verduno viene inaugurato il 31 marzo c.a. come ospedale dedicato al ricovero di pazienti affetti da Covid-19 in fase di remissione della malattia.
Alle roboanti dichiarazioni del presidente della Regione, Cirio, come riportate di seguito:
“Apre oggi, (lunedì 30 marzo con l’arrivo dei primi 20 pazienti) ufficialmente Verduno e sarà l’ospedale Covid di tutto il Piemonte (!!!), dove verranno accolti pazienti che hanno superato la fase più critica per accompagnarli nel percorso finale di guarigione. Si inizia con 55 camere, che possono diventare più di 100. Oltre a un’area di terapia intensiva e subintensiva per le emergenze”, corrisponde una realtà molto difficile soprattutto dal punto di vista organizzativo del servizio e del reperimento del personale sia medico che infermieristico, pescato e ripescato alla bell’e meglio con la messa in campo dei corpi sanitari delle forze armate, con bandi di concorso estesi a livello nazionale anche a giovani medici neolaureati o specializzandi, con la chiamata in servizio di medici già in pensione, quali il dott. Giuseppe Cornara da Cuneo, ex primario di rianimazione e il dott. Ivo Casagrande, ex primario della medicina d’urgenza di Alessandria (per inciso rimandati a casa dopo soli dieci giorni di attività) e contestati trasferimenti di personale dai reparti dell’ospedale di Alba, già impoveriti da più di 20 anni di tagli alle piante organiche, a partire dalla famosa riforma del ’92 con il via ai piani di aziendalizzazione e privatizzazione del sistema sanitario nazionale. Lo stesso direttore dell’ASL Massimo Veglio giunge a dichiarare a proposito del nuovo reparto Covid di Verduno: “Noi siamo pronti, ma bisogna avere il personale per gestirlo”.
Gli ospedali di Alba e Bra vengono completamente stravolti con la chiusura di molti reparti, nonché di quasi tutte le attività ambulatoriali, la sospensione fino a data da destinarsi di tutti gli interventi chirurgici programmati che non rivestano il carattere d’urgenza e, fatto gravissimo, la definitiva chiusura il 20 marzo del Pronto Soccorso di Bra, decisa dalla Regione senza neppure darne il preavviso ai sindaci di Bra e Alba. Mentre chiudiamo il documento, registriamo le dichiarazioni del 26 maggio di Icardi, che esclude ogni possibile riapertura di questo pronto soccorso.
Tutta la medicina del territorio si chiude a riccio, dagli ambulatori dei medici di base, che diventano di difficile accesso se non si è dotati di buon mezzo informatico e telefonico, alle RSA che, dopo avventate aperture da parte di alcune di esse per accogliere pazienti Covid in fase di convalescenza, provenienti dall’ospedale, diventano praticamente inaccessibili per chiunque in seguito al formarsi di alcuni focolai di infezione al loro interno (se ne contano 6 su 37, sparse su tutto il territorio dell’albese e braidese).
È da rilevare che, per questa ragione, nell’albese quasi tutti i casi di contagio con conseguente decesso interessano pazienti ospiti di case di riposo.
Ultima nota riguarda la campagna relativa ai tamponi, utile a mappare e circoscrivere la diffusione del contagio ma che, manco a dire, è ampiamente insufficiente. Ne vengono effettuati poco più di mille, limitatamente ai focolai scoppiati nelle RSA e ai casi di malattia conclamata. Scarsi i controlli sul personale sanitario.
Il ridimensionamento dell’ospedale di Lanzo
Il presidio ospedaliero Ciriè-Lanzo rappresenta un caso emblematico della volontà politica delle diverse giunte regionali che si sono succedute negli ultimi 10 anni di ridurre e riconvertire i presidi ospedalieri presenti sul territorio, in un’ottica di riduzioni e accentramento.
In particolare l’ospedale di Lanzo, la cui struttura è della fondazione del Mauriziano, ovvero privata, ha vissuto e vive tutt’ora un’aspra battaglia che, per il momento, ne ha scongiurato la chiusura. L’ospedale ha un bacino di utenza di circa 40.000 persone, che comprende la Val di Viù, la Val d’Ala e la Val Grande. Nel 2010 è stato inserito, dalla giunta Cota, fra gli ospedali da riconvertire, ovvero era destinato a diventare un ospizio. Da quel momento in poi il solerte lavoro dei diversi assessori alla Sanità regionali, da Ferrero fino a Saitta, ha prodotto forti ridimensionamenti ai servizi offerti dall’ospedale: riduzione dell’orario del pronto soccorso, chiusura e spostamento a Ciriè di interi reparti, riduzione dei posti letto (inizialmente ve ne erano 150, ne sono rimasti circa 80).
Durante l’emergenza Covid l’ospedale di Lanzo (che non sarebbe stato più tale senza la ferma opposizione dei cittadini che si sono battuti contro la sua chiusura) ha dovuto affrontare diverse difficoltà. È stato completamente chiuso il punto di pronto soccorso, per consentire ai medici di trasferirsi all’ospedale di Ciriè, in modo che tale ospedale rimanesse Covid-free. Ma l’inadeguatezza dell’ospedale di Ciriè (certificato dalla denuncia puntuale di Nursind) ha costretto lo spostamento di diversi pazienti “incerti” verso Lanzo, dove si sono rivelati affetti da Corona virus. Ma ormai era troppo tardi. Così metà dei pazienti di medicina generale e 17 operatori sanitari su 42 che lavoravano nel reparto hanno contratto il virus. Ciò ha causato la completa chiusura del reparto di medicina generale. La situazione poteva diventare ancora più grave se si tiene conto che Lanzo accoglie i lungodegenti che in fase di riabilitazione sono molto vulnerabili.
La logica di quello che sta succedendo in questo ospedale è quella sempre usata per giustificare tagli in ogni dove del settore pubblico. Poco alla volta si riducono i servizi. In questo modo la struttura appare inadeguata, obsoleta se non addirittura pericolosa da tenere aperta. A questo punto la chiusura e la dismissione appare quasi come un atto d’ufficio. Sarà così anche in questa circostanza?
La sanità del Verbano-Cusio-Ossola tra criticità del territorio e progetti di ospedale unico
Da circa vent’anni nella provincia del VCO si parla della costruzione di un nuovo ospedale; il primo studio risale infatti al 2000 e fu realizzato da una società di consulenza denominata CRESA (Centro di Ricerca per l’Economia e l’Organizzazione della Sanità). In sintesi, il progetto proponeva la costruzione di un nuovo ospedale unico e baricentrico nella zona di Gravellona e la conservazione della funzione di ospedale generale per i presidi di Domodossola e Verbania.
Questo studio venne in seguito accantonato e nel 2002 venne redatto un nuovo studio dall’agenzia ARESS (Agenzia Regionale Socio-Sanitaria) del Piemonte simile al primo ma con delle novità: l’ospedale unico sarebbe sorto in Ossola, mentre per quanto concerne l’ospedale Castelli di Verbania si prevedeva una collaborazione con l’Istituto Auxologico (privato) “[…] o di alternative che avessero a delinearsi con altre istituzioni non escludendo la possibilità di uno sviluppo più esteso del ruolo del partner privato […]”.
Nel 2017, accantonato anche il piano ARESS, si opta quindi per un ospedale unico e plurisede che però, visto il blocco delle assunzioni, si dimostra inadatto a soddisfare le esigenze dei cittadini e complicato da gestire per il personale.
Sotto la giunta Chiamparino viene presentato un altro progetto che proponeva la costruzione del nuovo ospedale a Ornavasso (quindi in Ossola). Tuttavia, il piano rallenta perché, tra gli altri motivi, risulta troppo costoso (245 milioni circa tramite project financing).
Nel 2019 con il passaggio della Regione sotto la giunta Cirio si ritorna alla proposta del piano ARESS ma nell’ottobre dello stesso anno il sindaco di Domodossola Lucio Pizzi, con il sostegno di altri sindaci dei comuni ossolani, presenta alla Regione il progetto dell’ospedale unico a Domodossola (zona certamente non baricentrica) con il mantenimento dell’ospedale di Verbania ma “ridimensionato”: perderebbe infatti il DEA (sostituito da un pronto soccorso) e molti altri reparti. Per di più, pare che non sia stato prodotto alcun documento a sostegno di tale progetto che prevederebbe un enorme investimento di soldi pubblici.
Tecnicismi a parte si evince come in questi anni sia prevalso per lo più lo spirito campanilista dei vari sindaci che hanno seguito la questione nonché il perseguimento dei propri interessi politici a discapito dell’interesse dei cittadini in tema di sanità pubblica. Una situazione certamente aggravata dal meccanismo di aziendalizzazione della sanità di cui si è parlato e che ha visto un sempre maggiore ridimensionamento della spesa sanitaria.
In linea con il resto del territorio nazionale anche nella nostra provincia si registra una grave carenza del personale sanitario, una situazione che risulta ancor più difficile proprio durante questi mesi di emergenza covid-19. Durante un incontro con la rappresentanza dei sindaci e ASL VCO il direttore generale dell’ASL Angelo Penna ha dichiarato una grave carenza del personale sanitario per diversi servizi ospedalieri. Nel pronto soccorso dell’ospedale di Domodossola e in quello di Verbania operano 16 medici su una pianta organica di 31, vale a dire la metà di quelli che occorrerebbero. Nel reparto di ortopedia dell’ospedale San Biagio di Domodossola ci sono 4 medici su 8, nell’ospedale Castelli di Verbania 4 medici su 5 e in tutta l’ASL VCO opera poi un solo medico pneumologo, a contratto. Gravi carenze anche per pediatria, ostetricia, ginecologia e urologia, soprattutto per quanto riguarda l’ospedale San Biagio di Domodossola. In generale, i medici attualmente in servizio nell’ASL VCO sono 265 ma ne servirebbero 59 in più tra ospedale e territorio. Per quanto riguarda il personale infermieristico sono attualmente in servizio 652 infermieri sui 681 previsti in pianta organica. Anche tra gli OSS si registra una carenza di 20 operatori.
Per sopperire alla mancanza di organico e per garantire i servizi spesso l’ASL si rivolge quindi ai cosiddetti medici gettonisti (medici a contratto) e privati. Va ricordato che il ricorso a medici gettonisti, che nelle ASL provinciali del Piemonte (e non solo) è diventata la regola, ha un costo molto elevato per l’ASL.
Questa mancanza di risorse e personale ovviamente influisce in modo negativo sui tempi di attesa per visite specialistiche ed esami diagnostici. Basta infatti consultare le tabelle dei tempi di attesa che vengono mensilmente pubblicate sul sito dell’ASL VCO per rendersi conto che per quanto riguarda moltissime visite mediche specialistiche ed esami diagnostici i tempi di attesa siano molto al di sopra dello standard nazionale (si superano i 30 giorni, e a volte i 60, ad esempio per delle visite cardiologiche). Di fronte a questa grave inefficienza sono molti i cittadini che per potersi curare sono costretti a rivolgersi ad altri ospedali (spesso anche fuori regione) e alla sanità privata, soluzione che però non è certamente alla portata di tutti.
A risentirne sono anche i programmi di prevenzione. Nel documento “Programmazione attività del piano locale della prevenzione 2019”, a pagina 35 e 36 nella sezione “Piena implementazione dei 3 programmi di screening oncologico – Descrizione delle attività previste nell’anno 2019” si legge infatti: “Si sono incontrati problemi per la riorganizzazione dell’attività, l’introduzione del nuovo software gestionale e la carenza di risorse legata al mancato o ridotto turn‐over degli operatori e per la necessità di rispettare gli impegni di spesa del piano di rientro; inoltre, si registra una notevole riduzione del numero di specialisti. […]. È difficile attuare interventi di promozione dell’adesione a fronte di una carenza di risorse che renderebbe difficile aumentare l’offerta di screening. Gli obiettivi di ASL sono quindi stati rimodulati […]”
Vista l’età media elevata della popolazione della provincia sono numerose le RSA presenti sul territorio, circa 20. Da un comunicato stampa dell’ASL VCO del 24 aprile si apprende che dall’inizio del mese di marzo sono stati effettuati i tamponi a 1580 persone all’interno delle RSA della provincia, di cui 1030 (il 65%) operatori delle strutture e 540 ospiti (il 35%). Tra i 1030 operatori sottoposti al test sono risultati positivi 145 (il 14%) e tra i 540 ospiti sottoposti al test sono risultati positivi 209 (il 38%).
Recentemente la procura di Verbania ha aperto due inchieste nei confronti di una di queste strutture per anziani del nostro territorio, ovvero la RSA di Premosello Chiovenda, dove si è sviluppato un vero e proprio focolaio con 35 pazienti su 46 totali positivi al covid-19. Le indagini, che riguardano sia aspetti amministrativi sia appunto la situazione dei contagi, sono partite dopo alcuni esposti presentati dai parenti dei pazienti della struttura. Infine, l’altra inchiesta della procura di Verbania verte sugli aspetti amministrativi di gestione del nuovo reparto Covid costruito in 40 giorni da alcuni volontari e con dei fondi di donazioni private (circa 300.000 euro) presso l’ex ospedale di Premosello. L’inaugurazione non corrisponde con l’attivazione vera e propria del reparto in quanto manca il via libera della Commissione di vigilanza dell’ASL. La regione peraltro aveva già dichiarato pubblicamente la mancanza di autorizzazione dei lavori mentre negli stessi giorni il capogruppo della Lega Preioni si spendeva personalmente su questo progetto. (altro link)
3. Il caso tamponi e le carenze strutturali della diagnostica piemontese
Uno dei punti più critici della gestione del Covid-19 in Piemonte riguarda il gravissimo sottoutilizzo dei tamponi come strumento di diagnostica del Covid, indispensabile per un efficiente monitoraggio dei contagi: i tamponi effettuati in Piemonte al 14 maggio, in base ai dati diffusi dalla Protezione Civile, sono stati 232.682, contro i 538.243 della Lombardia e i 474.488 del Veneto. Non stupisce dunque che la percentuale di positivi sul numero di tamponi effettuati sia in questi giorni due volte più alta della Lombardia, rendendo realistica l’ipotesi di una significativa diffusione “sommersa” del virus nella nostra regione.
È tardivo il recupero della capacità diagnostica che è stato messo in piedi nelle ultime settimane. Al momento dello scoppio dell’emergenza, i laboratori in grado di analizzare i tamponi erano in tutta la regione solamente due, presso l’Amedeo di Savoia e le Molinette, entrambi a Torino. Come segnalato dall’Anaao Piemonte, “la Rete dei Laboratori pubblici piemontesi è in sofferenza a causa di una errata, incompiuta riorganizzazione e per gli sciagurati Piani di Rientro che hanno ridotto all’osso il personale tecnico e dirigente”.
Si è distinto, anche in questo ambito, l’operato della giunta Chiamparino (2014-2019) e dell’assessore alla Sanità Saitta, che hanno proceduto a tale “riorganizzazione” della rete laboratoriale regionale, con tagli del 20-30% e concentrazione della diagnostica specialistica negli ospedali Hub con DEA di secondo livello (bacino di riferimento 600.000-1.000.000 persone).
Lo scoppio dell’emergenza ha costretto la giunta a correre ai ripari e ad ampliare la rete laboratoriale; tuttavia, non senza opacità anche in questo, se è vera la denuncia, sempre dell’Anaao, rispetto alla strategia di investimento in nuovi super-laboratori completamente slegati dal contesto clinico e aperti ai privati, quando potrebbero essere potenziati i laboratori analisi pubblici, fornendo strumentazione e investendo nel personale.
4. Le RSA e i malati non autosufficienti
Quello delle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) è un capitolo estremamente doloroso della vicenda del Coronavirus: queste strutture, in Piemonte come in Lombardia, sono diventate rapidamente dei centri di contagio e diffusione del virus, causando una vera e propria ecatombe di anziani. Ancora a inizio maggio risultano del tutto insufficienti i tamponi effettuati in queste strutture, sia agli ospiti che al personale. In Piemonte sono presenti circa 730 strutture per anziani, che ospitano un totale di circa 30.000 pazienti, ovviamente fragili e poco autosufficienti, i bersagli preferiti del virus.
Anche qui saltano subito agli occhi le responsabilità della giunta regionale, che con una delibera del 20 marzo ha pensato bene di autorizzare il trasferimento di pazienti con Covid-19 proprio in queste strutture. Va da sé che è semplicemente criminale autorizzare il trasferimento di pazienti contaminati, stante la facilità della diffusione di questo virus, e anche le carenze dei dispositivi di sicurezza per gli operatori sanitari già da più parti rilevate anche a proposito non solo delle residenze per anziani, ma più in generale nella nostra regione.
In diversi casi, come alla Trisoglio di Trofarello, i parenti di anziani positivi al Covid-19 (o anche semplicemente ospiti delle strutture) hanno per settimane incalzato le direzioni delle strutture, alla ricerca di informazioni che queste non erano pronte a fornire loro. Contestualmente sono emerse le gravi mancanze nella sicurezza degli operatori, e il loro sottodimensionamento (alla Trisoglio, per esempio, lavoravano in media 4 persone per 75 posti letto).
Tutto ciò non può che rimandare al carattere privato della gestione di queste strutture (se io temo di non ricevere più la retta del paziente, sarò invogliato a prendere tempo e a minimizzare), e più in generale alla mancanza di una reale gestione pubblica di tutto il campo dell’assistenza agli anziani, come negli anni ha documentato il lavoro ad esempio della Fondazione Promozione Sociale.
Dalla lettura delle inchieste emerge un quadro sconfortante, fatto di rette spropositate (si arriva a 130 euro al giorno per pazienti con Alzhaimer), pagate a metà dalla Regione (perché non reinternalizzare direttamente il servizio?) e a metà dalle famiglie (vedi pag 64 del link). Queste strutture prevedono inoltre delle liste d’attesa lunghissime: secondo dati del 2018, Sono 2800 i malati in lista d’attesa per un posto convenzionato in Rsa (cioè per il 50% della retta coperta dall’Asl), 6600 quelli che attendono le cure domiciliari. (vedi pag 10 del link)
Oltre alle RSA in senso stretto, è anche la dimensione dell’assistenza domiciliare ad aver subito la scure dei tagli a livello regionale: come rileva sempre la Fondazione Promozione Sociale, “Il dato delle giornate di prestazioni domiciliari per gli anziani non autosufficienti a Torino rivela il tracollo delle cure fornite dall’Asl: -11,6% nel 2015, -9,4 nel 2016, -10,7 nel 2017. Oggi [2018] in città vengono erogate 166mila giornate in meno di cure rispetto a quattro anni fa. La situazione è figlia delle decisioni della Regione e in particolare dell’eliminazione degli assegni di cura sanitari, protrattasi anche dopo il rientro dal deficit” (vedi pag 11 del link). Sono complessivamente ben 30.000 i malati non autosufficienti che non vengono presi in cura dal Servizio sanitario regionale.
I malati non autosufficienti: altre vittime delle gestioni Cota e (in particolare) Chiamparino.
Conclusioni
Come ha mostrato questa inchiesta, certamente parziale e da integrare, l’emergenza Coronavirus ha fatto emergere con chiarezza una serie di nodi strutturali che riguardano nello specifico la Regione Piemonte, ma che si comprendono alla luce del più ampio quadro di smantellamento, aziendalizzazione e regionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale nel nostro paese.
Non è sufficiente attaccare, come sta facendo il Partito Democratico in modo puramente strumentale, la giunta regionale Cirio e la gestione dell’assessore alla sanità Icardi per le loro gravissime mancanze: crediamo che in questa fase sia necessario articolare complessivamente una proposta di rottura rispetto a tali dinamiche e ai soggetti politici che se ne fanno portatori, riportando la gestione della sanità al livello centrale, interrompendo immediatamente ogni sostegno diretto o indiretto al settore privato, rompendo con la logica dell’aziendalizzazione e dei vincoli di bilancio e ripartendo dai bisogni sanitari della popolazione (cura, ma anche prevenzione), dalla capillarità della dimensione territoriale, dalla riapertura e potenziamento delle strutture pubbliche e dall’immediata assunzione di nuovo personale a tutti i livelli.
1 https://www.quotidianosanita.it/regioni-e-asl/articolo.php?approfondimento_id=14669,
https://www.anaaopiemonte.info/anaaopiemonte/fase-due-siamo-sicuri/
https://www.lastampa.it/torino/2020/04/08/news/coronavirus-gli-ordini-dei-medici-e-odontoiatri-del-piemonte-ospedale-e-territorio-realta-indispensabili-per-gestire-la-crisi-1.38695127 (torna sù)
2 Per una ricostruzione di queste politiche vedi C. Betassa, “Dal diritto alla salute al welfare dei miserabili. Cronaca dello smantellamento del sistema sanitario nazionale”, in Proteo, “Che ne è stato dello Stato”, Edizioni Efesto, 2018. (torna sù)
3 In alcuni casi, tuttavia, I servizi affidati ai privati si allargano, come nel caso dell’Angelo di Mestre, in cui alle imprese è stato affidata anche la gestione del laboratorio di diagnostica, con pessimi risultati: https://www.sanita24.ilsole24ore.com/print?uuid=ACvYoLOC (torna sù)
4 Molti degli elementi qui presentati fanno riferimento ad un documento critico sul Parco della Salute pubblicato da OMCEO e sostanzialmente ignorato dalla classe politica: https://www.omceo-to.it/00666/DOCS/6nZ-documento-omceo-torino-sul-parco-della-salute-doc.pdf (torna sù)