Lazio

11/11 Le ragioni del nostro NO alla liberalizzazione del trasporto pubblico di Roma

È un po’ la moda di questi tempi quella di utilizzare la rabbia e l’esasperazione popolare per ritorcerla contro gli interessi delle classi popolari stesse, alimentando le condizioni che l’hanno prodotta. Grazie a qualche cambiamento nella forma o nei toni si intercetta la diffusa esigenza di cambiamento per portare avanti però le stesse politiche di sempre. O anche peggio. È quanto sta succedendo a Roma, con il referendum promosso dai Radicali per mettere a gara il servizio di trasporto pubblico della città, con tanto di giganteschi cartelloni che raffigurano i famosi autobus in fiamme accompagnati dallo slogan “Basta ATAC!”.

Ma andiamo con ordine. Non c’è persona che viva o lavori a Roma che non sia esasperata da un servizio che anziché migliorare negli anni è peggiorato, come mostrano i dati sulla produzione e sulla soddisfazione dell’utenza dell’Agenzia per il Controllo dei Servizi Pubblici di Roma. Un servizio che è stato abbandonato a sé stesso mentre la città cambiava, aumentando le sue dimensioni e la sua dispersione spaziale. L’aumento degli affitti e della povertà hanno infatti incrementato il pendolarismo, e mentre i vari “palazzinari” speculavano costruendo interi quartieri dormitorio nella campagna romana con il favore di tutte le giunte comunali, la rete di metro e treni non veniva minimamente ampliata. Al contrario, la flotta degli autobus, dei tram e gran parte delle vetture della metropolitana ha continuato a invecchiare senza essere sostituita, raddoppiando la sua età media in meno di dieci anni. Prevedibile risultato sono i continui guasti e l’indisponibilità della gran parte dei mezzi, come testimoniato dai dati ufficiali di ATAC e come ormai hanno cominciato a raccontare anche le cronache giornalistiche, soprattutto dopo i famigerati autobus andati a fuoco (quasi settanta in tre anni!). Il tutto ulteriormente aggravato dal taglio dei costi nelle manutenzioni, anche per via di appalti al ribasso come quello della manutenzione delle scale mobili, emerso clamorosamente a seguito del tragico incidente del 23 ottobre, quando una scala piena di tifosi del CSKA Mosca è collassata causando feriti anche gravi.

A monte di questa situazione c’è il crollo degli investimenti in mezzi e infrastrutture. Un problema nazionale, come scrive in maniera inequivocabile un recente studio della Cassa Depositi e Prestiti: “per anni sono stati quasi azzerati i finanziamenti statali in conto capitale e i vincoli imposti dal Patto di Stabilità Interno hanno compromesso i finanziamenti degli Enti Territoriali al TPL. A ciò si è aggiunta una significativa riduzione delle compensazioni in conto esercizio (-15% a livello medio nazionale dal 2011 al 2015), che ha ulteriormente assottigliato i margini per l’autofinanziamento aziendale.” Problema particolarmente acuto però a Roma, come dimostrano i continui problemi finanziari dell’ATAC, azienda che quando nel 2015 è stata introdotta la disciplina dei “costi standard” ha ottenuto paradossalmente un aumento dei finanziamenti, a dimostrazione di come per anni fosse stata sottofinanziata. Anche il famigerato debito da 1,3 mld di euro, agitato spesso dalla stampa a testimonianza del fallimento dell’azienda, riflette il più generale dissesto delle finanze pubbliche e la volontà delle istituzioni di scaricare sull’azienda, e quindi sul servizio pubblico, i propri problemi economici. Sono infatti il Comune e la Regione i principali creditori dell’azienda e, strano ma vero, anche i principali debitori. E la crisi dell’anno scorso che ha portato alla procedura di concordato preventivo di ATAC (una forma di commissariamento volto a evitare il fallimento) è stata innescata dalla scelta del Comune di non riconoscere quasi 200 mln di euro di debiti che doveva ad ATAC, portando così all’insostenibile rosso di bilancio. Ma questa è un’altra storia.

Quello che conta è che se il “diritto alla mobilità”, di cui ci si ricorda solo quando si tratta di precettare gli scioperi di autisti e macchinisti, è sotto attacco, la colpa è della stessa logica che mette a repentaglio quello allo studio, alla salute, al lavoro. La logica dei sacrifici necessari, del ricatto del debito, dell’austerità. L’operazione dei promotori del referendum parte dalla fine, dallo sfascio che ne consegue e approfitta di questo stesso sfascio per assestare un ulteriore colpo. Senza un piano di investimenti pubblici, senza le assunzioni necessarie ad aumentare il livello di servizio, la famigerata liberalizzazione potrà cambiare il nome di chi lo gestisce ma non potrà cambiare la sostanza. L’unica cosa che cambierà sarà che qualcuno potrà fare profitto sui soldi pubblici, poco importa se quel qualcuno saranno aziende private nel nome o solo di fatto (come BusItalia, di proprietà di FS e probabile candidata). Come d’altronde a Roma già succede con la Roma TPL, che detiene il 20% delle linee di superficie senza differenze nella qualità del servizio, se non in peggio. E con un trattamento discriminatorio per i lavoratori rispetto ai loro colleghi di ATAC in termini di salario e di orario, per non parlare dei ritardi anche di mesi nella trasmissione degli stipendi. E come all’ATAF di Firenze, a seguito della sua acquisizione da parte di BusItalia, i controlli rischieranno di essere solo più difficili, la gestione interna all’azienda, il modo in cui questa spende i soldi pubblici e gestisce il servizio sfuggirà del tutto dalla mano pubblica.

Meglio, penseranno alcuni. Ed è proprio su questo senso comune, per cui pubblico = spreco, che sperano di far leva i fautori del Sì. Un senso comune alimentato dai continui scandali che hanno investito l’azienda pubblica. Come quello di “Parentopoli”, le famigerate assunzioni di parenti e amici tra il personale amministrativo dovute alla giunta Alemanno, e ancora quello dei biglietti “clonati”, in sostanza biglietti che non risultavano nella contabilità dell’azienda e che andavano a rimpinguare le casse dei partiti. Ma ce ne sono altri, nascosti tra i numerosi appalti opachi, oppure manifesti come i buoni uscita milionari di dirigenti strapagati. Al di là del peso economico, in realtà in molti casi contenuto, il problema è quello che questi scandali esprimono: l’uso parassitario dell’azienda da parte della politica, la corruzione e la collusione di una dirigenza strapagata con interessi privati esterni che hanno contribuito a spolparla. Un uso privatistico dell’azienda pubblica che tradisce la missione di utilità sociale che dovrebbe avere e che è incentivata dall’organizzazione dell’azienda stessa, che è quella di una S.p.A. come un’altra.

Il modo in cui vengono raccontati e interpretati tende però a ribaltare la prospettiva. Nello stesso calderone vengono messi manager, politici, sindacalisti, dipendenti, operai. È sicuramente vero che esiste un problema sindacale in ATAC, e che alcuni sindacati siano stati toccati da questi stessi scandali o da altri. Ma questo non vuole che l’azienda sia in mano a loro e tanto meno che sia in mano ai lavoratori. Proprio l’opposto. È per mantenere la pace sociale a fronte di un peggioramento nelle condizioni di lavoro e addirittura di un passo indietro rispetto a diritti acquisiti con anni di lotte, che, come in qualsiasi altra azienda, soprattutto privata, alcuni sindacati vengono cooptati e il loro silenzio scambiato con qualche fetta di torta da spartire o con la possibilità di gestire qualche permesso e qualche turno. E la favola per cui i lavoratori ATAC sarebbero protetti dalla politica per questioni elettorali è contraddetta dalle innumerevoli dichiarazioni di politici di tutte le fazioni che li hanno usati come capro espiatorio per i problemi dell’azienda, spesso inventando di sana pianta dati sul presunto assenteismo o sui costi del personale. E dal controsenso per cui in termini elettorali pagherebbe di più il consenso di qualche migliaio di autisti che quello di centinaia di migliaia di cittadini romani che prendono i mezzi ogni giorno.

Eppure questi luoghi comuni sono tenaci. Nella città di Mafia Capitale, dell’impero economico del Supremo Cerroni, il patron della discarica di Malagrotta, si crede che la collusione tra aziende private e politica possa essere risolta a colpi di bandi e di gare. Che poi sono le stesse che non hanno impedito il raddoppio dei tempi e dei costi di realizzazione della Metro C, o il disastro della Roma TPL. E se non lo si crede si ha almeno la sensazione di poter punire i colpevoli, veri o presunti che siano. Questo è il risultato non solo di trent’anni di egemonia culturale liberista ma soprattutto della nostra assenza. Perché nonostante non siano mancati momenti anche di grande protagonismo da parte dei lavoratori in questi ultimi anni, tra scioperi e manifestazioni, difficilmente la loro voce è riuscita emergere in maniera chiara e raramente si è incrociata con quella dei cittadini.

È per questo che come Potere al Popolo Roma abbiamo deciso di impegnarci in prima linea in questa battaglia. Per sfruttare l’operazione sporca dei promotori del referendum e ribaltarla in un’operazione verità, che denunci le vere cause dei problemi del trasporto pubblico romano. In parte collaborando con un comitato significativamente intitolato “Lavoratori e Utenti per la difesa del trasporto pubblico”, l’unico che vede il protagonismo diretto di lavoratori tra i vari comitati per il No che sono nati. In parte producendo nostre analisi e materiale, raccolto nella pagina: www.poterealpopolo.org/atac, per provare a puntare il dito sui veri responsabili del disseto del trasporto pubblico di Roma. Tutto ovviamente accompagnato dai volantinaggi, speakeraggi, dibattiti e alcune trovate meno consuete con cui abbiamo provato a divertirci un po’…

L’obiettivo di lungo periodo: resistere a questo attacco per preparare un’offensiva nei confronti di chi ha peggiorato le condizioni del servizio e di lavoro. Trasformare il No al referendum in un Sì al diritto alla mobilità per i centinaia di migliaia di lavoratori, disoccupati, studenti e pensionati della nostra città.

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