Negli ultimi giorni la stampa si è dedicata alle notizie riguardanti le martoriate Fondazioni Lirico Sinfoniche italiane.
In particolare tiene banco la diffusione da parte del Ministro Bonisoli di una circolare che, facendo riferimento ad una Sentenza della Corte Europea, obbligherebbe le Fondazioni alla trasformazione dei contratti dei lavoratori precari in contratti a tempo indeterminato. Al momento le reazioni da parte delle fondazioni sono arrivate da tre fronti: Firenze, Venezia e Verona e la reazione è stata univoca: l’interruzione dei rapporti di lavoro in scadenza di contratto, per Venezia e Firenze e la minaccia di non iniziarli affatto per Verona, in attesa della prossima ripresa delle attività in dicembre.
E’ senz’altro interessante notare come la stampa abbia immediatamente dato risalto alla notizia dando voce solo alla parte datoriale che si è affrettata a spiegare come queste assunzioni creerebbero insormontabili difficoltà economiche alle Fondazioni, che non potrebbero che implodere, avendo davanti a sé come alternative il declassamento previsto dall’art. 24 della legge 160 voluta dal Ministro Franceschini, che prevede il completo disimpegno dello stato da quei teatri che non dimostrano una solida tenuta economica, o il definitivo fallimento, ipotesi non esclusa anche nel primo caso. In aggiunta si fa un nebuloso e superficiale riferimento al nuovo Decreto Dignità che, nel tentativo di limitare l’utilizzo dei contratti a termine, di fatto ne impedirebbe del tutto l’utilizzo a realtà come le Fondazioni Lirico Sinfoniche, che ne fanno abitualmente un ampio e regolare utilizzo.
In questa sede non vogliamo entrare nel merito del Decreto Dignità, per un motivo molto semplice: in questa vicenda il Decreto c’entra solo marginalmente.
Il vero nodo della questione sta nella vicenda che ripercorreremo e che parte da molto lontano, da quando cioè è iniziato il percorso di precarizzazione del personale delle Fondazioni Lirico Sinfoniche.
Nel corso degli ultimi vent’anni, come corollario di gestioni a dir poco disastrose, che brillavano per incompetenza artistica e manageriale, distinguendosi solo per clientelarismo politico, le Direzioni delle Fondazioni hanno perseguito una costante precarizzazione delle masse dei lavoratori, giustificato dalla instabilità della situazione economica e dal blocco del tourn over. Man forte in questa azione veniva dato dall’ Accordo Quadro delle Fondazioni, che non prevede la trasformazione dei contratti a termine, e dalla ibrida natura delle stesse, in bilico tra pubblico e privato.
Questo progetto di precarizzazione del personale, principalmente quello artistico, ma anche quello tecnico e amministravo, parte attivamente nei primi anni 2000, quando si avviano una serie di riforme ministeriali che vincolano le Fondazioni, ovverosia i teatri, a logiche legate alle normative del bilancio aziendale, snaturando completamente il fine di istituzioni che avrebbero dovuto essere di scopo culturale e sociale, al pari di scuole, università e musei ma che si vedono proiettate in mondo che non è più il loro.
Per favorire questo percorso le Sovrintendenze individuano nel costo del personale la maggiore spesa da contenere, senza mai riflettere sul fatto che quel personale fosse anche il “prodotto” da vendere e che precarizzarlo avrebbe significato comprometterne la qualità. D’altra parte questo non è un concetto nuovo all’industria italiana: se il contenimento dei costi funziona per la produzione, ad esempio, di scarpe, perché non dovrebbe applicarsi ai teatri? Forti di questo principio, i nuovi Capitani d’Industria del settore teatrale partono per la loro nuova avventura. E la intraprendono nel peggiore dei modi. Oltre alla precarizzazione ad oltranza, mascherata dal neologismo “flessibilità”, avviano una campagna a mezzo stampa di enorme diffamazione dei dipendenti non ancora precari, che diventano “musicisti di infima qualità”, “privilegiati”, “parassiti” e tutta una serie di epiteti di questo livello, volti a convincere l’opinione pubblica che la vessazione di questi lavoratori fosse più che giustificata. Ricordiamo ancora che questi lavoratori sarebbero il prodotto da vendere, come se un produttore di scarpe, per giustificare l’utilizzo di materiale più economico, dicesse che il suo prodotto non vale quello che costa.
Come è consuetudine in Italia, questa anomalia diventa norma negli ultimi 10-15 anni, creando enormi quantità di lavoratori precari, un numero sempre più esiguo di lavoratori stabili, che pagano con l’insulto dei potenti e dei meno abbienti la loro relativa stabilità economica, e una classe dirigente capace di affossare comunque la situazione economica dei teatri, che di teatro ormai non hanno più nulla, nemmeno il nome.
A tutto ciò i lavoratori iniziano faticosamente a ribellarsi, con l’unica arma ancora a loro disposizione, quella giuridica. Anche questa strada si rivela per la verità impervia e le cause, tra vittorie e sconfitte, primi appelli e ricorsi si protraggono per anni. Ma il risultato è che, nonostante tutte le leggi a tutela del precariato, le rivendicazioni dei lavoratori sono solide e le vertenze iniziano ad essere vinte.
Qui si giunge finalmente alla vicenda che ci interessa.
Una di queste vertenze giunge alla Corte Europea, che con sentenza del 25/10/2018 stabilisce che l’abuso dei contratti a termine è illegale e le Fondazioni vengono sanzionate per questo. Non l’uso, ma l’abuso. Le Fondazioni nella reiterazione dei contratti commettono un illecito e ad oggi, sembrerebbero commetterne un altro con l’unilaterale interruzione degli stessi. Ovvero, non è scritto nella sentenza che le fondazioni non possono farne ricorso, ma utilizzarli a norma di legge, che, in maniera semplificata, dice che i contratti a termine devono essere utilizzati per esigenze specifiche ed occasionali, non essere la norma. Quando un lavoratore accumula un numero abnorme di contratti a termine, come ormai consuetudine nelle Fondazioni, ha diritto, secondo la sentenza della Corte Europea, alla trasformazione del contratto a tempo indeterminato, ma essendo questo non automatico nell’accordo Quadro delle Fondazioni, la sentenza aggiunge testualmente: “occorre che vi sia, nel medesimo settore, un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato”. Ovvero la reiterazione dei contratti a termine è illecita e deve essere comunque sanzionata.
A questa sentenza le fondazioni reagiscono, come d’abitudine, vessando i lavoratori e colpevolizzandoli, a mezzo stampa, questa volta in modo meno esplicito, di aver fatto valere i propri diritti. E cercando di passare da vittime.
La soluzione non sarebbe poi così difficile. Basterebbe alle Fondazioni reintegrare le piante organiche ministeriali in maniera proporzionata alle reali esigenze di produzione, senza cercare di contrarle capziosamente, come avviene ad esempio a Verona, ed utilizzare il personale aggiunto in maniera regolare. La normale attività delle Fondazioni è tesa a coprire l’attività di tutto l’anno, con le dovute specificità. Resterebbe il problema non indifferente della copertura economica per queste operazioni, ma ci viene da dire che, nella privatizzazione pervicacemente inseguita in questi anni e nella isterica consegna dei teatri ai manager e ai soggetti economici, diventi compito di questi ultimi reperire le coperture. Senza contare l’apporto ministeriale erogato attraverso il Fondo unico dello spettacolo, che, nonostante i continui tagli viene erogato alle Fondazioni proporzionalmente alla produttività, sarebbe da valutare il supporto dei soggetti privati, assolutamente latitanti e indifferenti all’apporto in termini di indotto economico e anche di prestigio che istituzioni come le Fondazioni Lirico Sinfoniche portano alle città che le ospita.
Particolarmente emblematico è il caso dell’Arena di Verona che ad oggi appare totalmente abbandonata a se stessa, gestita in modo grottesco da rappresentanti di amministrazioni comunali che sembrano tendere pervicacemente allo smantellamento di un Teatro che, quasi da solo, porta sulla ribalta internazionale una città pericolosamente sull’ orlo di un marginale provincialismo. Eppure la fondazione e i suoi lavoratori vengono percepiti dalle città come qualcosa di folcloristico nel suo periodo più produttivo, in estate e vistosamente mal tollerati in inverno, periodo in cui per l’amministrazione il teatro dovrebbe sparire e far posto a chissà quali compagini mercenarie e rigorosamente a poco prezzo, senza nessuna attenzione alla qualità di quello per cui si chiede di pagare un biglietto al pubblico, né tantomeno alla tradizione culturale e teatrale di una città, anche se questa tradizione è così strettamente legata all’identità della città stessa.