Fonte: Ponterivista
di Marco Gatto
È ormai evidente che la possibile ricostruzione di una forza di sinistra nel nostro Paese passi da forme di netta discontinuità dal liberismo economico. Il cosiddetto centrosinistra da tempo è ormai del tutto aderente alla logica capitalistica egemone, sia in termini politici, sia in termini culturali. Da qui si origina la sua perdurante debolezza, che ovviamente si traduce in uno spostamento dei consensi verso il Movimento di Grillo. La scelta del cartello “Liberi e Uguali” di affidarsi a un capo in tutto e per tutto impolitico lascia trasparire non solo un’adesione ai principi della leadership carismatica (in verità, rivelatasi assai farsesca, se consideriamo gli evidenti deficit di Grasso sul piano della comunicazione e dello stile), ma anche un’incapacità concreta di elaborare un reale corredo valoriale alternativo, magari in grado di rimettere in circolo la parola “socialismo”.
D’altro canto, Bersani, che pure è persona stimabile, ama da tempo definirsi “liberale”. E liberali si definiscono (e sono) i suoi ex amici del Partito democratico, compagine ormai pienamente avvolta nel renzismo e votata alla costruzione di un centro moderato, con la quale però LeU continua ad avere non pochi punti di contatto (e non solo in ragione di possibili alleanze: si ricordi che la campagna elettorale di Grasso ha avuto inizio con uno svarione sulla tassazione universitaria, che è indice della volontà di voler parlare solo al ceto medio).
Per parte loro, i pentastellati, con una decisa virata a destra (a conferma della loro reale identità politica), occupano gli spazi lasciati da una sinistra riformista invertebrata, riuscendo così a raccogliere consensi laddove era presente, tempo addietro, un qualche orientamento comune o una base di valori condivisa. Non a caso il voto di molti ventenni e trentenni sembra andare in quest’ultima direzione: cresciuti nel tempo dell’amministrata destrutturazione ideologica, privi di un riferimento politico e culturale capace di garantire loro rappresentanza, annichiliti dal sistema televisivo di stampo berlusconiano e dalle ragioni simboliche del tecno-capitalismo, molti giovani vedono nel qualunquismo grillino e nei suoi toni tribunizi (quando non direttamente nel blocco moderato rappresentato da Forza Italia e dal Pd, in virtù di trovate elettoralistiche che non tarderanno ad arrivare) una possibilità concreta di cambiamento, anche semplicemente transitoria.
Assistiamo, del resto, a un’espulsione del tema del lavoro dall’agenda politica della sinistra. Le ragioni sono molteplici. Mi limito a dire che tale cancellazione risponde a una più generale e sistematica manomissione dell’idea di conflitto. Dalla quale proviene il disinteressamento per le sorti dei ceti più deboli. In parole povere: precari, esodati, disoccupati, vittime di un mercato del lavoro ormai permanentemente flessibile, sottoposti quasi sempre a forme di subdolo ricatto, sono stati del tutto esclusi dal discorso politico. Non esiste oggi forza di sinistra in grado di fondare le proprie ragioni sul conflitto tra capitale e lavoro, che è forse l’unico vero tema su cui valga la pena confrontarsi. Chiusa in un orizzonte simbolico del tutto aderente allo spirito del tardo capitalismo, ormai sedotta dall’individualismo di una società che non riesce a pensare l’altro come paritario interlocutore, del tutto convinta di sostituire la lotta di classe con la lotta per i diritti (come se potessero questi prescindere da una più equa ridistribuzione delle risorse), pronta a distruggere le basi del sistema educativo, scolastico e non, con provata ammirazione per supposte democrazie più sviluppate e libere, e quindi incapace di studiare, capire e analizzare la crescita esponenziale delle disuguaglianze, la sinistra italiana “di governo” – rappresentata dalla peggiore classe dirigente della sua storia repubblicana – non può candidarsi oggi a interpretare i bisogni dei più deboli se non riabilita quei valori che ha completamente dimenticato. E si dubita possa iniziare a farlo.
Le elezioni potranno essere l’occasione di avviare un lavoro molto più profondo e capillare. Potere al Popolo è in questo momento l’unico contenitore politico in grado di riproporre il tema dell’organizzazione del conflitto, attraverso l’edificazione di una base sociale che miri a interpretare le esigenze di tutti quei soggetti discriminati, distrutti e abbattuti dalla logica capitalistica. Ciò vuol dire rimettere in gioco parole gramsciane: egemonia, pedagogia generalizzata, mediazione, lotta al senso comune – senza avere il timore di apparire anacronistici o ideologici (l’attuale fase insegna che le ideologie non sono morte, e che le nostre vite sono gestite da un’ideologia capitalistica tutt’altro che debole o leggera). La parola “popolo” può suscitare qualche perplessità, è indubbio. Ma credo occorra intenderla in un modo ben preciso: qui “popolo” sta a indicare un corpo sociale finora tenuto al margine, sfiancato dal precariato e dalla disoccupazione, che può trovare nelle parole di una certa sinistra (purché fuori da ogni mitologia della rivoluzione) i presupposti per riconoscere se stesso nei lavoratori sfruttati, nei migranti, in tutti i discriminati dal sistema economico. Potere al Popolo rappresenta pertanto una scommessa politica: ridefinire la sinistra partendo dal lavoro, insistendo sulla necessità dell’organizzazione (da cui potrà derivare il bisogno di un partito nuovo), riabilitando concetti della tradizione marxista che sono stati troppo presto abbandonati. Per dire che la mediazione dei valori di progresso, uguaglianza e solidarietà al più largo corpo sociale può inaspettatamente squarciare il velo di ipocrisia programmata e amministrata di cui il ceto politico italiano, dalla destra alla sinistra, si è fatto negli ultimi anni interprete. E per dire, in conclusione, che solo una sinistra nuovamente “popolare” – ancora una volta, nel senso gramsciano del termine –, e quindi nonpopulistica, può far brillare come vera la dimensione ideologica delle alternative: l’assoluta contiguità tra la destra berlusconiana-salviniana-meloniana e il grillismo (oggi vero rappresentante del nostro degrado civile); la parentela tra il renzismo e gli ultimi sussulti di una mai veramente desiderata ottica socialdemocratica. È tempo d’altro.