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Lettera di Ana Gabriel (CUP), in esilio a Ginevra, ai militanti catalani

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Come fa strano un undici settembre1 senza di voi, un undici settembre lontana da casa. Quest’anno, per la seconda volta, lo passerò in una Ginevra che è divenuta rifugio e casa, come già era stata rifugio e casa di tante e tanti prima di me me, e come continua ad esserlo per tante e tanti assieme a me.

Esilio vuol dire molte cose, tra cui il fatto di doversi limitare a contemplare queste ore che vengono, malgrado il voler contribuire alla nostra lotta collettiva, senza poter scendere per le strade che sono mie da sempre e partecipare con tutto un popolo unito, allegro e combattivo2.

Resto qui. Nonostante in molti continuino a chiedermi il perché  di questo esilio, nonostante non tutti abbiano capito la mia decisione, nonostante a qualcuno sembri che potrei tornare senza dover temere nulla. Decisi di non presentarmi ad un tribunale che pretendeva mettere sotto processo una istanza politica e un movimento intero. E continuo ad essere convinta che di fronte alla repressione l’esilio abbia del tutto senso.

Però né l’esilio, né la prigione, né la repressione riusciranno a farci rinunciare al sogno o a farci smettere di lavorare per renderlo realtà. E questo vuol dire superare tutti gli ostacoli; gli ostacoli che ci pone di fronte uno stato forte e vendicativo che utilizza la repressione, l’intelligenza e tutto il potere di cui dispone. Vuol dire sopportare il peso dell’indifferenza: l’indifferenza al dolore, indifferenza che a volte si esprime nel sorriso cinico di chi da una parte puntella il regime, e dall’altra ci fa credere che lo sta combattendo. Il sorriso di chi si sa complice di tanto sproposito, però per tattica politica non viene presentato come tale.

C’è uno stato intero, con i suoi alleati e i suoi mezzi di propaganda, di fronte ad una manciata di centinaia di migliaia di persone che vogliono risolvere il conflitto democraticamente. Lo Stato, i suoi alleati e i suoi mezzi di propaganda di fronte ad una manciata di centinaia di migliaia di persone che oggi attraversano un momento di grande sconforto, di ritirata e di sentirsi ingannate ed ingannati. Ingannati ed ingannate da quella speranza di poter realizzare tutto, che si è presto trasformata nella fredda disillusione. C’è molto da fare e da rifare, c’è molto da imparare una seconda volta, c’è molto da riscrivere. Perché, effettivamente, adesso bisogna fare tutto un’altra volta per poter far meglio.

E per far meglio, non ci si deve ingannare, bisogna guardare in faccia la realtà e assumere il peso del futuro. Bisogna sapere che l’unità è cosa reale e concreta, come la verità, e che non si può basare sul nulla. Bisogna tenere a mente che le fondamenta sono solide se ben profonde, e che serve che ci sia una corrispondenza tra quanto si dice in pubblico e la realtà.

Le immagini del primo di Ottobre3 resteranno per sempre, però le opportunità non sono altrettanto durature. Si tratta di un insegnamento imprescindibile: l’attenzione internazionale è una delle chiavi di volta. Sappiamo che è molto difficile da ottenere e che è molto facile da perdere.

E per ottenerla di nuovo, avremo bisogno di creare nuove opportunità, che nasceranno dall’analisi di quanto è successo nel nostro Paese negli anni che ci lasciamo alle spalle, dal vedere che cosa ci ha consentito di guadagnare legittimità e credibilità, e dal prendere coscienza delle nostre mancanze.

Nonostante la repressione ci renda tutto più difficile, è imprescindibile rivedere criticamente quello che non ha funzionato, assumersi la propria responsabilità, tanto nelle vittorie ottenute quanto nelle sconfitte. Per evitare che la storia si ripeta, questa volta come farsa e non come tragedia.

Senza questa revisione accurata, senza il fare chiarezza sugli strumenti e sui mezzi necessari, senza la determinazione di quei giorni di settembre e di quel Primo Ottobre, senza la mobilitazione massiva di quel 3 d’Ottobre4, “unità” si trasforma in una parola vuota, come quei proclami che altro non sono che artifici retorici che alimentano la propaganda dei partiti istituzionali.

Non possiamo permettercelo. Come non possiamo permettere che la solidarietà antirepressiva si utilizzi come strumento di pressione, o che una condizione eccezionale come quella che viviamo, e che dura da ormai troppo tempo, divenga il pretesto per scendere a patti e accettare soluzioni al ribasso. L’eccezionalità della situazione non riguarda solo chi oggi è in prigione o in esilio. Sta nelle migliaia di persone sottoposte a giudizio nel nostro Paese per difendere l’autodeterminazione, sono le centinaia e migliaia di persone che hanno subito la stessa sorte per difendere molti altri diritti fondamentali.

L’eccezionalità è la povertà, quella estrema e quella che non viene definita come tale, quella che viene spiegata come un momento negativo al quale seguiranno tempi migliori. Una povertà non sempre visibile, però sempre dura, sempre ingiusta.

L’eccezionalità è questo nostro Mediterraneo che da troppo tempo si è trasformato in un cimitero, a causa delle politiche migratorie dell’Unione Europea e dei suoi stati. Eccezionalità è svegliarsi ogni giorno con notizie di stupri o femminicidi.

Eccezionalità è un pianeta messo in pericolo da un sistema di produzione e di consumo – il capitalismo – che considera sacro il profitto e assume come inevitabile l’inquinamento del pianeta, la distruzione degli ecosistemi, le disuguaglianze e lo sfruttamento, e le conseguenze nefaste che tutto questo comporta per la popolazione mondiale e per i Paesi Catalani, che ne fanno parte.

In ultimo, eccezionalità è accettare il paradosso che sicurezza significhi investire in più polizia, eserciti, armi. Investire nella morte, al posto di investire nella vita, che coincide con l’uguaglianza, la giustizia sociale, l’educazione, la libera critica e la salute per tutta l’umanità.

Per tutto questo non possiamo nasconderci dalla responsabilità che abbiamo nel far fronte a tutte queste eccezionalità, anche negli spazi istituzionali di ogni livello governati da formazioni indipendentiste e di sinistra. Oggi più che mai servono risposte e proposte globali a tutta questa eccezionalità. Abbiamo bisogno di meno capitalismo e meno precariato, di più libertà, per i popoli e per le persone, più solidarietà e, in definitiva, più indipendenza, più socialismo, più internazionalismo, più femminismo e più ecologismo.

Servono risposte che sappiano intrecciare le resistenze che oggi si esprimono in giro per il mondo, contro questa ingiustizia e minaccia sistemica. Dalle montagne del Kurdistan fino alle navi delle ONG che sfidano le direttive criminali dell’Unione Europea e dei suoi stati in tutto il Mediterraneo; dai gilet gialli che sfidano i tecnocrati dello stato francese, fino ai militanti e attiviste dei lacci gialli5, che come tante e tanti prima di loro denunciano la vocazione repressiva dello stato spagnolo. E ancora, da chi oggi resiste contro le direttive neoliberiste dell’Unione Europea in Portogallo, Italia, Irlanda e nel resto dello Stato Spagnolo, fino ai seggi elettorali del primo Ottobre che mostravano, ai Paesi Catalani, la via verso la democrazia.

Così, lasciate che mandi un forte abbraccio a tutte e tutti coloro che dedicano la propria vita all’impegno politico, a tutti e tutte coloro che credono nella dignità personale e in quella collettiva, come valore di lotta.

Grazie a voi, che alla vigilia della sentenza del Tribunale Supremo6 siete pronte e pronti a lanciare al mondo il messaggio che porteremo avanti a testa alta la lotta per l’assoluta libertà politica e la giustizia sociale del nostro popolo. Grazie a voi che risponderete a tutte le sentenze ingiuste che verranno, le molte sentenza ingiuste che verranno.

Grazie a voi, che in un tempo nel quale sembra governare lo sconcerto, la sfiducia e il disincanto, non smetterete di essere disposti e disposte ad opporvi di nuovo contro le ingiustizie, a proporre alternative e pensare il futuro in grande

Abbiamo imparato che non ci sono ricette magiche, e siamo state costrette e costretti a cambiare strada. Ad ogni modo, abbiamo ancora la possibilità di non rinunciare al sogno. E di farlo realtà.

Ana Gabriel.

 

Note di traduzione

  1. L’11 settembre del 1714, durante la Guerra di Successione Spagnola, le truppe di Filippo V di Borbone conquistarono Barcellona, completando l’annessione della Catalogna al regno di Spagna. Da allora, la data è festa nazionale Catalana e viene celebrata con connotazioni rivendicative dell’autodeterminazione del popolo catalano.
  2. Il paragrafo fa riferimento al testo della canzone La Flama del gruppo valenziano Obrint Pas. La canzone invita a scendere in piazza e partecipare alla mobilitazione per l’indipendenza.
  3. Il Primo Ottobre 2017 si celebrò un referendum non autorizzato sull’indipendenza della Catalogna, promosso dal governo catalano (Generalitat de Catalunya) e osteggiato dal governo spagnolo. La polizia spagnola attaccò la gente che votava pacificamente ed organizzava barricate non violente, generando circa 1000 feriti a fine giornata.
  4. Due giorni dopo il Referendum, uno sciopero generale paralizzò la Catalogna portando centinaia di migliaia di persone in Piazza, e segnando una delle più grandi giornate di mobilitazione della storia catalana.
  5. Il laccio giallo (llaç groc in catalano) è stato assunto come simbolo della mobilitazione in favore della liberazione dei prigionieri politici catalani.
  6. La risposta repressiva dello Stato Spagnolo consistette nell’arresto di diversi esponenti del governo catalano e della società civile. Le sentenze si attendono a breve.

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