Rassegna Stampa

[L’Espresso] “Noi di Potere al Popolo non siamo di sinistra: siamo comunisti”: parla Viola Carofalo

viola carofalo sudamerica

Fonte: L’Espresso
di Francesca Sironi

«Contestiamo da sempre le politiche del Pd come il Jobs act: non possiamo riconoscerci in categorie usurate». Dialogo con la portavoce del movimento nato nei centri sociali

Sul braccio ha tatuato un verso in greco antico: «Preferirei cento volte combattere che partorire una sola», recita Medea nella tragedia di Euripide, parlando dell’ingiustizia della condizione femminile – donne in casa, uomini liberi di scoprire il mondo.

Femminista, 37 anni, ricercatrice all’Orientale di Napoli (ultima pubblicazione: “Frantz Fanon – dalla liberazione dei popoli alla liberazione dell’Uomo”) Viola Carofalo è la portavoce di “Potere al Popolo”. Quando finiamo di parlare insiste perché il nuovo soggetto politico non venga chiamato partito, «è un movimento. E io di tessere non ne ho avute mai», anche se fa politica da quand’era alle medie, prima nei collettivi, poi con i centri sociali, fino all’ex Opg occupato di Napoli.

Va bene, non partito. Forza elettorale resta. Come è stato il salto dalle occupazioni alla caccia ai voti?
«Io non votavo. Ho votato alle amministrative, ai Referendum, mai alle Politiche. Però quando scendevo in piazza a 18 anni contro la guerra, ci facevamo sentire anche nel Palazzo. Oggi a chi lo gridi, il dissenso? A chi arriva la spinta dall’esterno dentro le istituzioni? Ci siamo resi conto che non potevamo più accontentarci di rimanere fra di noi. Per questo abbiamo scelto di candidarci».

Nei centri sociali non tutti la pensano così, anzi.
«Ci conosciamo da tanti anni, nei movimenti. E nel nostro caso anche gli “astensionisti”, che sono la maggioranza, non ci hanno attaccati. Forse si rendono conto che sono mutati i tempi».

E che serve quindi una nuova forza di sinistra?
«Sinistra è una parola che non amo, si è usurata. Quando mi dicono “e allora il PD?” cosa devo rispondere? Io quella sinistra l’ho sempre contestata. Non mi accollo certo le responsabilità del Jobs Act, contro cui continuo a lottare».

Allora come si definisce lei?
«Comunista. Saremo vintage, ma qui all’ex-Opg ci definiamo così, prendendo spunto da riferimenti classici e contemporanei, in modo anche un po’ spregiudicato. Le nostre affinità vanno da “Gramsci” alle “Black Panthers”, da “France Insoumise” a “Pomedos”».

Sono confluiti tutti nel vostro programma?
«Abbiamo cercato di stendere un programma minimo, semplice, che esprimesse il senso politico del mutualismo che ogni giorno pratichiamo. Vorremmo che ogni assemblea territoriale coincidesse con una casa del popolo. L’attività pratica e quella politica devono avanzare insieme».

E nelle vesti di “capo politico” come ci si sta?
«All’inizio con imbarazzo. Non avevo mai avuto velleità di questo tipo: gestivo la cassa, figurarsi, al centro sociale. E non avevo Facebook, se non per chattare. Faccio politica per cambiare le cose, però, e visto che era necessario per legge, e abbiamo deciso che sarei stata la persona giusta, ci sono, sto dando il massimo».

La campagna come è stata?
«Esaltante. E faticosa: ero sempre in giro da sola. Mi chiedevano: “Il tuo assistente dov’è?”. Ma quale assistente? Non potevamo permetterci due biglietti in treno. Anche per questo è davvero straordinaria la risposta che abbiamo ricevuto».

Lo sbarco nei salotti Tv?
«Abbiamo avuto poche occasioni, ma abbiamo visto che pesano, in Italia. Dopo gli interventi molti cercavano informazioni su di noi, ci scrivevano».

Personalmente, intendo, come è andata?
«Forse i compagni mi hanno scelta perché sanno che sono teledipendente… È vero, ma a parte gli scherzi, quando arrivavo ai talk, mi sdegnavo, di fronte a ex ministri che ho contestato per anni. Friggevo di rabbia. Poi li vedevo cordiali fra loro, a prescindere dagli schieramenti. Non penso sia ipocrisia, solo abitudine».

Si abituerà anche lei?
«Le ambiguità nascono quando non si hanno obiettivi o direzioni chiare, allora ti fai cooptare dalle forze in campo. Nel nostro caso, gli obiettivi ci sono».

Dopo anni di lotta in piazza si trova di fronte, mettiamo, un sindacato di Polizia. Cosa prova?
«Non ho mai gridato “sbirro infame”, non ho questi feticci; penso però che gli abusi di polizia siano un problema grave e la struttura delle forze dell’ordine vada ripensata. Per il resto noi, sui migranti, abbiamo fatto molti incontri con la prefettura di Napoli. E la rappresentanza non è mai stata un tabù».

Nelle competenze ha fiducia, lei che lavora all’Università?
«Ho fiducia nelle competenze che nascono dalla qualifica: non possiamo improvvisarci scienziati, scegliere soluzioni attraverso l’applausometro su Facebook, buttare mille anni di Scienza alle ortiche solo perché qualcuno sostiene che si può curare il tumore con l’aloe. E ovviamente diffido dal complottismo dilagante. Ma riconosco che la scienza è connotata. E che troppo spesso si cercano di travestire da competenze scelte politiche, soprattutto quando si tratta di Economia».

Ora vi state preparando all’assemblea nazionale e al voto diretto online. Ha paura di perdere il polso del movimento nato qui, fra persone che condividevano gli stessi ideali da tempo?
«Penso che sia necessario darci delle forme, delle regole, per permettere a tutti di decidere cos’è meglio, per esempio sull’eventuale candidatura alle Europee. Quello che temo sono le strutture interne, che il movimento si burocraticizzi. Ma con la piattaforma riusciremo a rimanere aperti e trasparenti, credo. Per il resto no, non temo le scelte future. Abbiamo un programma, poi se verrà sviluppato in una direzione o in un’altra, andrà bene ugualmente. E nei nostri processi conteranno molto le assemblee del territorio. Poi, chissà, procediamo a tentativi. Ma almeno ci stiamo provando».

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