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Genova: c’è una ferita in fondo al cuore

Genova: c’è una ferita in fondo al cuore

Giacomo Marchetti – Potere al Popolo! Genova

In Officina, l’acqua scende copiosa dai tetti “saltando” la grondaia, e dopo qualche minuto il tombino al centro del parcheggio che dovrebbe raccoglierla già straripa; seguo preoccupato quel muro di pioggia oltre i finestroni dal secondo piano lì dove lavoro.

Spero che cali d’intensità, devo andare a casa in scooter, poi prendere la macchina e mettermi in viaggio per raggiungere i miei: quelle quattro-cinque ore da migrante, facendo un Coast to Coast che di questo periodo riserva molte incognite.

Ieri ho scoperto che Trenitalia mi ha negato la possibilità di avvicinarmi al “natio borgo selvaggio” con un regionale, trasformando il mio viaggio abbastanza lineare Genova-Cesena in un gioco di cambi al volo sperando di avere abbastanza tempo per saltare da un treno all’altro, e per il ritorno già problematico anche le combinazioni più impossibili non ti permettono di evitare di prendere un “frecciamerda”.

A conti fatti, forse con sky-scanner per lo stesso prezzo potrei trovare un volo intercontinentale meno costoso…

Ho deciso di prendere la macchina quindi, ed in testa ho ancora l’esplosione di Borgo Panigale (quante volte ho fatto quel tratto in vita mia), ricordo perfettamente l’immagine dello scheletro di un tir ai bordi della strada ridotto ad un fascio abbrustolito di lamiere alcuni anni fa, di ritorno da una consegna col furgone, fermandomi a destinazione prima di “ritornare alla base” a causa dei 10 km di fila per quell’incidente che avevo sentito per radio.

Non ho i dati tra le mani, ma forse il tratto autostradale tra Milano e Bologna è il più grande cimitero a cielo aperto, dopo il Mediterraneo.

L’allerta meteo era arancione per oggi, e ciò che mi si para davanti gli occhi poco prima di mezzogiorno mi ricorda la stessa quantità di pioggia che “devastò” Genova nelle due alluvioni.

Allora abbiamo spalato fango, pianto i nostri morti e cercato di dare forma alla nostra rabbia, percorrendo dopo la seconda alluvione la Valbisagno ancora martoriata verso il centro cittadino e gridando a gran voce che l’unica vera e grande opera a Genova era la messa in sicurezza del territorio e la manutenzione di una città martoriata, senza che venissero fatte altre colate di cemento.

Inutile dire che quel grido è stato inascoltato.

Sbagliando penso che le sirene siano per qualche possibile allagamento, ed il loro suono non ci abbandonerà per buona parte di tutta la giornata, insieme alle pale degli elicotteri.

Scendo negli spogliatoi e dopo la doccia, facendo zapping su FB vedo una foto che mi gela il sangue, immediatamente dopo un post che non ho il tempo nemmeno di metabolizzare tanto è assurdo.

Quell’immagine immediatamente l’associo ad un contesto di guerra, le sinapsi del mio cervello aprono una voragine su ciò che ho visto direttamente con i miei occhi in scenari bellici, come se un bombardamento avesse demolito il ponte Morandi, qui a pochi km di distanza.

I frames si moltiplicano, mentre i media locali non danno ancora la notizia, anche i miei “compagni” di lavoro increduli con cui parlo e a cui mostro le foto, ne hanno la conferma, alcuni vivono non lontano da lì e raccontano di un “terremoto”, come altri abitanti della zona, scoprirò poi.

La pioggia riprende copiosa flagellandomi verso il percorso semi-deserto verso casa in scooter, mentre polizia, ambulanze e “guardia costiera” a sirene spiegate vanno verso la Val Polcevera.

Telefoni a casa a parenti ed amici, sincerandoti che stiano tutti bene: è uno strano rituale, a cui purtroppo sono abituato dai terremoti in Emilia, dalle alluvioni della Superba e dagli attentati che hanno costellato le capitali europee.

Un racconto al telefono di un parente stretto di una persona a me cara, per interposta persona, ti rigela nuovamente il sangue: guidando sul ponte, ha sentito dietro di sé un boato e sull’altra carreggiata ha visto i camion inchiodare disponendosi in seno obliquo rispetto al senso di marcia, e fare segno affinché le macchine si fermassero.

Pensi a quante volte hai fatto quel ponte mentre guidavi il furgone per fare consegne da un lato all’altro della Superba, o per andare al mare a Ponente, in una di quelle giornate spensierate di riposo, cantando stonato un brano sparato dallo stereo.

Pensi a quel gigante, un po’ anziano, che posava sui piloni dominando la Valle lungo quella lingua di cemento, senza soluzione continuità, figlia dello sviluppo industriale e della speculazione edilizia.

Pensi che sulle ferite non cicatrizzate dello sviluppo passato, mal convertito in polo per centri commerciali e parcheggi di container stanno costruendo la Tav-Terzo Valico e vogliono fare la Gronda di Ponente, ma non sanno costruire una Torre Piloti dove andrebbe edificata, non sanno curare la manutenzione di autostrade trafficate dai pedaggi sempre più costosi, non sanno mettere in sicurezza il territorio da frane e smottamenti e da produzioni che sono bombe ad orologeria altamente inquinanti che hanno dato ripetutamente dimostrazione della loro pericolosità.

Genova ancora oggi mi sembra una bestia ferita inseguita dai cacciatori di frodo che ne cantano “le umane sorti e progressive” nel mentre vogliono accorparla, magari pronti a fare gli sciacalli per “venderci” soluzioni peggiori dei mali che viviamo.

Genova mi sembra un gigante dai piedi d’argilla che si è trovata in eredità un modello di sviluppo che non da ai suoi figli di che campare e che sono costretti ad emigrare o ad “arrabattarsi” in qualche modo.

La pioggia è cessata, ma non laverà via le nostre lacrime, le nostre preoccupazioni, il senso di vulnerabilità, l’essere in mano ad una manica di criminali senza scrupoli…

Gli sciacalli già blaterano…

Mi sento come quando ho ascoltato le intercettazioni degli imprenditori che dopo il sisma dell’Aquila, si scambiavano ridendo le felicitazioni per telefono prospettando lucrosi affari per la speculazione post-terremoto, o quando ho letto le intercettazioni di quell’ imprenditore coinvolto nei lavori della TAV-Terzo Valico che sprezzante rispondeva ad un responsabile rispetto alle lamentele sulle condizioni di lavoro dei “suoi operai” che tanto per l’amianto ci si ammala trent’anni dopo!

Viviamo in un Paese in cui l’indignazione passa in fretta, la rimozione è un dato strutturale della costruzione della nostra non “coscienza civica” e dove in una viziosa interpretazione dell’accoppiata crisi/opportunità una classe politico imprenditoriale costruisce le proprie fortune sulle nostre tragedie: in questo caso sarà assai difficile attribuire una qualche responsabilità ad un migrante, ma potrebbero comunque stupirci.

Anche in questo caso non assuefarsi alla catastrofe, in questo Paese è un imperativo etico che diviene immediatamente un programma politico…

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