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FRANCIA: 11 TESI POLITICHE SUL MOVIMENTO DI GENNAIO-MARZO 2023

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Pubblichiamo di seguito le riflessioni di Ugo Palheta, sociologo francese e co-redattore di Contretemps, rivista francese di critica comunista. Abbiamo deciso di tradurre in italiano e pubblicare questo articolo perché riassume in modo sintetico sia le tappe del movimento sociale contro la riforma delle pensioni iniziato il 19 gennaio 2023, sia i dibattiti sulle attuali possibilità di una rottura radicale o rivoluzionaria in Francia.

Il 14 Aprile 2023 la Corte costituzionale si esprimerà sulla costituzionalità della riforma del Presidente E. Macron e del governo di E. Borne. La sentenza della Corte costituzionale inaugurerà una terza fase del movimento sociale (la prima da gennaio a metà marzo in cui le proteste si sono concentrate sulla riforma delle pensioni, la seconda a partire dal 16 marzo quando il governo ha imposto la riforma tramite l’applicazione dell’articolo 49.3, senza voto parlamentare, e il movimento si è radicalizzato), indipendentemente dall’esito della sentenza. E’ dunque fondamentale comprendere il quadro più ampio in cui si muove il movimento sociale per identificarne i limiti e le possibilità e imparare anche noi da quello che sta succedendo Oltralpe.

Buona lettura!

A che punto è – e dove va – il movimento iniziato in Francia il 19 Gennaio scorso per ottenere il ritiro dell’ennesima controriforma delle pensioni e la vittoria contro un Presidente ampiamente detestato? A coloro che immaginavano una mobilitazione testimoniale dei sindacati, incapace però di ostacolare il rullo compressore neoliberale, a pochi mesi dalla rielezione di Macron, le lavoratrici e i lavoratori, i movimenti sociali e la sinistra hanno mostrato che il governo non poteva contare sull’apatia generalizzata. Non si tratta ancora della rottura con l’ordine costituito, ma è già molto. Per alimentare la riflessione collettiva, Ugo Palheta indaga, in questo articolo, le potenzialità, i limiti, le sfide immediate e strategiche della lotta in corso.

Il movimento che si sta sviluppando in Francia dal 19 Gennaio è entusiasmante sotto molti punti di vista. In appena due mesi ha profondamente modificato l’atmosfera politica del paese, fatto indietreggiare il disfattismo imperante, destabilizzato (leggasi impaurito) gli zelanti difensori dell’ordine sociale costituito e delle politiche neoliberali, esteso le aspettative di milioni di persone che sono entrate in lotta e, facendo ciò, hanno cominciato ad avere consapevolezza della loro forza. Soprattutto, questa mobilitazione ha accentuato la crisi di egemonia che si approfondisce in Francia da anni, mostrando in particolare a che punto il potere macroniano è isolato socialmente. Essa ha cristallizzato lo scontento sociale che non trovava le strade per esprimersi politicamente, e ha trasformato in rabbia legittima la sfiducia generalizzata di una gran parte della popolazione – in particolare della classe lavoratrice e dei giovani – contro Macron e il suo governo.

Di conseguenza, la posta in gioco non è più soltanto la controriforma delle pensioni. Non è più semplicemente “sociale” nel senso ristretto di sindacale. Si tratta di una questione eminentemente e pienamente politica: non appena diventa nazionale, coinvolge una vasta dimensione sociale e si radica in modo durevole, il movimento si afferma come un confronto non con questo o quel capitalista (come nel caso di una lotta contro dei licenziamenti o la cancellazione di posti di lavoro in un’impresa), non con tale o talaltra misura settoriale (per quanto importante sia), ma con l’insieme della classe borghese in quanto rappresentata (e difesa) dal potere politico. In questo senso, un movimento tale arriva quasi ad aprire una breccia nell’ordine politico modificando durevolmente i rapporti di forza tra le classi.

 

Del resto è nella natura di un grande movimento popolare di mescolare le categorie nelle quali si vorrebbe incasellare artificialmente la lotta di classe, separando un livello “politico” da un lato e uno “socio-economico” dall’altro. Ogni lotta di massa, e quella che noi viviamo non è un’eccezione alla regola, si rivela così inscindibilmente sociale e politica; essa tende inevitabilmente a darsi come obiettivo logico il potere politico e i grandi interessi che questo incarna: i possidenti, gli sfruttatori, la classe dominante. Essa è allo stesso tempo ideologica e culturale, nella misura in cui rimette in discussione le narrazioni (piccole o grandi) che accampano i dominanti per giustificare tale o tal’altra controriforma, o più estesamente il loro ordine sociale col suo corollario di ingiustizie, alienazione e violenze. Ma lo è – ideologica e culturale – anche nel senso che permette che si ingaggi una battaglia tra due concezioni contrapposte del mondo, e che si diffondano delle visioni alternative di ciò che dovrebbe essere la società, i rapporti umani, le nostre vite.

Il movimento attuale sale sulle spalle di tutte le mobilitazioni che l’hanno preceduto, almeno quelle che hanno segnato il ciclo di lotte iniziato a metà degli anni Dieci: in particolare la battaglia di Notre-Dame-des-Landes, la lotta contro la Loi Travail [riforma del lavoro del 2016 che ha facilitato i licenziamenti e precarizzato il lavoro, n.d.t.], i Gilets gialli [movimento di protesta contro il caro benzina scatenatosi a Novembre del 2018 soprattutto nelle regioni più provinciali del Paese, ndt], le mobilitazioni femministe contro le violenze sessiste e sessuali e più in generale l’oppressione di genere, il movimento del 2019-2020 contro la riforma delle pensioni, le lotte dei sans-papiers o ancora le battaglie (in particolare antirazziste) contro i crimini polizieschi e l’insieme delle violenze di Stato. Esso ne integra, articola e sviluppa gli assunti, sia sul piano dei metodi e delle tattiche di lotta sia sul piano ideologico.

 

Una differenza non trascurabile risiede, tuttavia, nell’incremento di forza e nell’accresciuta combattività della sinistra parlamentare, in particolare dei 74 parlamentari de La France Insoumise, che hanno contribuito fortemente a politicizzare e radicalizzare una mobilitazione che la maggior parte dei sindacati – in particolare la CFDT – voleva mantenere su un piano strettamente “sociale”. Possiamo quindi rallegrarci del fatto che la maggior parte delle nuove e dei nuovi eletti LFI – pensiamo a Rachel Keke o Louis Boyard – non abbiano in nessun momento tentato di opporre la battaglia parlamentare (con i suoi propri strumenti) ai metodi classici della lotta di classe: manifestazioni di strada, picchetti di sciopero (ai quali abbiamo visto a più riprese queste deputate e deputati, compresa la presidente del gruppo parlamentare LFI Mathilde Panot), e occupazioni (in particolare di licei e università ma anche di assi stradali).

Tutti i nostri sforzi devono essere tesi verso l’obiettivo di allargare ancora e intensificare il movimento, al fine di ottenere una vittoria. Noi non sappiamo fin dove possiamo arrivare, ma sappiamo che l’obiettivo minimo è quello di far indietreggiare il governo sulla sua controriforma. Nei mesi e anni a venire, una tale vittoria conterà il doppio o il triplo, proprio perché Macron ha voluto fare di questa controriforma la madre delle battaglie, una prova di forza che permettesse di rafforzare il suo potere fino alla fine del suo mandato, e di intraprendere la distruzione totale delle conquiste della classe lavoratrice del XX secolo. Da thatcheriano che ha ben appreso le lezioni della controrivoluzione neoliberale, Macron sa che deve sgretolare i settori più combattivi del movimento sociale al fine di far sprofondare in modo duraturo nella sfiducia quelle e quelli che attualmente si mobilitano, costruiscono gli scioperi e manifestano, bloccano e fanno blocco, con la speranza – vaga o fondata – di un mondo di uguaglianza e giustizia sociale.

In questo scontro, il potere macroniano ha già mostrato – con le sue dichiarazioni e nei fatti – che è pronto ad andare fino in fondo, contribuendo del resto alla politicizzazione del movimento grazie ad una repressione poliziesca a tutto campo. Demolendo le illusioni concernenti il nuovo “schema di mantenimento dell’ordine” e la nomina a Parigi di un prefetto di polizia considerato meno brutale dell’infame Lallement, la polizia si è caratterizzata in effetti in questi ultimi giorni per l’estrema brutalità dei suoi interventi – una brutalità normalizzata e resa consuetudinaria nel corso dei dieci ultimi anni, tanto che non si tratta in alcun modo di “sbandate” o di “sviste” ma di azioni ordinarie di una polizia largamente fascistizzata.   Ma l’azione poliziesca si caratterizza anche per un disorientamento netto di fronte al numero e alla determinazione delle e dei manifestanti nella fase che ha seguito l’imposizione del 49-3.

 

Portatore di un progetto largamente minoritario nel paese, impostosi attraverso una serie di forzature istituzionali tipiche della Quinta Repubblica (la cui Costituzione si situa, com’è noto, a buona distanza da tutti gli standard, anche minimi, di una democrazia), destabilizzato dall’accumularsi di video e testimonianze delle violenze di Stato, il Macronismo, con i suoi ideologi in testa, non riesce palesemente più a convincere che la violenza sarebbe dalla parte delle e dei manifestanti, e che le violenze poliziesche si ridurrebbero a un mito inventato dai barbari assetati di sangue di poliziotto. A dimostrazione del fatto che il monopolio della violenza legittima è un meccanismo sempre e solo “rivendicato” dallo Stato, per usare la famosa definizione di Max Weber, e che a volte, quando il “successo” evocato in questa definizione non arriva, il meccanismo si inceppa.

 

Sia attraverso l’uso di queste manovre che attraverso la repressione estremamente brutale del movimento negli ultimi giorni, il governo stesso ha aperto una breccia a favore di una campagna democratica contro l’autoritarismo e per le libertà politiche. In stretta continuità con il primo quinquennio di Macron e con i governi Hollande-Valls, questi colpi di mano permettono una critica di massa delle istituzioni bonapartiste della Quinta Repubblica;pongono la necessità di una rottura con l’attuale quadro costituzionale, attraverso un’Assemblea Costituente; mostrano infine la necessità e possibilità di una democrazia reale (che presuppone, tra l’altro, l’articolazione con la questione sociale).

Si sono aperti dibattiti legittimi sulla definizione dell’attuale situazione sociale e politica. Sia Juan Chingo sia Frédéric Lordon parlano di un “momento pre-rivoluzionario”, presagendo il passaggio a una situazione o a un processo rivoluzionario vero e proprio, che ci assicurano essere in vista, come se bastasse “dare una piccola spallata al sistema perché tutto crolli” (Jacques Rancière). La conseguenza di questa affermazione, almeno nel primo articolo citato, è che il principale (o addirittura l’unico) ostacolo all’avvio di una battaglia rivoluzionaria da parte del proletariato sarebbe d’ora in poi rappresentato dalle “direzioni sindacali”, o detto in modo ancora più unificante: “la direzione del movimento operaio”, cioè l’intersindacale [unità d’azione dei sindacati confederali e di base contro la riforma delle pensioni, ndt].

 

Infatti, ci viene detto che nella misura in cui il proletariato “nel suo insieme” sarebbe stato radicalizzato nel contesto del movimento, il potere non reggerebbe più se non attraverso la capacità delle direzioni sindacali di incanalare e indebolire la rabbia sociale: “l’intersindacale agisce come l’ultima valvola di emergenza del regime della Quinta Repubblica in crisi”. E ancora: “Possiamo quindi tranquillamente affermare che il principale ostacolo alla trasformazione del “momento” pre-rivoluzionario in una situazione apertamente pre-rivoluzionaria, o addirittura rivoluzionaria, risiede nella dirigenza conservatrice e istituzionale del movimento operaio”.

 

Questa tesi va presa in considerazione perché, anche se le correnti o le organizzazioni che assumono questa linea sono molto deboli, i problemi che pone riflettono preoccupazioni condivise da un pubblico più ampio, tra i settori più combattivi del movimento sociale, con conseguenze evidenti: se prendiamo sul serio tali affermazioni, ne consegue necessariamente che la denuncia immediata di questa “dirigenza del movimento operaio” acquista un ruolo assolutamente centrale per tutti coloro che lavorano per un cambiamento radicale della società, così come la costruzione di una dirigenza del movimento alternativa a quella intersindacale.

Il primo errore in questo ragionamento è quello di sottovalutare alcuni limiti della mobilitazione, che vanno invece giustamente presi sul serio per superarli diversamente che non con semplici trucchi retorici, che servono solo a convincere i convinti, o con un appello al volontarismo che otterrà solo il sostegno di chi è già pronto ad agire.

 

Gli attuali limiti del movimento fanno sì che questo potrebbe essere in grado di far arretrare Macron sul suo progetto di controriforma e potenzialmente, in caso di vittoria, su tutte le controriforme previste per il suo quinquennio, ma non – almeno in questa fase – di aprirsi a una situazione rivoluzionaria. Perché il volontarismo militante di una minoranza, se pur assolutamente necessario, non basta da solo a superare queste debolezze e a passare dalla protesta sociale – per quanto ampia e radicale – alla rivoluzione; anche in una situazione che, come la nostra, richiede oggettivamente una rottura politica e una trasformazione rivoluzionaria, in senso ecosocialista, femminista e antirazzista.

 

Una rivoluzione non è mai “chimicamente pura”, o fedele a un manuale scritto una volta per tutte, ma presuppone alcuni elementi senza i quali parlare di “momento pre-rivoluzionario” si rivela essere più un pio desiderio (o una tattica di autolegittimazione per piccoli gruppi militanti) che una vera e propria ipotesi strategica. Nella misura in cui la caratteristica fondamentale e distintiva di una rivoluzione è l’apparizione più o meno definita di una dualismo di poteri (tra lo Stato borghese e le forme di potere popolare esterne allo Stato, ma anche all’interno dello Stato stesso), i momenti prerivoluzionari presuppongono alcuni ingredienti: un conseguente blocco dell’economia, un livello significativo di autorganizzazione, un inizio di centralizzazione e di coordinamento nazionale dei movimenti in lotta, nonché crepe nell’apparato statale e, più in generale, nella classe dominante.

 

Ma tutti questi elementi mancano proprio nel movimento attuale:

 

– Solo pochi settori dell’economia stanno sperimentando una vera e propria attività di sciopero (e ancor meno uno sciopero illimitato), settori essenzialmente pubblici o parapubblici (netturbini, ferrovie dello stato SNCF, azienda pubblica dell’elettricità EDF, Educazione Nazionale, etc.), e quasi tutte le grandi aziende private non sono affatto in sciopero, anche nei giorni di maggiore mobilitazione sindacale (tranne in alcuni settori come le raffinerie).

 

– Anche nei settori in cui lo sciopero ha assunto una certa dimensione, l’autorganizzazione nel quadro delle assemblee generali e dei comitati di sciopero è molto debole, anche rispetto ai movimenti precedenti.

 

– Sono emersi raggruppamenti di attiviste/-i di diversi settori (come nel 2019-2020, tra l’altro), ma sono estremamente minoritari rispetto alla scala del movimento (per non parlare della classe operaia nel suo complesso), soprattutto se paragonati alle “interpro” (assemblee interprofessionali) del dicembre 1995; sembrano più uno strumento di piccoli gruppi militanti per aumentare il loro pubblico e legittimarsi, piuttosto che un mezzo reale per influire sull’estensione e l’intensificazione dello sciopero.

 

– Infine, l’apparato statale resiste (in particolare l’apparato repressivo: polizia-esercito-giustizia) e i padroni continuano a sostenere Macron (anche se sembra che, dal loro punto di vista, questa controriforma non appaia come particolarmente urgente).

 

Tutti questi limiti non svalutano in alcun modo il movimento attuale, e può darsi che le prossime settimane ci permettano di andare oltre la situazione attuale e di superare certi limiti, ma la corretta definizione dei compiti e della strategia dipende dalla correttezza dell’analisi. A questo proposito, non ci si può accontentare delle parole.

Un secondo errore, da cui deriva in realtà il primo, è quello di pretendere che sia già risolto quello che dovrebbe al contrario costituire un importante problema strategico per il movimento, ma anche per le organizzazioni sindacali e politiche nel prossimo periodo. Affermando che negli ultimi due mesi abbiamo assistito alla “radicalizzazione del proletariato nel suo complesso”, ignoriamo il fatto che l’ostilità generalizzata e virulenta nei confronti di Macron non equivale in alcun modo a una coscienza anticapitalista di massa. Anzi, è importante lottare contro un’eccessiva personalizzazione e psicologizzazione delle questioni intorno alla figura di Macron, che ne viene fuori come un “pazzo”, uno “squilibrato” o un “sociopatico” quando invece è soprattutto un commesso del capitale, e in particolare del capitale finanziario. Ma soprattutto si sottovaluta il fatto che una grande maggioranza del proletariato di fatto non si sta mobilitando.

 

Nella loro quasi-totalità, i lavoratori sono sicuramente contrari alla controriforma e ostili a Macron, ma finora la maggioranza è rimasta inattiva. Solo una piccola parte della classe è scesa in piazza e la stragrande maggioranza non ha attraversato il Rubicone dello sciopero – per valide ragioni materiali (insicurezza salariale, salari stagnanti da tempo, inflazione galoppante), ma anche a causa della repressione antisindacale che in molte aziende ha indebolito le squadre militanti, dell’impatto combinato della Loi Travail, delle ordinanze di Macron (che hanno destrutturato e limitato le risorse sindacali, in particolare nel settore privato), a cui si aggiunge l’amaro ricordo delle precedenti sconfitte. Inoltre, il livello di autorganizzazione è generalmente più basso rispetto ai movimenti precedenti (compresi quelli recenti come quello del 2019-2020, in particolare alla SNCF, e a maggior ragione rispetto a quello del dicembre 1995), e i coordinamenti interprofessionali sono inesistenti, molto deboli e senza continuità.

 

Il movimento popolare si è effettivamente sviluppato in modo più autonomo dopo l’imposizione del 49-3 [legge che consente l’adozione di un progetto senza voto parlamentare, ndt], organizzando azioni quotidiane quasi ovunque in Francia senza l’avallo dell’intersindacale e utilizzando metodi di lotta più offensivi, le assemblee generali sembrano essere più numerose negli ultimi giorni, ma è ancora l’intersindacale a dettare il tono e il ritmo del movimento, e attualmente nessuno è minimamente in grado di contestargli questo ruolo.

 

Si potrebbe obiettare che, anche in un processo rivoluzionario, gli sfruttati e gli oppressi non si mobilitano mai nella loro totalità. Ma, per prendere il solo caso della Francia, si stima che nel maggio-giugno del ’68 ci fossero fino a 7,5 milioni di lavoratrici e lavoratori in sciopero (e 10 milioni di persone mobilitate), in un Paese che aveva un numero di salariate/-i molto inferiore a quello attuale (circa 15 milioni contro gli oltre 26 milioni di oggi). A causa del blocco dell’economia su larga scala durante diverse settimane, del gran numero di occupazioni dei luoghi di lavoro e dell’iniziale confusione del potere politico, la situazione presentava aspetti pre-rivoluzionari (nonostante i limiti dell’autorganizzazione, che non ha permesso la nascita di consigli operai), e questo ha fornito compiti di natura del tutto specifica alle attiviste e agli attivisti convinte/-i della necessità di una rottura rivoluzionaria (all’interno del PCF e delle organizzazioni di estrema sinistra).

Le difficoltà del movimento non si spiegano con il ruolo nefasto svolto dall’intersindacale, anzi. Su questo punto, non possiamo accontentarci di un ragionamento perfettamente circolare che consiste nel dire: non ci sono organismi autorganizzati, perché l’intersindacale dirige il movimento; e se è l’intersindacale a dettare il  tono e il ritmo del movimento, è perché non ci sono organismi autorganizzati.

 

L’ipotesi della direzione del movimento operaio traditrice che impedisce la trasformazione del movimento in un vero processo rivoluzionario aveva almeno una base oggettiva nel 1968, degna di essere discussa. In Francia, all’epoca, esistevano potenti sindacati operai, il principale dei quali – la CGT – era guidato da un partito comunista ampiamente radicato nella classe operaia e con un ampio consenso elettorale (oltre il 20%). In effetti, nel maggio-giugno 1968, il PCF ha ostacolato le forme di autorganizzazione che sarebbero potute emergere nelle aziende, a favore di una pratica generalmente passiva dello sciopero (in cui le lavoratrici e i lavoratori erano invitati a non intervenire direttamente e a lasciare che fossero i funzionari sindacali a guidarlo). Il partito rifiutava inoltre di prendere iniziative coraggiose che avrebbero potuto permettere di porre la questione del potere e di un governo di rottura, soprattutto durante i pochi giorni o le settimane in cui il governo di Charles de Gaulle sembrava allo stremo, stordito dalla portata dello sciopero delle lavoratrici e dei lavoratori e dalla determinazione del movimento studentesco.

 

Oggi la situazione è radicalmente diversa: i sindacati sono molto indeboliti, almeno rispetto al ’68, e non esiste più un partito operaio di massa. Se accettiamo l’ipotesi di Juan Chingo, questa situazione dovrebbe aprire un’autostrada per la costruzione di un vero sciopero generale. È vero invece il contrario, perché è nei settori e nelle imprese dove c’è il maggior numero di iscritti al sindacato e dove continuano a essere presenti i sindacati combattivi (in genere CGT, Solidaires e/o FSU) – anche perché non possiamo fare un unico fascio di tutti i sindacati, né di  tutte le “direzioni sindacali” – che si esprime complessivamente la conflittualità più forte. Al contrario: i settori e le aziende privi di presenza sindacale, lungi dall’essere quelli in cui si esprimerebbe una presunta disponibilità delle masse all’azione radicale non ostacolata dalle famose “dirigenze del movimento operaio”, sono quelli in cui regnano l’atomizzazione, la passività, lo pseudo-consenso manageriale e in cui prospera persino il voto di estrema destra.

 

Anche nelle università vediamo quanto vale questa ipotesi: anche se i sindacati sono molto deboli, le attiviste e gli attivisti presenti hanno le maggiori difficoltà, almeno finora, a far emergere un quadro di ampia autorganizzazione (la maggior parte delle assemblee generali ha mobilitato fino a poco tempo fa solo poche centinaia di studenti); e anche nelle università in cui di recente delle assemblee generali piuttosto frequentate hanno avuto luogo (Tolbiac, Mirail), il poco radicamento delle organizzazioni studentesche indebolisce l’allargamento e l’autorganizzazione del movimento1.

In altre parole, se il proletariato e la gioventù, nel loro insieme, fossero già radicalizzati, e se le dirigenze sindacali costituissero l’unico tappo da far saltare per lanciare un’offensiva rivoluzionaria, vedremmo lo sviluppo di lotte radicali e di forme avanzate di autorganizzazione nei settori in cui il radicamento sindacale è più debole, in altre parole dove la presa delle dirigenze sindacali è più fragile. Nulla di più lontano dalla realtà attuale.

 

L’ipotesi della sostituzione di una dirigenza veramente rivoluzionaria alla dirigenza sindacale (riformista) ha tutti i vantaggi della semplicità e tutti gli svantaggi del semplicismo (se non dell’irrealismo, quando si pensa che la famosa “dirigenza rivoluzionaria alternativa” sia il prodotto del lavoro di costruzione autoreferenziale delle micro-organizzazioni). Certo, possiamo pensare che una politica più combattiva dell’intersindacale – il rifiuto di organizzare solo singole giornate di sciopero, un netto appello a continuare lo sciopero giorno per giorno e a partecipare alle assemblee generali – avrebbe subito permesso una mobilitazione più offensiva in certi settori dove i sindacati sono radicati (anche se ciò non è per nulla garantito), ma d’altronde qui tocchiamo i limiti del quadro dell’attuale mobilitazione, che costituisce anche uno dei suoi punti di forza: la mantenuta unità del fronte sindacale, senza la quale il movimento probabilmente non avrebbe né assunto queste dimensioni, né raccolto questo consenso nella popolazione.

 

Nel periodo attuale e futuro, le sfide e i compiti sembrano essere di tutt’altra natura per le attiviste e gli attivisti che non vogliono rinunciare né alla prospettiva rivoluzionaria, né al lavoro all’interno del movimento reale: estendere il radicamento sindacale al di là dei settori attualmente mobilitati, rafforzare le “ali di sinistra” all’interno delle organizzazioni sindacali (i sindacati o le sensibilità rivolte alla lotta di classe), contribuire all’ascesa di nuove correnti o movimenti radicali (al di fuori delle organizzazioni tradizionali, ma in articolazione con e non in opposizione ad esse), approfondire il lavoro politico-culturale che permette di passare dall’odio per Macron alla critica del sistema nel suo complesso, e infine alla necessità di una rottura anticapitalista per costruire una società completamente diversa.

1. Tanti studenti partecipano alle manifestazioni, ma senza discutere collettivamente del movimento nel quadro delle assemblee generali (e a maggior ragione dei comitati di sciopero o di mobilitazione), e quindi senza decidere le iniziative future (in particolare per estendere il perimetro delle studentesse e degli studenti mobilitate/-i), limitando gli effetti di politicizzazione che ogni movimento di questa portata necessariamente produce.

L’estrema dispersione dei livelli di coscienza politica tra le lavoratrici e i lavoratori e le/i giovani è uno dei punti centrali dell’attuale situazione. La prospettiva di una rottura anticapitalista e di un’altra società è certamente avanzata nella popolazione durante gli anni 2016-2023, ma non cresce affatto alla stessa velocità dell’odio viscerale verso il potere politico e, in particolare, verso Macron. Tanto che il sentimento anti-Macron in generale, e l’ostilità verso la sua controriforma delle pensioni in particolare, possono avvantaggiare l’estrema destra.

 

Un sondaggio abbastanza recente (fine febbraio) dava Marine Le Pen come principale oppositrice del progetto di controriforma di Macron (leggermente in vantaggio su Jean-Luc Mélenchon), in particolare tra le classi popolari, anche se il Rassemblement National (RN) non propone in nessun modo l’età pensionabile a 60 anni e si oppone agli scioperi illimitati. Un sondaggio appena pubblicato lo conferma, suggerendo che Front National/Rassemblement National potrebbe essere la forza politica che beneficerà maggiormente del rifiuto della controriforma delle pensioni. Ciò rimanda ovviamente a cause profonde e a una storia già lunga di radicamento elettorale e di diffusione ideologica, ma non se ne comprenderebbe il motivo se non si prendesse sul serio il modo in cui, negli ultimi anni, le élite politiche e mediatiche non hanno smesso un secondo di legittimare l’estrema destra e di banalizzare le sue “idee”, e, d’altra parte, di demonizzare la sinistra (in particolare La France Insoumise).

 

In alcuni movimenti si sono verificate sedimentazioni parziali di una coscienza politica, ma che riguardano solo in minima parte le classi e le frazioni di classe che ne costituiscono il centro di gravità. Così, i Gilet Gialli sono stati teatro di un processo di chiarimento e radicalizzazione politica, cosa che però ha permeato solo una frangia limitata delle classi popolari, anche all’interno delle frazioni più favorevoli al movimento, in particolare nelle aree rurali o semi-rurali e nelle piccole città. Ciò è indubbiamente tanto più vero in quanto esiste un forte divario tra l’adesione al movimento (che può essere estremamente ampia, come nel movimento attuale e, in misura minore, all’inizio dei Gilet Gialli) e l’effettiva partecipazione alle mobilitazioni (soprattutto quando questa partecipazione si riduce a una o più manifestazioni, i cui effetti politicizzanti sono molto inferiori rispetto a uno sciopero, a maggior ragione quando quest’ultimo è di lunga durata e si basa su un’ampia partecipazione alle assemblee generali).

 

Uno dei problemi seri per la sinistra sociale e politica consiste quindi nel riuscire a mantenere e approfondire il movimento dove si è rafforzato, estendendolo al contempo a settori o frange della gioventù in cui il livello di coscienza di classe – dato dal fatto di organizzarsi collettivamente, in particolare sindacalmente, e di mobilitarsi per i propri interessi, sulla base di una rappresentazione più o meno chiara e coerente di questi interessi – è a un livello molto più basso. In questi ultimi settori e in queste ampie parti della popolazione, la posta in gioco è lontana mille miglia dai grandi proclami sul “momento pre-rivoluzionario”: serve riuscire ad attirare un gran numero di lavoratrici e lavoratori verso una prima giornata di sciopero e di manifestazione, riuscire a farli partecipare a un’assemblea generale per decidere collettivamente le modalità di azione, etc. In questa prospettiva, lo slogan meccanico e astratto della denuncia delle “direzioni traditrici” non è solo una falsa pista, ma il più delle volte un ostacolo.

Si pone ovviamente la questione dell’esito politico del movimento. Le mobilitazioni sociali – per quanto massicce e radicali possano essere – non generano spontaneamente prospettive politiche, a maggior ragione quando eludono volontariamente la questione del potere e del necessario confronto politico con le classi proprietarie (atteggiamento che Daniel Bensaïd chiamava “illusione sociale”). Ciò è ancora più vero in questo caso, in quanto il movimento finora è caratterizzato da un basso livello di autorganizzazione e coordinamento. Questo non significa che i movimenti sociali debbano accontentarsi di un ruolo subordinato alle forze politiche, che da sole sarebbero in grado di proporre delle prospettive. È piuttosto nel quadro di una dialettica di collaborazione-confronto tra movimento sociale e sinistra, di un’unità che non impedisce in nessun modo il dibattito più aperto su orientamenti e prospettive, che dobbiamo immaginare una proposta politica di rottura.

 

Cominciamo dicendo quanto la prospettiva di un referendum di iniziativa condivisa (RIR) [forma particolare del processo legislativo francese, che consente l’espressione dell’elettorato su un disegno di legge attraverso una raccolta di firme di supporto. Per avviare un esame parlamentare o un referendum, è necessario il sostegno di un quinto dei membri del Parlamento inizialmente, poi il 10% degli elettori. L’avvio della procedura spetta solo ai parlamentari quindi, il sostegno degli elettori interviene in un secondo momento, ndt], difesa in particolare dal PCF, sia ben lontana dal potenziale del movimento, si riveli profondamente irrealistica da un punto di vista pratico, e non risponda in alcun modo all’imperativo, per la sinistra, di proporre una soluzione alla crisi politica. Si tratterebbe di raccogliere 4,8 milioni di firme, il che richiederebbe un grande lavoro militante nell’arco di nove mesi. Questo dirotterebbe le energie verso un terreno puramente petizionario; attualmente però l’obiettivo è quello di ampliare la mobilitazione, proprio mentre il Macronismo sta annunciando nuovi progetti mortiferi (non solo la legge Darmanin [una legge sull’immigrazione che peggiora le condizioni di vita e lavoro delle e dei migranti, ndt] ma anche una legge sul lavoro e l’occupazione). Inoltre, anche se si raccogliessero le 4,8 milioni di firme, la proposta di referendum dovrebbe comunque essere esaminata dalle due camere entro sei mesi… In altre parole, la situazione cambierebbe radicalmente nel frattempo, forse a svantaggio del movimento, per cui una simile proposta non aiuta in alcun modo ad amplificare il triplice vantaggio che la mobilitazione possiede qui e ora: uno sciopero radicato in diversi settori chiave, una mobilitazione multiforme diventata inafferrabile negli ultimi dieci giorni e un’opinione pubblica ampiamente coinvolta e favorevole.

 

A volte viene avanzata la prospettiva di un “Maggio ‘68 che andrà fino in fondo”. Lo slogan è seducente, soprattutto perché il Maggio ‘68 rimane un riferimento positivo (anche se indubbiamente vago) per ampie fasce della popolazione, in particolare per quelle attualmente mobilitate. Come già detto, tuttavia, non è detto che l’analogia con il Maggio ‘68 funzioni in questo caso, al di là degli effetti agitatori che uno slogan può produrre. Ma è soprattutto l’idea di “andare fino in fondo” che non sembra molto chiara. Se si tratta di dire che dobbiamo andare fino in fondo alle speranze di rottura con il capitalismo e di emancipazione sociale suscitate dal movimento del maggio-giugno ’68, siamo ovviamente d’accordo. Ma questo non risponde alle questioni strategiche immediate che si pongono per il movimento e per la sinistra.

 

Con la politicizzazione della lotta e l’enorme livello di sfiducia nei confronti del potere politico, solo una proposta che articoli il ritiro immediato della controriforma, lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale e l’indizione di nuove elezioni sembra essere all’altezza della posta in gioco, senza cadere nel doppio tranello del massimalismo verbale e del feticismo delle formule del passato. Certo, la rottura politica non può essere ridotta alla scena elettorale, ma come ricordava Daniel Bensaïd: “È abbastanza ovvio, a maggior ragione nei Paesi con una tradizione parlamentare più che centenaria, dove il principio del suffragio universale è solidamente stabilito, che non si può immaginare un processo rivoluzionario se non come un trasferimento di legittimità che dia la preponderanza al ‘socialismo dal basso’, ma in interferenza con le forme rappresentative” (corsivo aggiunto dall’autore).

 

È inteso che è necessario aggiungere a queste parole d’ordine la lotta per un governo di sinistra sulla base di una rottura, il che implica la precisazione di elementi programmatici, in particolare intorno a questioni centrali e immediate per le classi popolari nel loro insieme, e più in generale per le lavoratrici e i lavoratori salariati, ma anche più specificamente per alcune frange al loro interno: pensionamento a 60 anni con stipendio pieno per tutti (a 55 anni per i lavori fisicamente usuranti), aumento immediato dei salari e indicizzazione all’inflazione (scala mobile dei salari), congelamento dei prezzi e degli affitti, assunzione dei lavoratori precari nel settore pubblico e passaggio a contratti a tempo indeterminato nel settore privato, misure proattive contro le discriminazioni sistemiche di genere e razziali in materia di occupazione, salari e pensioni, assunzioni massicce nel servizio pubblico, rinazionalizzazione immediata dei servizi e dei beni pubblici fondamentali (trasporti, energia, sanità, autostrade, etc.), pianificazione ecologica.

 

Si porrebbe necessariamente la questione del rapporto dei movimenti sociali, e in particolare dei sindacati – in particolare quelli in cui continua a esistere un sindacalismo di lotta di classe: la CGT, Solidaires e la FSU – con un tale governo, portando le loro richieste a livello globale. Ogni governo di sinistra con un programma di rottura si troverebbe sotto l’enorme pressione della classe dominante (ricatto sugli investimenti, pressione da parte delle istituzioni europee, etc.). Solo una vasta mobilitazione popolare permetterebbe di controbilanciare, di evitare una capitolazione in campo aperto e di imporre le proposte elencate sopra. Il confronto sociale che si innescherebbe porterebbe con sé una dinamica fondamentalmente anticapitalista, nella misura in cui condurrebbe inevitabilmente, in tempi più o meno brevi, a sollevare la questione del potere del capitale sull’intera società, sulle nostre vite e sull’ambiente, e quindi sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, di scambio e di comunicazione.

 

In caso di nuove elezioni, si aprirebbe una nuova battaglia politica, ma una vittoria del movimento sociale sulla controriforma delle pensioni metterebbe la NUPES [Nuova Unione popolare, ecologista e sociale] in posizione di forza – in particolare la forza dominante al suo interno, che ha indubbiamente dimostrato di essere la più combattiva contro Macron e il suo progetto, ovvero La France Insoumise. Questo non significa affatto una strada a senso unico, poiché le mobilitazioni sociali non hanno mai effetti automatici sui rapporti di forza elettorali (si pensi al maggio-giugno ‘68 e all’elezione della Parlamento più a destra della Quinta Repubblica, solo poche settimane dopo il movimento…). Si è notato sopra che il FN/RN sembra attualmente la forza che più beneficia dell’ampio rifiuto popolare della controriforma, per ragioni di fondo che le effettive pratiche parlamentari dell’estrema destra non riescono a controbilanciare. Va notato, tuttavia, che i sondaggi attualmente in corso si basano sull’ipotesi disfattista – ampiamente accettata dagli intervistati in questa fase – che Macron non si tirerà indietro. Se il movimento dovesse infine vincere, l’ipotesi di un’impennata politico-elettorale della sinistra non sarebbe irrealistica, anche se nulla indica che essa annullerebbe puramente e semplicemente quella dell’estrema destra, data la legittimazione di quest’ultima nel panorama mediatico e nel campo politico.

 

La mobilitazione ha innegabilmente creato una nuova situazione e la possibilità di una biforcazione, nel senso di una dinamica di rottura con l’ordine costituito. Probabilmente non tutto è a portata di mano, ma prospettive che qualche mese fa potevano sembrare fuori luogo, ora sono più vicine. Non ci sarà tregua nei prossimi giorni e nelle prossime settimane di lotta; sta a noi far arretrare non solo il potere politico, ma anche i limiti del possibile.

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