Rassegna Stampa

[Contropiano] Liberali contro populisti, una contrapposizione ingannevole

Fonte: Contropiano
di Serge Halimi – Pierre Rimbert 

Oltre un mese fa, avevamo proposto una analisi della trasformazione del panorama politico europeo in deciso contrasto con lo schema suadente proposto dall’establishment: “europeisti versus nazionalisti”, che qualche imbecille traduceva, ancora più seccamente, in “democratici contro populisti”; fino ai soliti fessi “di sinistra” che lo riscrivevano in “antifascisti versus fascisti”. Dicevamo che era un modo semplice, economico, fasullo, di eliminare l’opposizione e gli interessi di classe. Perché tanto, tra banchieri e fascisti, ci vuole poco a mettersi d’accordo…

Ora esce su Le Monde Diplomatique questa riflessione di Serge Halimi e Pierre Rimbert che, fin dal titolo, individua esattamente la falsità di quello schema. Lo fa con altri presupposti, seguendo un altro filo di ragionamento, ma certifica che quella bipartizione interessata è assolutamente falsa.

La crisi del 2008 non è stata affatto superata e anzi si va ora riproponendo a livello globale. Ma ha sicuramente prodotto sconquassi sociali che si sono quasi immediatamente tradotti in terremoti politici. Se la destra è stata veloce nel cavalcare il malcontento, una delle responsabilità principali va cercata nella nullità intellettuale delle “sinistre”. Che quasi dappertutto, dopo la caduta dell’Urss, si erano autoconvinte che questo era il migliore dei mondi possibili e che bastasse, quindi, suggerire ritocchi qui e là. In Italia, pare, stanno ancora ferme lì (e a superare questo immobilismo mortifero serve Potere al Popolo).

Curioso, infine, il fatto che questa riflessione appaia sulla versione italiana della prestigiosa rivista francese, che viene venduta in edicola insieme a il manifesto. Ovvero alla più classica espressione di questo “immobilismo democratico”.

Buona lettura.

******

Le risposte alla crisi del 2008 hanno destabilizzato l’ordine politico e geopolitico. Le democrazie liberali, a lungo considerate la forma compiuta di governo, sono sulla difensiva. In opposizione alle «élites» urbane, le destre nazionaliste portano avanti una controrivoluzione culturale sul terreno dell’immigrazione e dei valori tradizionali. Ma hanno lo stesso progetto economico dei loro rivali.

 

Budapest, 23 maggio 2018. Stephen Bannon, giacca scura un po’ abbondante e camicia viola aperta su una maglietta, si rivolge a un parterre di intellettuali e notabili ungheresi. «La miccia che ha innescato la rivoluzione Trump è stata accesa il 15 settembre 2008 alle 9, quando la banca Lehman Brothers è stata costretta al fallimento.» L’ex stratega della Casa bianca sa che qui la crisi è stata particolarmente violenta. «Le élite si sono aiutate da sole. Hanno socializzato interamente il rischio, sottolinea Bannon, ex vicepresidente della banca Goldman Sachs, che si fa finanziare le attività politiche da fondi speculativi. Ma la gente comune, chi l’ha salvata?» Questo «socialismo per i ricchi» avrebbe provocato in diversi punti del globo una vera «rivolta populista. Nel 2010, Viktor Orbán arriva al governo in Ungheria»; è stato «Trump prima di Trump».

A distanza di dieci anni, la tempesta finanziaria, il crollo economico mondiale e la crisi del debito pubblico in Europa sono scomparsi dai terminali Bloomberg dove scintillano i grafici vitali del capitalismo. Ma l’onda d’urto ha amplificato due grandi deregolamentazioni. In primo luogo, quella dell’ordine internazionale liberale del dopo guerra fredda, centrato sull’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (Nato), sulle istituzioni finanziarie occidentali, sulla liberalizzazione dei commerci. Anche se, contrariamente alle promesse di Mao Zedong, il vento dell’Est non ha ancora avuto la meglio su quello dell’Ovest, la ricomposizione politica è iniziata: trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, il capitalismo di Stato cinese estende la propria influenza; l’«economia socialista di mercato», che conta sulla prosperità di una classe media in ascesa, lega il proprio futuro alla continua globalizzazione degli scambi, che fa a pezzi l’industria manifatturiera della maggior parte degli Stati occidentali, compresa quella statunitense, che Donald Trump ha promesso fin dal suo primo discorso ufficiale di «salvare dal massacro».

Lo shock del 2008 e le sue repliche hanno scosso anche l’ordine politico che vedeva nella democrazia di mercato la forma compiuta della storia. L’obitorio di una tecnocrazia felpata, delocalizzata a New York e a Bruxelles, che imponeva misure impopolari in nome della propria competenza e della modernità, ha aperto la strada a governi altisonanti e conservatori. Da Washington a Varsavia passando per Budapest, Trump, Orbán e Jarosław Kaczyński rivendicano il capitalismo proprio come Barack Obama, Angela Merkel, Justin Trudeau ed Emmanuel Macron; ma un capitalismo veicolato da un’altra cultura, «illiberale», nazionale e autoritaria, che esalta il paese profondo anziché i valori delle grandi metropoli.

Questa frattura divide le classi dirigenti. È inscenata e amplificata dai media che restringono l’orizzonte delle scelte politiche a questi due fratelli nemici. I nuovi venuti mirano quanto i vecchi ad arricchire le classi ricche, ma sfruttando il sentimento che il liberalismo e la socialdemocrazia ispirano a una frazione spesso maggioritaria delle classi popolari: un misto di disgusto e rabbia.

La risposta alla crisi del 2008 ha messo in evidenza, senza lasciare la possibilità di distogliere gli occhi, tre smentite ai bla-bla sul buongoverno che i leader di centrodestra e di centrosinistra ripetevano dopo la decomposizione dell’Unione sovietica. Né la globalizzazione, né la democrazia, né il liberalismo ne escono indenni.

In primo luogo, l’internazionalizzazione dell’economia non avvantaggia certo tutti i paesi, e nemmeno la maggioranza dei lavoratori salariati in Occidente. L’elezione di Trump ha portato alla Casa bianca un uomo che da tempo è convinto che la globalizzazione, lungi dal giovare agli Stati uniti, ne abbia precipitato il declino e abbia assicurato il decollo dei loro concorrenti strategici. Con il presidente Trump, «prima l’America» ha sostituito la prospettiva «win-win» dei fautori del libero scambio. Il 4 agosto 2018, in Ohio, Stato industriale abitualmente conteso, ma dove nel 2016 Trump aveva ottenuto 8 punti percentuali più di Hillary Clinton, il presidente statunitense ha ricordato l’abissale (e crescente) deficit commerciale del suo paese – «817 miliardi di dollari all’anno!» – per poi fornirne la spiegazione: «Non ce l’ho con i cinesi. Ma loro stessi sono increduli vedendo fino a che punto li abbiamo lasciati agire a nostre spese! Abbiamo davvero ricostruito la Cina; è tempo di ricostruire il nostro paese! L’Ohio ha perso 200.000 posti di lavoro nell’industria da quando la Cina [nel 2001] ha aderito all’Organizzazione mondiale del commercio. Il Wto, un disastro totale! Per decenni, i nostri politici hanno permesso ad altri paesi di rubare i nostri posti di lavoro, di sottrarci ricchezza e di saccheggiare la nostra economia».

Agli inizi del secolo scorso, il protezionismo ha accompagnato il decollo industriale degli Stati uniti, come quello di molte altre nazioni; le tasse doganali del resto hanno finanziato a lungo i poteri pubblici, perché le imposte sul reddito non esistevano prima della prima guerra mondiale. Citando William McKinley, presidente repubblicano dal 1897 al 1901 (fu assassinato da un anarchico), Trump insiste: «Aveva compreso l’importanza decisiva delle tariffe doganali nel mantenimento della potenza di un paese». Ormai la Casa bianca vi ricorre senza esitazioni – e senza preoccuparsi di Wto, Turchia, Russia, Iran, Unione europea, Canada e Cina: ogni settimana porta un nuovo pacchetto di sanzioni commerciali contro vari Stati, amici o no, che Washington ha preso di mira. Invocare la «sicurezza nazionale» consente a Trump di prescindere dall’avallo del Congresso, nel quale i parlamentari e le lobby che ne finanziano le campagne rimangono fedeli all’idea del libero scambio.

La ricomparsa di Fukuyama

Negli Stati uniti, il consenso maggiore è contro la Cina. Non solo per ragioni commerciali: Pechino è anche vista come il rivale strategico per eccellenza. Oltre a suscitare diffidenza per la propria potenza economica, otto volte superiore a quella della Russia, e per le sue mosse espansioniste in Asia, il suo modello politico autoritario fa concorrenza a quello di Washington. Del resto, il politologo statunitense Francis Fukuyama, anche mentre sostiene che la sua teoria del 1989 sul trionfo irreversibile e universale del capitalismo liberale rimane valida, sfuma in questo modo: «La Cina è di gran lunga la sfida più grande alla narrazione circa la “ fine della storia”, perché si è modernizzata dal punto di vista economico pur rimanendo una dittatura. (…) Se, nel corso dei prossimi anni, continuerà a crescere e manterrà il proprio ruolo di maggiore potenza economica mondiale, dovrò riconoscere che la mia tesi è stata definitivamente confutata (1)». In fondo, Trump e i suoi avversari si trovano d’accordo almeno su un punto: per il presidente, l’ordine internazionale liberista costa troppo caro agli Stati uniti; per i secondi, i successi della Cina minacciano di rovinarlo.

Dalla geopolitica alla politica il passo è breve. La globalizzazione ha causato la distruzione di posti di lavoro e la riduzione dei salari occidentali – la cui parte è passata, negli Stati uniti, dal 64% al 58% del prodotto interno lordo (Pil), solo negli ultimi dieci anni, con una perdita annua, dunque, pari a 7.500 dollari (6.500 euro) a lavoratore (2)!

Ma è proprio nelle regioni industriali devastate dalla concorrenza cinese che gli operai statunitensi hanno svoltato maggiormente a destra in questi ultimi anni. Si può certo imputare questa oscillazione elettorale a una serie di fattori «culturali» (sessismo, razzismo, predilezione per le armi da fuoco, ostilità nei confronti dell’aborto e dei matrimoni omosessuali, ecc.). Ma occorre allora chiudere gli occhi su una spiegazione economica almeno altrettanto probante: mentre il numero delle contee nelle quali oltre il 25% degli impieghi dipendeva dal settore manifatturiero è crollato fra il 1992 e il 2016, passando da 862 a 323, l’equilibrio fra i voti democratici e repubblicani vi ha subito una metamorfosi. Un quarto di secolo fa, i voti si ripartivano quasi allo stesso modo fra i due grandi partiti (circa 400 ciascuno); nel 2016, 306 hanno scelto Trump e 17 Clinton (3). L’adesione della Cina al Wto, promossa da un presidente democratico – William Clinton –, doveva affrettare la trasformazione di questo paese in una società capitalista liberale. Ha in primo luogo reso odiosi per gli operai statunitensi la globalizzazione, il liberismo e il voto democratico…

Poco prima del crack di Lehman Brothers, l’allora presidente della Riserva federale statunitense Alan Greenspan spiegava con tranquillità: «Grazie alla globalizzazione, le politiche pubbliche statunitensi sono state ampiamente sostituite dalle forze globali dei mercati. Al di fuori delle questioni della sicurezza nazionale, l’identità del prossimo presidente quasi non importa più (4)». Dieci anni dopo, nessuno ripeterebbe una simile diagnosi.

Nei paesi dell’Europa centrale, la cui espansione si fonda ancora sulle esportazioni, la critica alla globalizzazione non si riferisce agli scambi commerciali. Ma gli «uomini forti» al potere denunciano l’imposizione da parte dell’Unione europea di «valori occidentali» ritenuti deboli e decadenti, perché favorevoli a immigrazione, omosessualità, ateismo, femminismo, ecologia, dissoluzione della famiglia, ecc. Contestano anche il carattere democratico del capitalismo liberale, non senza fondamento, in quest’ultimo caso. In effetti, in materia di uguaglianza dei diritti politici e civili, la questione se le stesse regole si applicassero a tutti oppure no è stata una volta di più risolta nel 2008: «Non sono riusciti a portare avanti nessuna azione giudiziaria contro i finanzieri di alto bordo, fa notare il giornalista John Lancaster. In occasione dello scandalo delle casse di risparmio degli anni 1980, erano state processate millesettecento persone (5)». Nel secolo scorso, i detenuti di un penitenziario francese ironizzavano: «Chi ruba un uovo finisce in prigione; chi ruba un bue va al Palais Bourbon [sede dell’Assemblée nationale, ndT]».

Il popolo sceglie, ma il capitale decide. Governando in senso contrario rispetto alle promesse elettorali, i leader liberali, di destra come di sinistra, hanno confortato questo sospetto praticamente in ogni elezione. Barack Obama, eletto per rompere con le politiche conservatrici dei suoi predecessori, riduce il deficit pubblico, comprime le spese sociali e, anziché introdurre un sistema sanitario pubblico per tutti, impone agli statunitensi l’acquisto di un’assicurazione medica presso una compagnia privata. In Francia, Nicolas Sarkozy posticipa di due anni l’età della pensione, mentre si era formalmente impegnato a non farlo; con la stessa disinvoltura, François Hollande fa votare un patto di stabilità europeo che aveva promesso di rinegoziare; nel Regno unito, il leader dei Partito liberal democratico Nick Clegg si allea, con sorpresa di tutti, con il Partito conservatore, e in seguito, diventato vice primo ministro, accetta di triplicare le tasse universitarie che aveva giurato di eliminare.

Negli anni 1970, alcuni partiti comunisti dell’Europa dell’Ovest suggerivano che, qualora le urne avessero consentito loro di arrivare al governo, sarebbe stato un «biglietto di sola andata»: la costruzione del socialismo non poteva dipendere dalle alee elettorali. La vittoria del «mondo libero» sull’idra sovietica ha messo in pratica questo principio ma con maggiore astuzia: il diritto di voto non è sospeso, ma si accompagna al dovere di confermare le preferenze delle classi dirigenti. Oppure si decide il contrario di quanto votato. «Nel 1992, ricorda il giornalista Jack Dion, i danesi hanno votato contro il trattato di Maastricht: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 2001, gli irlandesi hanno votato contro il trattato di Nizza: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 2005, i francesi e gli olandesi hanno votato contro il trattato costituzionale europeo: il quale però è stato imposto ugualmente, con il nome di trattato di Lisbona. Nel 2008, gli islandesi hanno votato contro il trattato di Lisbona; sono stati obbligati a rivotare. Nel 2015, il 61,3% dei greci ha votato contro il piano di austerità di Bruxelles: glielo hanno inflitto ugualmente (6).»

In quell’anno, giustamente, rivolgendosi a un governo di sinistra eletto alcuni mesi prima e costretto a somministrare un trattamento shock liberista alla sua popolazione, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble riassume l’importanza che attribuisce al circo democratico: «Le elezioni non devono permettere che si cambi la politica economica (7)». Dal suo punto di vista, il commissario europeo agli affari economici e monetari Pierre Moscovici spiegherà successivamente: «Ventitré persone in tutto e per tutto, con i loro vice, prendono – o non prendono – decisioni fondamentali per milioni di altre, nel caso specifico i greci, sulla base di parametri straordinariamente tecnici, decisioni che sono sottratte a qualunque controllo democratico. L’Eurogruppo non deve rendere conto ad alcun governo, ad alcun Parlamento, e soprattutto non al Parlamento europeo (8)». L’Assemblea alla quale, comunque, Moscovici aspira di accedere l’anno prossimo.

Questo disprezzo della sovranità popolare, autoritario e «illiberale», alimenta uno degli argomenti più potenti delle campagne elettorali dei leader conservatori sulle due sponde dell’Atlantico. Al contrario dei partiti di centrosinistra o di centrodestra, che si impegnano, senza dotarsi dei mezzi necessari, a rianimare una democrazia moribonda, Trump e Orbán, come Kaczyński in Polonia o Matteo Salvini in Italia, ne sanciscono l’agonia. Mantengono il suffragio a maggioranza, ma ne stravolgono il significato: all’autoritarismo senza suolo e tecnocratico di Washington, Bruxelles e Wall Street, oppongono un autoritarismo nazionale e disinvolto che presentano come una riconquista popolare.

Un interventismo massiccio

La crisi, oltre a smentire il discorso dominante su globalizzazione e democrazia, ha messo in discussione anche gli assunti circa il ruolo economico dei poteri pubblici. Tutto è possibile, ma non per tutti: di rado una dimostrazione di questo principio è stata offerta con tanta chiarezza quanto nell’ultimo decennio. Creazione monetaria frenetica, nazionalizzazioni, azione discrezionale degli eletti, ecc.: per salvare senza contropartita gli istituti bancari dai quali dipendeva la sopravvivenza del sistema, sulle due sponde dell’Atlantico furono attuate senza batter ciglio una quantità di operazioni considerate impossibili e impensabili. Un interventismo massiccio che ha rivelato uno Stato forte, capace di mobilitare la sua potenza in un campo dal quale sembrava essere stato estromesso (9). Ma il principale obiettivo di questo Stato forte sembrava essere prima di tutto la garanzia di un quadro stabile al capitale.

Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea dal 2003 al 2011, inflessibile quando si trattava di ridurre le spese sociali per riportare il deficit pubblico sotto la soglia del 3% del Pil, ha ammesso che gli impegni finanziari presi alla fine del 2008 dai capi di Stato e di governo per salvare il sistema bancario rappresentavano alla metà del 2009 «il 27% del Pil in Europa e negli Stati uniti (10)».

Le decine di milioni di disoccupati, espropriati, malati ammassati in ospedali privi di farmaci, come in Grecia, non hanno mai avuto il privilegio di rappresentare un «rischio sistemico». «Con le loro scelte politiche, i governi della zona euro hanno fatto precipitare decine di milioni di cittadini negli abissi di una depressione paragonabile a quella degli anni 1930. È uno dei peggiori disastri economici autoinflitti che siano mai avvenuti», fa notare lo storico Adam Tooze (11).

Il discredito della classe dirigente e la riabilitazione del potere dello Stato non potevano che aprire la strada a un nuovo stile di governo. Quando, nel 2010, gli fu chiesto se arrivare al governo in piena tempesta planetaria lo preoccupasse, il primo ministro ungherese sorrise: «No, mi piace il caos. Perché a partire dal caos posso costruire un nuovo ordine. L’ordine che voglio io (12)». Come Trump, i leader conservatori dell’Europa centrale sono riusciti a mettere al servizio dei ricchi la legittimità popolare di uno Stato forte. Anziché garantire diritti sociali incompatibili con le esigenze dei proprietari, il potere pubblico si afferma chiudendo le frontiere ai migranti e proclamandosi garante della «identità culturale» della nazione. Il ritorno allo Stato si esprime con il filo spinato.

Per ora, questa strategia che recupera, stravolge e snatura la domanda popolare di protezione sembra funzionare. Mentre le cause della crisi finanziaria che aveva fatto barcollare il mondo rimangono intatte, nella vita politica di paesi come l’Italia e l’Ungheria o di regioni come la Baviera lo spauracchio è ormai la questione dei rifugiati. Una parte della sinistra occidentale, molto moderata o molto radicale, ma comunque allevata alle priorità espresse nei campus statunitensi, preferisce affrontare la destra su questo terreno (13).

Per contrastare la Grande recessione, i governi hanno messo a nudo il simulacro democratico, la forza dello Stato, la natura molto politica dell’economia e l’inclinazione antisociale della loro strategia generale. Il ramo che li reggeva ne è stato indebolito, come dimostra l’instabilità elettorale che scompiglia le carte della politica. Dal 2014, la maggior parte delle elezioni in Occidente segnala una decomposizione o un indebolimento delle forze tradizionali e, simmetricamente, lo sviluppo di personalità e correnti ieri marginali che contestano le istituzioni dominanti, spesso per ragioni opposte, come Trump e Bernie Sanders, entrambi fustigatori di Wall Street e dei media. Identico scenario al di qua dell’Atlantico, dove i nuovi conservatori giudicano la costruzione europea troppo liberale sul piano sociale e sul tema delle migrazioni, mentre le nuove voci della sinistra, come Podemos in Spagna, La France insoumise o Jeremy Corbyn, leader del Partito laburista nel Regno unito, ne criticano le politiche di austerità.

Gli «uomini forti» non vogliono rovesciare il tavolo, ma solo cambiare i giocatori, perciò possono contare sul sostegno di una parte delle classi dirigenti. Il 26 luglio 2014, in Romania, Orbán annuncia chiaramente le proprie intenzioni in un discorso altisonante: «Il nuovo Stato che stiamo costruendo in Ungheria è uno Stato illiberale: uno Stato non liberale». Ma, contrariamente a quanto hanno continuato a ripetere i grandi media, i suoi obiettivi non si limitano al rifiuto del multiculturalismo come della «società aperta», e della promozione di valori familiari e cristiani. Egli annuncia anche un progetto economico: «costruire una nazione concorrenziale nella grande competizione mondiale dei decenni a venire». «Abbiamo stimato, dice, che una democrazia non debba necessariamente essere liberale e che non è perché uno Stato smette di essere liberale che smette di essere una democrazia.» Prendendo come esempio Cina, Turchia e Singapore, il primo ministro ungherese rinvia dunque al mittente il «There is no alternative» di Margaret Tatcher: «Le società basate sulla democrazia liberale saranno probabilmente incapaci di mantenere la propria competitività nei prossimi decenni» (14). Questo disegno affascina i leader polacchi e cechi, ma anche i partiti di estrema destra in Francia e Germania.

Di fronte al successo eclatante dei loro concorrenti, i pensatori liberali hanno perso superbia e smalto. «La controrivoluzione è alimentata dalla polarizzazione della politica interna, l’antagonismo sostituisce il compromesso. Prende di mira la rivoluzione liberale e le conquiste ottenute dalle minoranze», si inquieta Michael Ignatieff, rettore dell’università dell’Europa centrale a Budapest, un’istituzione fondata su impulso del miliardario liberale George Soros. «È chiaro che il breve periodo del predominio della società aperta è terminato (15)». Secondo Ignatieff, i leader autoritari che hanno come bersaglio lo Stato di diritto, l’equilibrio dei poteri, la libertà dei media privati e i diritti delle minoranze attaccano i pilastri principali delle democrazie.

Il settimanale britannico The Economist, che funge da bollettino di collegamento fra le élite liberali mondiali, concorda con questo punto di vista. Il 16 giugno, si preoccupa per l’«allarmante degrado della democrazia dalla crisi finanziaria del 2007- 2008», ma non accusa in primo luogo né le abissali diseguaglianze di reddito, né la distruzione degli impieghi nel settore industriale provocata dal libero scambio, né il mancato rispetto della volontà degli elettori da parte dei dirigenti «democratici». Attacca invece «gli uomini forti [che] minano la democrazia». Nei loro confronti, auspica il settimanale, «i giudici indipendenti e i giornalisti attivi formano la prima linea di difesa». Una diga striminzita e fragile.

Per molto tempo le classi dominanti hanno tratto vantaggio dal gioco elettorale grazie a tre fattori convergenti: la crescente astensione delle classi popolari, il «voto utile» dovuto alla repulsione ispirata dagli estremi, la pretesa dei partiti centrali di rappresentare gli interessi combinati della borghesia e delle classi medie. Ma i demagoghi reazionari hanno mobilitato una parte degli astensionisti; la Grande recessione ha indebolito le classi medie; gli arbitrati politici dei «moderati» e dei loro brillanti consiglieri hanno scatenato la crisi del secolo…

Il disincanto relativo all’utopia delle nuove tecnologie aumenta l’amarezza di chi sostiene le società aperte. Gli imprenditori democratici della Silicon Valley, fino a ieri celebrati come i profeti di una civiltà liberal-libertaria, hanno costruito una macchina di sorveglianza e di controllo sociale così potente che il governo cinese la imita, per mantenere l’ordine. La speranza di una agorà mondiale promossa dalla connessione universale crolla, per il grande dispiacere di alcuni dei suoi officianti: «La tecnologia, a causa delle manipolazioni che consente, con le fake news, ma soprattutto perché veicola l’emozione più della ragione, rafforza i cinici e i dittatori», si lamenta un editorialista (16).

Ci si avvicina al trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, ma gli eroi del «mondo libero» temono che la festa sarà fiacca. «La transizione verso le economie liberali è stata in gran parte guidata da una élite colta, molto filoccidentale». Ammette Fukuyama. Purtroppo, le popolazioni meno istruite «non sono mai state attratte da questo liberalismo, dall’idea che si potesse avere una società multirazziale, multietnica, nella quale tutti i valori tradizionali sarebbero soppiantati dai matrimoni gay, dall’immigrazione ecc.» (17). Ma chi incolpare per questo mancato effetto traino al seguito della minoranza illuminata? L’indolenza di tutti i giovani borghesi che, si indigna Fukuyama, «si accontentano di rimanere nel proprio guscio, a compiacersi delle proprie larghe vedute, della loro assenza di fanatismo. (…). E si mobilitano contro il nemico solo andandosi a sedere alla terrazza di un caffè, un mojito in mano (18)».

Le fandonie del «capitalismo inclusivo»

In effetti, questo non basta… Né basta il fatto di presidiare i media o di inondare le reti sociali di commenti indignati destinati ad «amici» altrettanto indignati sempre dalle stesse cose. Obama lo ha capito. Il 17 luglio ha esposto un’analisi dettagliata, spesso lucida, dei decenni trascorsi. Ma non ha potuto impedirsi di riprendere l’idea fissa della sinistra neoliberale dopo la sua adozione del modello capitalistico. In sostanza, come aveva ricordato l’ex presidente del consiglio italiano di centrosinistra Paolo Gentiloni a Trump il 24 gennaio 2018 a Davos, «il quadro può essere corretto, ma non cambiato».

La globalizzazione, ammette dunque Obama, è stata accompagnata da errori e rapacità. Ha indebolito il potere dei sindacati e «permesso al capitale di sottrarsi alle tasse e alle leggi degli Stati spostando centinaia di miliardi di dollari semplicemente pigiando un tasto del computer». Benissimo, ma qual è il rimedio? Un «capitalismo inclusivo», illuminato dalla moralità umanista dei capitalisti. Solo questo cauterio su una gamba di legno potrà secondo Obama correggere alcuni dei difetti del sistema. Non vede altri attrezzi a disposizione, e comunque quello, in fondo, gli piace.

L’ex presidente statunitense non nega che la crisi del 2008 e le relative risposte sbagliate (anche da parte sua, immaginiamo) abbia favorito lo sviluppo di una «politica della paura, del rancore e della chiusura», la «popolarità degli uomini forti», e di un «modello cinese di controllo autoritario ritenuto preferibile a una democrazia percepita come disordinata». Ma attribuisce la responsabilità essenziale di queste derive ai «populisti» che sfruttano a proprio vantaggio le insicurezze e minacciano un ritorno del mondo a un «ordine antico, più pericoloso e brutale». In tal modo, egli risparmia le élite sociali e intellettuali (i suoi simili…), che hanno creato le condizioni della crisi, e spesso ne hanno anche approfittato.

Un panorama simile comporta per quelle élite diversi vantaggi. In primo luogo, ripetere che la dittatura ci minaccia consente di far credere che stia ancora regnando la democrazia, benché richieda sempre alcuni aggiustamenti. Più fondamentalmente, l’idea di Obama (o quella, identica, di Macron) secondo la quale «due visioni molto diverse del futuro dell’umanità sono in competizione per conquistare i cuori e le menti dei cittadini di tutto il mondo» permette di occultare quello che le due «visioni» evocate hanno in comune. E cioè, niente di meno che il modello di produzione e di proprietà o, per riprendere le parole stesse del presidente statunitense, «l’influenza economica, politica, mediatica sproporzionata di chi è al vertice». Su questo piano, niente distingue Macron da Trump, come del resto ha rivelato la premura di entrambi, non appena arrivati al potere, nel ridurre le imposte sui redditi da capitale.

Ridurre ostinatamente la vita politica dei decenni futuri allo scontro fra democrazia e populismo, apertura e sovranismo, non recherà alcun sollievo a quella porzione crescente delle categorie popolari che è disincantata nei confronti di una «democrazia» che l’ha abbandonata e di una sinistra trasformatasi in partito della borghesia istruita. Dieci anni dopo lo scatenarsi della crisi finanziaria, la lotta vittoriosa contro l’«ordine brutale e pericoloso» che si disegna richiede tutt’altro. E in primo luogo, lo sviluppo di una forza politica capace di combattere simultaneamente i «tecnocrati illuminati» e i «miliardari arrabbiati» (19). Rifiutando dunque il ruolo di base d’appoggio di uno di questi due blocchi che, ciascuno a modo suo, mettono in pericolo l’umanità.

 

(1) Francis Fukuyama, «Retour sur “La fin de l’histoire ?”», Commentaire, n. 161, Parigi, primavera 2018.

(2) William Galston, «Wage stagnation is everyone’s problem», The Wall Street Journal, New York, 14 agosto 2018. Sulla distruzione dei posti di lavoro dovuta alla globalizzazione, cfr. Daron Acemoğlu et al., «Import competition and the great US employment sag of the 2000s», Journal of Labor Economics, vol. 34, n. S1, Chicago, gennaio 2016.

(3) Bob Davis e Dante Chinni, «America’s factory towns, once solidly blue, are now a Gop haven», e Bob Davis e Jon Hilsenrath, «How the China shock, deep and swift, spurred the rise of Trump», The Wall Street Journal, rispettivamente 19 luglio 2018 e 11 agosto 2016.

(4) Ciatato da Adam Tooze, Crashed: How a Decade of Financial Crises Changed the World, Penguin Books, New York, 2018.

(5) John Lanchester, «After the fall», London Review of Books, vol. 40, n. 13, 5 luglio 2018.

(6) Jack Dion, «Les marchés contre les peuples», Marianne, Parigi, 1 giugno 2018.

(7) Yanis Varoufakis, Adults in the Room: My Battle With Europe’s Deep Establishment, The Bodley Head, Londra, 2017.

(8) Pierre Moscovici, Dans ce clair-obscur surgissent les monstres. Choses vues au coeur du pouvoir, Plon, Parigi, 2018.

(9) Si legga Frédéric Lordon, «Il giorno in cui Wall Street diventò socialista», Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 2008.

(10) «Jean-Claude Trichet: “Nous sommes encore dans une situation dangereuse”», Le Monde, 14 settembre 2013.

(11) Adam Tooze, Crashed, op. cit.

(12) Drew Hinshaw e Marcus Walker, «In Orban’s Hungary, a glimpse of Europe’s demise», The Wall Street Journal, 9 agosto 2018.

(13) Si leggano Pierre Bourdieu e Loïc Wacquant, «La nouvelle vulgate planétaire», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 2000.

(14) «Prime minister Viktor Orbán’s speech at the 25th Bálványos Summer Free University and Student Camp», 30 luglio 2014, http://2010-2015.miniszterelnok.hu

(15) Michael Ignatieff e Stefan Roch (a cura di), Rethinking Open Society: New Adversaries and New Opportunities, Ceu Press, Budapest, 2018.

(16) Éric Le Boucher, «Le salut par l’éthique, la démocratie, l’Europe», L’Opinion, Parigi, 9 luglio 2018.

(17) Citato da Michael Steinberger, «George Soros bet big on liberal democracy. now he fears he is losing», The New York Times Magazine, 17 luglio 2018.

(18) «Francis Fukuyama: “Il y a un risque de défaite de la démocratie”», Le Figaro Magazine, Paris, 6 aprile 2018.

(19) Thomas Frank, «Four more years», Harper’s, aprile 2018. (Traduzione di Marianna De Dominicis)

da Le Monde diplomatique, settembre 2018 in edicola con il manifesto

Lascia un commento