Il 27 novembre, a poche ore dal cessate il fuoco in Libano, le milizie jihadiste di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) hanno lanciato una offensiva dalla regione di Afrin verso Aleppo. Le deboli forze siriane fedeli a Damasco hanno indietreggiato fino ad Hama senza colpo ferire. Nei fatti, siamo di fronte al riaccendersi della guerra in Siria. Questo comunicato è diviso in una prima parte in cui facciamo una fotografia della situazione, e in una seconda parte in cui indichiamo delle direzioni di lotta per fermare l’escalation bellica.
Chi è HTS?
HTS è una scissione di Al-Qaeda, che ha abbandonato la vecchia appartenenza per porsi sotto gli ordini e la guida del regime turco di Erdogan. Le milizie jihadiste sono radicate nella zona di Idlib, conquistata nel 2015 e attualmente roccaforte dell’offensiva turca contro il Governo di Damasco. Ad affiancare HTS c’è l’Esercito nazionale siriano (SNA), anch’esso formato, a dispetto del nome, da jihadisti, e anch’esso dipendente dal governo turco. Il vero protagonista di questa vicenda è quindi Erdogan.
Perchè proprio ora?
La fragile tregua nella guerra siriana era garantita da un equilibrio di forze che la guerra in Ucraina, il genocidio di Gaza e l’invasione del Libano da parte di Israele hanno considerevolmente modificato.
La Turchia insiste infatti su questa incursione in Siria dopo che ultimamente sono falliti degli incontri diplomatici con il governo siriano, ma anche perché ha colto l’attuale debolezza degli alleati di Assad: la Russia in Ucraina, Hezbollah in Libano, l’Iran in tutto il Medio Oriente e sarà obbligato a concentrarsi su una potenziale guerra a casa sua.
Quali sono gli interessi della Turchia? E quelli di Israele?
Se il casus belli è stata la debolezza degli alleati di Damasco, il Governo turco vuole riaffermare il proprio orizzonte strategico neo-ottomano in Medio Oriente, imponendosi a livello internazionale come attore principale dell’area e mandando un chiaro messaggio a USA e Russia. Erdogan vuole inoltre favorire, nelle zone strappate alle forze di Assad, lo spostamento di una parte dei 3,6 milioni di profughi siriani attualmente presenti in Turchia, con il fine nemmeno poco velato di eliminare progressivamente la presenza curda dalle zone di confine, schiacciando la rivoluzione del Rojava e creando una zona cuscinetto abitata da una maggioranza sunnita sotto il controllo dei tagliagole jihadisti. Si tratta di una vera e propria operazione di pulizia e sostituzione etnica finanziata, ricordiamolo, anche dall’UE, che ha fornito a Erdogan ben 6 miliardi dei nostri soldi per trattenere i profughi siriani in Turchia impedendo loro di raggiungere l’Europa.
Anche Israele, che già occupa parte del territorio siriano, ha tutto da guadagnare da questa offensiva turca. Esso non si fa scrupoli ad appoggiare tacitamente l’offensiva delle truppe jihadiste, con l’intento dichiarato di indebolire le linee di rifornimento di Hezbollah, che raggiungono il Libano passando per l’Iraq e poi la Siria. L’obiettivo del criminale di guerra Netanyahu è quello di affermarsi come potenza regionale in grado di tenere sotto scacco tutta la regione, e, “paradossalmente”, questo avviene proprio grazie alle forze islamiche che Israele ha sempre detto di combattere per portare la “democrazia nella regione”: Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, poi Iraq, Yemen, …per colpire direttamente l’Iran. Questo sarà il piano che Netanyahu presenterà a Trump.
Che gli interessi di Erdogan e di Netanyahu, siano spesso coincidenti non è d’altronde un mistero. Condividono sicuramente le stesse amicizie: la Turchia è a tutti gli effetti membro della NATO, e probabilmente il suo attacco è una conseguenza del ritorno di Trump alla presidenza USA, considerando le relazioni favorevoli da sempre intercorse tra i due presidenti. Ma le dinamiche geopolitiche locali sono sempre più intrecciate con gli equilibri globali, poiché l’impegno degli Stati Uniti a mantenere una presenza strategica in Siria, rinforzata da significativi invii di truppe e dimostrata dai nove raid che tra l’11 e il 12 novembre le forze statunitensi avevano condotto contro obiettivi iraniani nell’area orientale di Deir Ezzor, appare indipendente dai cambiamenti nella politica interna americana. A prescindere da chi occupi la Casa Bianca, Washington ha da tempo manifestato la volontà di restare nella regione. Da qui deriva l’insistenza dell’Iran nel cercare di contrastare questa presenza, mentre Israele si conferma il pivot degli interessi occidentali nell’area a costo dell’estensione del conflitto su quelli che Netanyahu nella sessione di settembre dell’Assemblea Generale dell’Onu ha definito “i sette fronti attivi per contrastare l’asse della maledizione. Inoltre, nonostante Erdogan strepiti spesso contro Israele e in solidarietà con i palestinesi, si guarda bene dal recidere i rapporti commerciali con quest’ultimo. Le chiacchiere sono buone per il consenso interno, mentre i fatti dicono altro.
Cosa possiamo fare noi?
Chi sta pagando le conseguenze dell’avanzata dell’occupazione turca e dei giochi di potere di Erdogan e Netanyahu è in primo luogo il popolo siriano. La ritirata delle truppe di Assad, avvenuta quasi senza sparare un colpo, ha lasciato alla mercé dei jihadisti le popolazioni della zona. Già si hanno notizie di donne catturate per essere vendute come schiave, proprio come l’ISIS fece nel 2014 a Mosul, Raqqa e Shengal. Le uniche forze avanzate che stanno difendendo gli esseri umani sono le Forze Democratiche Siriane (SDF), in cui hanno un ruolo centrale le forze di autodifesa, Ypj e Ypg, curde. A essere in pericolo è infatti, nuovamente, la rivoluzione del Rojava, l’unico modello di convivenza tra i popoli dell’area che non a caso Erdogan vuole distruggere. Nata nelle terre a maggioranza curda della Siria del Nord, la rivoluzione ha creato un sistema che promuove l’autogoverno e la democrazia diretta, il protagonismo femminile e la parità di genere e una coesistenza pacifica tra le diverse etnie e religioni dell’area. In un contesto di conflitto e instabilità, il Rojava rappresenta la prova della possibilità di costruire un vero protagonismo del popolo, l’unico attore che può garantire la pace in Medio Oriente, semplicemente perché è l’unico ad averne genuinamente l’interesse.
Mentre scriviamo, le SDF stanno lottando per garantire l’apertura di un corridoio umanitario per far defluire centinaia di migliaia di persone da Tali Rifat verso Raqqa. Si tratta di circa 200.000 profughi, già provati dalla fuga da Afrin, conquistata dalle stesse forze e dall’esercito turco nel 2018. Ad Aleppo, gli abitanti dei quartieri di Sheikh Maqsoud e Ashraf, si sono organizzati per respingere le forze di occupazione, ma rischiano lo sterminio e varie forme di violazione dei diritti umani da parte dei jihadisti, soprattutto nei confronti delle donne. Attualmente, le Sdf stanno facendo pressione sul Governo di Damasco per stringere un’alleanza politica e militare che cambierebbe gli equilibri in campo e costringerebbe i jihadisti a fermare la propria avanzata e probabilmente a ritirarsi. Ma la ritrosia di Assad ad accettare di allearsi con le forze rivoluzionarie rischia di costare molto caro a Damasco e soprattutto alla popolazione siriana.
Ci uniamo ai movimenti, alle organizzazioni popolari e progressiste del nostro paese nel denunciare il supporto che il Governo italiano e l’Unione Europea forniscono a Erdogan e Netanyahu, sia in termini di aiuto finanziario sia in termini di commercio di armi (la Turchia è uno dei principali clienti dell’industria bellica nostrana). Così ci rendiamo complici del massacro di esseri umani in Siria (oltre a quello in Palestina e in Libano), nella disgregazione del Paese e dell’avanzamento di forze islamiche reazionarie. Serve una pressione immediata per chiedere la rottura delle relazioni diplomatiche con la Turchia e lo stop all’export di armi.
Tutto il nostro supporto va invece alla rivoluzione del Rojava e a quelle compagne e ai compagni che in questo momento stanno difendendosi, con ogni mezzo necessario, dall’occupazione turca e jihadista.