Il 21 gennaio abbiamo partecipato allo sciopero dei lavoratori del Gruppo Comdata della sede di Torino. Lo sciopero, articolato in 2 ore al mattino e 2 ore al pomeriggio, ha visto i lavoratori muoversi in corteo al mattino verso l’Ispettorato al lavoro dove una delegazione di RSU e lavoratori hanno esposto le ragioni della loro mobilitazione al Capo dell’Ispettorato Territoriale, dott.ssa Morra, e al pomeriggio presso la sede della Rai per denunciare le irregolarità dell’azienda sugli accordi sindacali nel rispetto dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
Comdata è una multinazionale attiva a Torino dal 1987, proprietà del fondo americano Carlyle, che opera per conto di grandi aziende (come Eni, Santander, Tim..), occupa 43 mila dipendenti in tutto il mondo e fattura circa un miliardo di euro. Non certo un’azienda in difficoltà finanziarie, come evidente dai dati, eppure utilizza costantemente la solita litania della crisi per aggredire fortemente il salario e i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, chiudendo quasi definitivamente le sedi di Pozzuoli e Padova, mettendo a rischio lo stabilimento di Ivrea con la minaccia di circa 200 esuberi e aggravando sempre di più la situazione anche nelle sedi di Livorno e Olbia.
Le lavoratrici e i lavoratori della sede di Torino con cui abbiamo parlato stamattina ci hanno raccontato che la mobilitazione della giornata era incentrata principalmente sulla denuncia di vari tentativi dell’azienda di aggirare gli accordi sindacali e in particolare quanto definito dalla circolare n.4 del 2017 dell’Ispettorato Nazionale del lavoro sul divieto del controllo a distanza dei lavoratori, valido in tutti i settori, ma tema caldo soprattutto nel settore specifico dei call center. L’introduzione di un dispositivo informatico , Mysales, che andrebbe a rendere pubblici tutti i dati di produzione dei dipendenti, soprattutto quelli in linea, oltre a violare l’accordo sindacale nel merito, preoccupa i lavoratori che conoscono bene le dinamiche di ricatto che le aziende possono mettere in atto facendo leva sui numeri e ignorando deliberatamente dati di qualità più difficilmente oggettivabili. Ricatti e punizioni che si sono già visti all’opera contro lavoratori
“scomodi” lasciati a casa a fine contratto perché indisponibili a vedere calpestati i propri diritti, a non accettare di fermarsi di più in ufficio oltre l’orario di lavoro o semplicemente perché ritenevano di avere il diritto di andare al bagno senza che qualcuno, con occhiatacce o minacce di carichi di lavoro aggiuntivi, contesti il numero di volte adeguato.
Negli ultimi anni l’azienda ha utilizzato sempre di più forme di lavoro interinale e contratti di lavoro precari rinnovati a breve scadenza.
Coloro che lavorano in quella azienda da oltre 15 anni ci hanno raccontato che è stato facile accorgersi che tali contratti a termine non sono certo funzionali alla qualità del lavoro o a picchi stagionali ma semplicemente ad una maggiore ricattabilità del lavoratore che, con la speranza di arrivare a stabilizzazione, si vede costretto a sottostare a una mole di lavoro eccessiva o a sentirsi in difetto di produzione e magari saltare qualche pausa. E così, negli ultimi anni, le lavoratrici e i lavoratori accettano di rinunciare a una normale programmazione serena della propria vita costretti ad adeguarsi a turni di lavoro che cambiano continuamente, comunicati di settimana in settimana, a volte anche il giorno prima se c’è una emergenza e con strutture particolarmente gravose che rendono impossibile una serena conciliazione vita lavoro: il turno, cosiddetto spaccato, prevede ad esempio turni da 8 ore giornalieri intervallato però da 4 ore di
pausa in cui il lavoratore è costretto a vagare per la città in attesa di rientrare in azienda con un intervallo che non permette di poter organizzare altro né rilassarsi o riposarsi, tempo perso, sprecato, come se le nostre vite non valessero nulla.
I lavoratori a tempo indeterminato, che pur minacciati meno dai nuovi provvedimenti, sia per una forma contrattuale con maggiori tutele che perché maggiormente in lavori di back office che di linea, hanno aderito massicciamente allo sciopero in solidarietà ai colleghi più ricattabili e colgono bene i tentativi delle aziende di rendere debole la forza dei lavoratori quando ci raccontano che i “nuovi”, quelli con i contratti a scadenza, quelli che non possono dire di no, sono tenuti molto lontani dai lavoratori che rivendicano i loro diritti, (anche banalmente in reparti diversi), ben consapevoli che è nella divisione che si possono aggredire maggiormente diritti e tutele.
I delegati sindacali con cui abbiamo parlato denunciano anche il tentativo maldestro dell’azienda di spostare in un solo giorno intere commesse da una sede all’altra per aggirare il “problema” dei lavoratori in sciopero, provando a neutralizzare l’efficacia dello sciopero e, senza alcun interesse per la qualità del lavoro, sottoponendo a forte pressione altri lavoratori che si sono trovati costretti a gestire richieste dei clienti per le quali non erano stati mai formati. L’intervento degli RSU ha poi costretto l’azienda a tornare indietro sui propri passi e revocare la disposizione.
I lavoratori della sede di Torino non sono interessati attualmente dalla minaccia degli esuberi eppure hanno dimostrato grande maturità e visione di insieme nella mobilitazione che portano avanti: scioperando in difesa dei propri diritti, ma anche in solidarietà con i colleghi delle altre sedi, hanno dimostrato di essere ben consapevoli che accettare qualsiasi attacco ai propri diritti non eviterà necessariamente la perdita del posto di lavoro e soprattutto che non è accettando l’elemosina di un lavoro precario, senza diritti, con turni sempre più lunghi e stipendio sempre più ridotto che migliorerà la loro condizione.
Non è certo secondario, in tale contesto, la parte che le grandi aziende committenti giocano in questo quadro quando ad esempio richiedono alle aziende di ridurre le spese anche del 20% minacciando di spostare commesse altrove provocando quindi matematicamente esuberi per riduzione del volume di lavoro che non è però perso ma semplicemente spostato laddove è possibile una maggiore ricattabilità.
Spostandosi su un piano più generale, i sindacati denunciano il tentativo delle aziende dell’associazione di categoria Asstel di provare a svincolare sempre più i contratti dei lavoratori dei call center dal Contratto Collettivo Nazionale Comunicazione al fine di provare ad erodere sempre più diritti . Tale deriva, che non avviene solo nel campo della comunicazione, sembra non essere contrastata poi dal governo che ha indetto al Ministero dello Sviluppo Economico un tavolo specifico per i call center appoggiando un’ottica che non incoraggia certo la difesa di un CCN ma legittima il dover affrontare una situazione in un’ottica non più di categoria.
Come Potere al Popolo esprimiamo la massima solidarietà ai lavoratori che si battono per la tutela del lavoro e dei loro diritti e ci rendiamo disponibili a qualsiasi tipo di sostegno possa favorire e rafforzare la loro lotta e le loro rivendicazioni. Ad Ivrea il ricatto del posto di lavoro ha fatto sì che i dipendenti abbiano votato a favore dell’accordo sindacale per l’applicazione di un contratto di
solidarietà fortemente penalizzante per tutti. Crediamo che in questo settore sia necessario rilanciare quanto prima un forte ciclo di lotte dei lavoratori come ci dimostrano altri due casi che stiamo sostenendo sul territorio nazionale: i 400 lavoratori dipendenti dell’ azienda crotonese Abramo Customer Care e i lavoratori della Gestion Car di Gianturco (NA) da mesi senza stipendio