Perché abbiamo detto NO al referendum sulla liberalizzazione del trasporto pubblico
È un po’ la moda di questi tempi quella di utilizzare la rabbia e l’esasperazione popolare per ritorcerla contro gli interessi delle classi popolari stesse, alimentando le condizioni che l’hanno prodotta. Grazie a qualche cambiamento nella forma o nei toni si intercetta la diffusa esigenza di cambiamento per portare avanti però le stesse politiche di sempre. O anche peggio. È quanto sta succedendo a Roma, con il referendum promosso dai Radicali per mettere a gara il servizio di trasporto pubblico della città, con tanto di giganteschi cartelloni che raffigurano i famosi autobus in fiamme accompagnati dallo slogan “Basta ATAC!”.
Ma andiamo con ordine. Non c’è persona che viva o lavori a Roma che non sia esasperata da un servizio che anziché migliorare negli anni è peggiorato, come mostrano i dati sulla produzione e sulla soddisfazione dell’utenza dell’Agenzia per il Controllo dei Servizi Pubblici di Roma. Un servizio che è stato abbandonato a sé stesso mentre la città cambiava, aumentando le sue dimensioni e la sua dispersione spaziale. L’aumento degli affitti e della povertà hanno infatti incrementato il pendolarismo, e mentre i vari “palazzinari” speculavano costruendo interi quartieri dormitorio nella campagna romana con il favore di tutte le giunte comunali, la rete di metro e treni non veniva minimamente ampliata. Al contrario, la flotta degli autobus, dei tram e gran parte delle vetture della metropolitana ha continuato a invecchiare senza essere sostituita, raddoppiando la sua età media in meno di dieci anni. Prevedibile risultato sono i continui guasti e l’indisponibilità della gran parte dei mezzi, come testimoniato dai dati ufficiali di ATAC e come ormai hanno cominciato a raccontare anche le cronache giornalistiche, soprattutto dopo i famigerati autobus andati a fuoco (quasi settanta in tre anni!). Il tutto ulteriormente aggravato dal taglio dei costi nelle manutenzioni, anche per via di appalti al ribasso come quello della manutenzione delle scale mobili, emerso clamorosamente a seguito del tragico incidente del 23 ottobre, quando una scala piena di tifosi del CSKA Mosca è collassata causando feriti anche gravi.
A monte di questa situazione c’è il crollo degli investimenti in mezzi e infrastrutture. Un problema nazionale, come scrive in maniera inequivocabile un recente studio della Cassa Depositi e Prestiti: “per anni sono stati quasi azzerati i finanziamenti statali in conto capitale e i vincoli imposti dal Patto di Stabilità Interno hanno compromesso i finanziamenti degli Enti Territoriali al TPL. A ciò si è aggiunta una significativa riduzione delle compensazioni in conto esercizio (-15% a livello medio nazionale dal 2011 al 2015), che ha ulteriormente assottigliato i margini per l’autofinanziamento aziendale.” Problema particolarmente acuto però a Roma, come dimostrano i continui problemi finanziari dell’ATAC, azienda che quando nel 2015 è stata introdotta la disciplina dei “costi standard” ha ottenuto paradossalmente un aumento dei finanziamenti, a dimostrazione di come per anni fosse stata sottofinanziata. Anche il famigerato debito da 1,3 mld di euro, agitato spesso dalla stampa a testimonianza del fallimento dell’azienda, riflette il più generale dissesto delle finanze pubbliche e la volontà delle istituzioni di scaricare sull’azienda, e quindi sul servizio pubblico, i propri problemi economici. Sono infatti il Comune e la Regione i principali creditori dell’azienda e, strano ma vero, anche i principali debitori. E la crisi dell’anno scorso che ha portato alla procedura di concordato preventivo di ATAC (una forma di commissariamento volto a evitare il fallimento) è stata innescata dalla scelta del Comune di non riconoscere quasi 200 mln di euro di debiti che doveva ad ATAC, portando così all’insostenibile rosso di bilancio. Ma questa è un’altra storia.
Quello che conta è che se il “diritto alla mobilità”, di cui ci si ricorda solo quando si tratta di precettare gli scioperi di autisti e macchinisti, è sotto attacco, la colpa è della stessa logica che mette a repentaglio quello allo studio, alla salute, al lavoro. La logica dei sacrifici necessari, del ricatto del debito, dell’austerità. L’operazione dei promotori del referendum parte dalla fine, dallo sfascio che ne consegue e approfitta di questo stesso sfascio per assestare un ulteriore colpo. Senza un piano di investimenti pubblici, senza le assunzioni necessarie ad aumentare il livello di servizio, la famigerata liberalizzazione potrà cambiare il nome di chi lo gestisce ma non potrà cambiare la sostanza. L’unica cosa che cambierà sarà che qualcuno potrà fare profitto sui soldi pubblici, poco importa se quel qualcuno saranno aziende private nel nome o solo di fatto (come BusItalia, di proprietà di FS e probabile candidata). Come d’altronde a Roma già succede con la Roma TPL, che detiene il 20% delle linee di superficie senza differenze nella qualità del servizio, se non in peggio. E con un trattamento discriminatorio per i lavoratori rispetto ai loro colleghi di ATAC in termini di salario e di orario, per non parlare dei ritardi anche di mesi nella trasmissione degli stipendi. E come all’ATAF di Firenze, a seguito della sua acquisizione da parte di BusItalia, i controlli rischieranno di essere solo più difficili, la gestione interna all’azienda, il modo in cui questa spende i soldi pubblici e gestisce il servizio sfuggirà del tutto dalla mano pubblica.
Meglio, penseranno alcuni. Ed è proprio su questo senso comune, per cui pubblico = spreco, che sperano di far leva i fautori del Sì. Un senso comune alimentato dai continui scandali che hanno investito l’azienda pubblica. Come quello di “Parentopoli”, le famigerate assunzioni di parenti e amici tra il personale amministrativo dovute alla giunta Alemanno, e ancora quello dei biglietti “clonati”, in sostanza biglietti che non risultavano nella contabilità dell’azienda e che andavano a rimpinguare le casse dei partiti. Ma ce ne sono altri, nascosti tra i numerosi appalti opachi, oppure manifesti come i buoni uscita milionari di dirigenti strapagati. Al di là del peso economico, in realtà in molti casi contenuto, il problema è quello che questi scandali esprimono: l’uso parassitario dell’azienda da parte della politica, la corruzione e la collusione di una dirigenza strapagata con interessi privati esterni che hanno contribuito a spolparla. Un uso privatistico dell’azienda pubblica che tradisce la missione di utilità sociale che dovrebbe avere e che è incentivata dall’organizzazione dell’azienda stessa, che è quella di una S.p.A. come un’altra.
Il modo in cui vengono raccontati e interpretati tende però a ribaltare la prospettiva. Nello stesso calderone vengono messi manager, politici, sindacalisti, dipendenti, operai. È sicuramente vero che esiste un problema sindacale in ATAC, e che alcuni sindacati siano stati toccati da questi stessi scandali o da altri. Ma questo non vuole che l’azienda sia in mano a loro e tanto meno che sia in mano ai lavoratori. Proprio l’opposto. È per mantenere la pace sociale a fronte di un peggioramento nelle condizioni di lavoro e addirittura di un passo indietro rispetto a diritti acquisiti con anni di lotte, che, come in qualsiasi altra azienda, soprattutto privata, alcuni sindacati vengono cooptati e il loro silenzio scambiato con qualche fetta di torta da spartire o con la possibilità di gestire qualche permesso e qualche turno. E la favola per cui i lavoratori ATAC sarebbero protetti dalla politica per questioni elettorali è contraddetta dalle innumerevoli dichiarazioni di politici di tutte le fazioni che li hanno usati come capro espiatorio per i problemi dell’azienda, spesso inventando di sana pianta dati sul presunto assenteismo o sui costi del personale. E dal controsenso per cui in termini elettorali pagherebbe di più il consenso di qualche migliaio di autisti che quello di centinaia di migliaia di cittadini romani che prendono i mezzi ogni giorno.
Eppure questi luoghi comuni sono tenaci. Nella città di Mafia Capitale, dell’impero economico del Supremo Cerroni, il patron della discarica di Malagrotta, si crede che la collusione tra aziende private e politica possa essere risolta a colpi di bandi e di gare. Che poi sono le stesse che non hanno impedito il raddoppio dei tempi e dei costi di realizzazione della Metro C, o il disastro della Roma TPL. E se non lo si crede si ha almeno la sensazione di poter punire i colpevoli, veri o presunti che siano. Questo è il risultato non solo di trent’anni di egemonia culturale liberista ma soprattutto della nostra assenza. Perché nonostante non siano mancati momenti anche di grande protagonismo da parte dei lavoratori in questi ultimi anni, tra scioperi e manifestazioni, difficilmente la loro voce è riuscita emergere in maniera chiara e raramente si è incrociata con quella dei cittadini.
È per questo che come Potere al Popolo Roma abbiamo deciso di impegnarci in prima linea in questa battaglia. Per sfruttare l’operazione sporca dei promotori del referendum e ribaltarla in un’operazione verità, che denunci le vere cause dei problemi del trasporto pubblico romano. In parte collaborando con un comitato significativamente intitolato “Lavoratori e Utenti per la difesa del trasporto pubblico”, l’unico che vede il protagonismo diretto di lavoratori tra i vari comitati per il No che sono nati. In parte producendo nostre analisi e materiale per provare a puntare il dito sui veri responsabili del disseto del trasporto pubblico di Roma. Tutto ovviamente accompagnato dai volantinaggi, speakeraggi, dibattiti e alcune trovate meno consuete con cui abbiamo provato a divertirci un po’…
L’obiettivo di lungo periodo: resistere a questo attacco per preparare un’offensiva nei confronti di chi ha peggiorato le condizioni del servizio e di lavoro. Trasformare il No al referendum in un Sì al diritto alla mobilità per i centinaia di migliaia di lavoratori, disoccupati, studenti e pensionati della nostra città.
ATAC ha un debito di 1,3 mld, ma gran parte di esso è nei confronti delle istituzioni pubbliche, il Comune e la Regione, che sono a loro volta debitrici nei confronti dell’azienda. Quindi la crisi finanziaria del 2017 che ha poi portato al ricorso al concordato preventivo poteva essere risolta per volontà politica di Regione e Comune, e si è innescata proprio in virtù del disconoscimento da parte del Comune di Roma di più di 200 milioni di euro che doveva ad ATAC.
Negli ultimi anni, infatti, l’azienda aveva registrato bilanci in pareggio o perdite molto contenute. Le perdite molto consistenti degli anni precedenti, risolte con le ricapitalizzazioni da parte del Comune, erano dovute anche al sottofinanziamento di cui è stata vittima per anni, come ha dimostrato l’aumento dei corrispettivi comunali seguito all’introduzione, nel 2015, della disciplina dei “costi standard”.
E le difficoltà dell’azienda sono intrecciata al crollo degli investimenti sul trasporto pubblico dovuto alle politiche di austerity degli ultimi dieci anni.
L’urbanistica della città di Roma è un dato rilevante ai fini della disamina del problema ATAC. Rispetto a Milano ha solo il doppio degli abitanti ma ben 7 volte la sua superficie. Negli anni si è venuta configurando come una città dispersa e frammentata a causa delle speculazioni immobiliari, dell’aumento del costo delle case e della diminuzione dei salari con conseguente decentramento degli abitanti. La città si è espansa mentre le reti infrastrutturali e i servizi rimanevano sostanzialmente invariati.
La ridotta disponibilità di mezzi, autobus con l’età media di 12 anni (il doppio o il triplo di altre capitali europee), i treni di 18 anni(che non vengono mantenuti) e reti su ferro poco capillari devono coprire una superficie vastissima fronteggiando livelli altissimi di traffico e il decadimento dei livelli di servizio della rete stradale.
Una situazione che richiederebbe interventi e investimenti massicci, ma in questi anni si è preferito galleggiare in un mare in tempesta.
Sono due le principali voci di ricavo di ATAC: i finanziamento pubblici diretti da parte del Comune e la vendita dei titoli di viaggio. Nel 2016, i proventi sulla vendita dei biglietti sono stati quasi del 35%, la soglia minima auspicata dalla legge Burlando del ’97. Le entrate consistenti dovrebbero, invece, far capo ai finanziamenti pubblici che da anni stagnano. Invece sono le entrate dovute alla vendita dei titoli di viaggio a essere aumentate progressivamente, da 224 mln a 264 mln dal 2010 al 2016.
Eliminiamo i luoghi comuni: non è vero che a Roma nessuno fa il biglietto, l’evasione media accertata è del 6% ed è difficile che l’evasione reale si discosti troppo da questo dato. A questo va aggiunta la relativa efficacia di qualsiasi politica di lotta all’evasione e i costi della stessa. Il risultato è che sarebbe pressoché impossibile ottenere un aumento maggiore del 2-3% dei ricavi complessivi.
In sostanza, quella della lotta all’evasione è un’operazione propagandistica volta a distrarre lo sguardo dall’inesistenza dei fondi pubblici.
Capri espiatori dei problemi legati all’azienda ATAC. Le campagne diffamatorie e i giornali hanno contribuito a colpevolizzare gli autisti e a classificarli come privilegiati nullafacenti, protetti da sindacati e cordate politiche, citando a sproposito i dati sulla bassa produttività dei dipendenti ATAC.
Ma la bassa produttività è la diretta conseguenza delle carenze infrastrutturali e della vetustità dei mezzi, che spesso costringe i dipendenti a consumare l’orario di lavoro in deposito, a causa di vetture guaste che non possono circolare. Quando lavorano, faticano quanto qualsiasi altro lavoratore di questo paese e anche di più, dato che quello dell’autista e del macchinista è un lavoro usurante, soprattutto nelle condizioni in cui sono costretti a operare a Roma.
Proprio su di loro ATAC è andata a risparmiare in questi anni, aumentando il carico e l’orario di lavoro, tagliando il costo del personale (circa il 7% dal 2009 al 2017), mentre i giornali e la politica raccontavano un mondo ribaltato in cui i lavoratori erano padroni della propria azienda per fare i propri comodi.
La propaganda del SI al referendum sulla privatizzazione si basa sulla teoria che il controllo del trasporto pubblico rimarrà al comune, che si limiterà ad affidare il servizio a dei privati. Ma questa strada ha garantito finora l’efficienza del trasporto pubblico e la fine degli sprechi? Con tutta evidenza possiamo dire di no. Non è stata forse affidata con un bando pubblico la costruzione della Metro C a dei privati (tra i quali il gruppo Caltagirone, il cui giornale, il Messaggero, è stato protagonista in questi anni della denigrazione degli autisti ATAC di cui abbiamo parlato)?
La messa in opera è aumentata della Metro C ha subito un ritardo di 10 anni, mentre i costi iniziali previsti si sono gonfiati di 700 milioni di euro. Non è forse appaltato ad un consorzio privato, la Roma TPL, il trasporto pubblico in periferia (il 20% del trasporto pubblico della città)? Anche in questo caso è nota a tutti la carenza del servizio, con soppressione delle linee e ritardi delle corse, e l’assenza di diritti dei suoi dipendenti, che ricevono uno stipendio inferiore agli autisti ATAC ricevuto più volte in ritardo di mesi, dovendo spesso ricorrere allo sciopero per ottenere quanto gli spettava. Così come se si esce dal comparto del trasporto pubblico, e si osserva la gestione del ciclo dei rifiuti, la cura del verde, l’assistenza ai bisognosi… basta ricordare la corruzione e le carenze di questi servizi messe in luce dalle inchieste di Mafia Capitale.
Quella del privato come soluzione alle carenze del pubblico è una leggenda che andava in voga trent’anni fa, e che nel corso del tempo è stata smentita dai fatti, anche con esiti tragici come il recente crollo del Ponte Morandi a Genova.
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