News

Potere al Popolo: una nuova speranza per la sinistra anticapitalista italiana

Intervista condotta da Stéfanie Prezioso con Viola Carofalo, ricercatrice precaria e portavoce nazionale di Potere al Popolo

  1. Ci puoi spiegare come è nato Potere al Popolo? Cos’è il suo profilo (esperienze e idealità)?

Potere al Popolo è nato dopo un appello di noi militanti del centro sociale Ex OPG – Je so’ Pazzo di Napoli ad autorappresentarsi alle prossime elezioni politiche per lo spostamento a destra di tutto il quadro politico e partitico italiano e per la mancanza di una vera proposta di sinistra. In quattro giorni abbiamo organizzato un’assemblea nazionale al Teatro Italia di Roma il 18 novembre 2017 alla quale hanno partecipato oltre 800 persone da tutt’Italia: giovani militanti di base alla ricerca di un progetto politico più ampio, meno giovani delusi dagli ultimi vent’anni e alla ricerca di nuove spinte ecc. Questa prima assemblea ha scatenato un’onda di partecipazione dal basso su tutto il territorio. In poche settimane si sono organizzate oltre 150 assemblee territoriali che, ricominciando dalla base e dalle attività sui territori, si sono riconosciute nel progetto di Potere al Popolo.

La convinzione di usare questo momento elettorale e candidarsi è stata partorita da un’analisi di quanto accaduto negli ultimi anni. Infatti, per una fase molto lunga, fino agli anni Duemila inoltrati, lo spazio della rappresentanza è rimasto a quei soggetti che ereditavano in un modo o nell’altro la tradizione del Partito comunista. Questo rendeva molto difficile provare a ricostruire, da posizioni antagoniste, uno spazio della rappresentanza più efficace e più incisivo, che riuscisse a trasmettere le lotte. Si riusciva a incidere sulla politica nazionale facendo “movimento” e semmai qualcun altro portava quelle istanze dentro il Parlamento. Lo spazio della rappresentanza, per certi versi, era come se non ci “servisse”. Si trattava ovviamente di una congiuntura che non è la stessa di quella odierna. Il mondo degli anni 90-2000 non è riuscito a risolvere i problemi, anzi: tant’è vero che poco a poco abbiamo ceduto, abbiamo perso sulla guerra in Iraq, sui diritti dei lavoratori, siamo arretrati su tante posizioni. Quello spazio della rappresentanza non era efficace e non aveva la capacità di portare fino in fondo i conflitti che esplodevano nella società. Si tratta che una critica che noi, in qualità di “antagonisti”, abbiamo sempre portato avanti, conducendo anche dure battaglie contro la rappresentanza, così come era concepita anche da pezzi significativi della sinistra. Poi, dal 2008 e sempre di più con la crisi nel 2010 e 2011, quello stesso spazio tradizionale si è destrutturato. Nessun tentativo è riuscito a dare una risposta a queste dinamiche. Anzi, una coazione a ripetere sempre gli stessi errori, ha ridotto sempre più alla marginalità le forze politiche che pure avevano avuto un ruolo importante solo 15-20 anni fa. Si sono prodotti dei cambiamenti che nel medio periodo hanno prodotto autocritiche e riflessioni che sono arrivate probabilmente ad un primo tentativo di rilancio proprio in questi ultimi mesi.

E così oggi ci troviamo davanti ad una contraddizione politica maggiore che dobbiamo risolvere: Da un lato e a livello locale, la sinistra radicale e di movimento ha sviluppato delle capacità elevate a gestire i problemi sociali irrisolti dallo stato e dalle organizzazioni tradizionali del movimento operaio. Pensiamo agli sportelli legali per gli immigrati, alle nuove Camere Popolari del Lavoro, alle Reti di Solidarietà Popolari etc. Dall’altro lato però siamo confrontati con un‘incapacità di incidere sulle istituzioni e le sfere di rappresentanza a livello nazionale. Siamo convinti che Potere al Popolo possa essere una risposta politica a questa contraddizione.

 

  1. Com’è stato scelto il nome?

 

“Potere al Popolo” è solo la traduzione letterale della parola democrazia. Oggi molti lo hanno dimenticato, e pensano che democrazia sia andare a votare una volta ogni cinque anni partiti tutti uguali, e per il resto subire le decisioni che vengono prese altrove, non solo in parlamenti che ormai non rispecchiano più il paese, non solo da governi che sono macchine sempre più autoritarie, ma magari in qualche incontro riservato fra banche, finanza, associazioni di impresa, in qualche riunione di tecnocrati dell’Unione Europea. Con “Potere al Popolo” vogliamo innanzitutto mandare un messaggio: le decisioni sulla nostra vita e sui nostri territori spettano a noi. Oggi non decidiamo nemmeno dove passeremo la nostra esistenza, visto che per trovare un lavoro andiamo ovunque. Non decidiamo quando avere un figlio, perché dipende dal contratto che qualcuno ci farà. Non decidiamo come gestire il bilancio di una municipalità o di una città, anche perché ce lo tagliano. Figuriamoci se decidiamo su questioni di politica economica e internazionale. Noi pensiamo che una democrazia sia tale se non è formale ma sostanziale, se è radicale, nel senso che parte dalle radici; se le classi popolari possono effettivamente contare ed esercitare il potere. In questo senso, “potere” ha una connotazione positiva, è la possibilità di fare, di creare. Pensiamo che non debba essere negata ad alcun essere umano, che sia bianco o nero, povero o ricco. Perciò Potere al Popolo è un messaggio chiaro: Vogliamo e dobbiamo decidere noi che siamo costretti a lavorare per vivere e sopravvivere.

 

  1. Chi sono i vostri candidati?

 

I candidati di Potere al Popolo sono stati scelti con un metodo antico e innovativo: le assemblee aperte e orizzontali. Nelle 150 assemblee territoriali hanno partecipato più di 20.000 persone. Il nostro principio è radicalmente democratico: decidono i territori. E anche nella provincia più sperduta le candidature sono state decise dalla base del movimento, con il metodo del consenso o, dove non fosse possibile, per voto ad ampia maggioranza. I requisiti per le nostre candidature sono diversi da quelle degli altri partiti: non conta quanti soldi o conoscenze hai, che pacchetto di voti porti, ma quanto ti sei dato da fare per difendere i nostri valori e interessi. Per noi era importante la parità tra i generi, la bassa età, il radicamento sul territorio, la coerenza tra curriculum del candidato e il programma elettorale. È per questo che sulle liste elettorali non si trovano volti celebri, ma persone che, per vivere e sopravvivere, ogni giorno si alzano e vanno a lavorare.

 

  1. Quali sono i punti forti del vostro programma (politica interna e politica estera)?

 

Il nostro programma vuole essere uno strumento di dibattito e di sintesi di tutti i movimenti di rivendicazione che si sono aggregati al percorso di Potere al Popolo. Vogliamo riprenderci i diritti dei lavoratori che sono stati smantellati negli ultimi 25 anni da governi sia di centro destra che di centro sinistra. Lottiamo per l’abolizione del Jobs Act che ha precarizzato le condizioni di lavoro, della riforma delle pensioni (riforma Fornero) che aumenta l’età pensionabile e della Buona Scuola dell’alternanza scuola-lavoro che introduce di fatto il lavoro forzato e gratuito degli studenti. In più vogliamo rendere i servizi pubblici accessibili a tutti e garantire le risorse per lo sviluppo degli stessi. Infatti, contrariamente alla retorica dei politici di turno, i soldi ci sono. In dieci anni di crisi sono anche aumentati. Il problema è che sono finiti nelle mani di un numero sempre minore di persone. Tutti i dati dicono che se da un lato aumenta la povertà, da un altro lato è aumentata la concentrazione delle ricchezze: l’1% degli italiani detiene il 25% della ricchezza nazionale. Questi soldi non vengono dal cielo, sono il prodotto del lavoro di cui qualcuno si appropria in vari modi (non corrispondendo il giusto salario, con una tassazione iniqua etc). Se vogliamo costruire una società più giusta e salvare questo paese, si tratta quindi innanzitutto di andare a prendere questa massa di capitali e redistribuirla verso il basso. Per esempio, le politiche dei governi Renzi e Gentiloni non hanno fatto altro che regalare risorse alle imprese: oltre 40 miliardi solo negli ultimi tre anni. Questi soldi non sono stati usati per lo sviluppo del paese, tantomeno per garantire stabilità ai lavoratori, ma sono finiti nelle tasche dei datori di lavoro, già ricchi. Per non parlare dei soldi regalati alle banche. Tutti questi soldi possono essere usati per creare lavoro stabile e sicuro, per mettere in sicurezza i territori e gli edifici, per assumere nel pubblico, visto che il servizio pubblico italiano è inferiore quantitativamente e qualitativamente a molti dei più importanti paesi europei.

 

Un altro tema centrale che dominerà il prossimo mese di campagna elettorale e sul quale noi lavoriamo da anni è l’immigrazione. Noi siamo convinti che ciascuno sia cittadino del posto in cui, liberamente, decide di stabilirsi, è un concetto che cerchiamo di mettere in pratica tutti i giorni. Affermare l’idea di una cittadinanza universale significa cambiare le regole dell’accoglienza, approvare lo ius soli, rompere il legame tra lavoro e diritto alla permanenza in un posto, insomma, abrogare tutte le scelte politiche in tema di immigrazione che sono state portate avanti dagli ultimi governi. Per fare in modo che si possa effettivamente parlare di cittadinanza universale bisogna inoltre scardinare tutto quel retroterra di business, spesso criminale, che si è creato attorno a una gestione privatistica dell’immigrazione. Oggi, la gestione dei centri di accoglienza straordinaria (CAS) è assurda. Si tratta di una rivisitazione del ghetto in chiave imprenditoriale: se ne riesci a creare uno, puoi accedere facilmente a finanziamenti milionari. Nelle nostre attività di controllo popolare sui centri di accoglienza straordinaria abbiamo avuto modo di verificare situazioni di vera e propria reclusione, a volte al limite della schiavitù. Bisogna rigettare tutto questo e le leggi che lo permettono, per affermare un’idea di cittadinanza che proviene, principalmente, dalla libertà, che ciascuno deve vedersi riconosciuta, di costruirsi un futuro migliore. Le leggi promulgate dagli ultimi governi non hanno risposto ad una “emergenza”, ma l’hanno peggiorata, avvitandosi in una spirale di irregolarità che crea solo soggetti più svantaggiati, con tutti i costi sociali e umani che questo comporta.

Bisogna, inoltre, parlare di cosa pensiamo dell’UE… sappiamo che sarà un argomento caldo di tutta la campagna elettorale. Ci vogliono mettere nel calderone delle liste no euro… ma la questione è più complessa. Quando parliamo di rompere i trattati europei, stiamo dicendo che bisogna riconsiderare la forma che ha presto l’unione europea. Primo su tutti: il fiscal compact, che impegna i Paesi europei al pareggio di bilancio, a rispettare un certo rapporto deficit/pil e a coordinare l’emissione del debito pubblico con il consiglio europeo.  Ma in concreto, cosa significa tutto questo? Non solo significa accettare le cosiddette misure di austerità, che hanno strozzato ogni capacità di intervenire con misure a sostegno delle classi popolari, ma significa anche obbligare una intera collettività a pagare un debito che ormai è un debito contratto con banche private. Possiamo dirlo in maniera più semplice: il fiscal compact rappresenta l’obbligo di sottrarre risorse pubbliche per redistribuirle agli speculatori privati. Come si fa a non pensare che è questa la prima cosa da abrogare, e che sono queste le prime regole da ridiscutere quando si parla di Unione europea?

 

  1. Cosa sono i legami con le altre città d’Italia? Con gli altri centri sociali? Con gli altri raggruppamenti politici, associazioni, movimenti sociali, che appoggiano quest’esperienza?

 

Le assemblee territoriali sono state organizzate dai vari soggetti sociali e politici attivi sui territori, oltre che da singoli. Si tratta di centri sociali, pezzi di sindacati di base (Cobas, USB), rappresentanti del mondo associativo, di raggruppamenti politici (Rifondazione Comunista, Partito Comunista Italiano, Sinistra Anticapitalista, Rete dei Comunisti, Eurostop). Insomma, Potere al Popolo è finora riuscito a coinvolgere tante e tanti, dentro e fuori forme organizzate del mondo delle lotte sociali e politiche di questo paese. La partecipazione dei No Tav, con la candidatura di Nicoletta Dosio, dei No Tap in Salento (Puglia), dei No Muos in Sicilia, così come di tanti altri comitati territoriali che si battono a difesa dei proprio territori, da una parte ci inorgoglisce, perché pensiamo siano la parte migliore di questo paese; dall’altro testimoniano come questo percorso abbia avuto finora sicuramente il merito di trovare coordinate comuni per lotte che finora non avevano estrema facilità a stare insieme e a lavorare insieme per la costruzione di un orizzonte politico generale.

Da parte dei centri sociali le risposte arrivate sono state molteplici. Ci sono esempi di compagni che sono parte integrante e protagonisti di Potere al Popolo; altri, che pur testimoniando pubblicamente il rispetto per la strada intrapresa, hanno dichiarato di non condividerne alcuni dei presupposti di base e hanno preferito non farne parte (l’esempio principale è forse quello di Infoaut, che ha pubblicato un bell’editoriale di cui abbiamo apprezzato la capacità di dialettizzarsi a Potere al Popolo senza dover fare ricorso alle calunnie e alle offese, pur ribadendo la mancata condivisione del nostro tentativo); infine, ovviamente, ci sono anche quelli – pochi per fortuna – che hanno condannato sprezzantemente quanto stiamo mettendo in piedi.

Queste connessioni che si sono create in poco più di due mesi hanno costruito un’infrastruttura di base che copre tutta la penisola, isole comprese. Radicamento testimoniato dall’esaltante raccolta firme per la presentazione di Potere al Popolo su tutto il territorio nazionale. Un successo enorme, visto che siamo stati capaci di raccogliere ben 52.000 firme (ne servivano 25.000) in tutti i collegi elettorali. Chiaramente questa presenza capillare va rafforzata e resa permanente. Il nostro obiettivo è utilizzare questa campagna elettorale per costruire organizzazione ovunque sia possibile. Avamposti che non sono meri comitati elettorali, ma nuclei organizzativi che avranno il compito di continuare a lavorare anche dopo il 4 marzo, a prescindere dall’esito delle elezioni. Da questo quadro credo venga fuori l’obiettivo principale di Potere al Popolo: dare vita ad un movimento popolare che ha l’ambizione di rimanere a lungo e di crescere. Perché non ci fermeremo fin quando non vinceremo. E certo per noi la vittoria non è il 3% in una tornata elettorale. Vittoria significa potere al popolo.



  1. C’è un sicuro allontanamento dei giovani dalla politica come è stata fatta sinora in Italia (diciamo negli ultimi vent’anni). Quale tipo di dialogo viene fatto con i giovani da PaP? Come si pensa il fare politica a PaP?

 

In primo luogo, siamo noi giovani precari a subire di più gli effetti della crisi. Proprio alcuni giorni fa, una ricerca del Fondo monetario internazionale ha evidenziato che siamo noi giovani a maggior rischio povertà, rischi legati agli sviluppi di precarizzazione del mercato del lavoro e ai modelli scelti per riformare i sistemi di protezione sociale e consolidare i conti pubblici. Queste tendenze inoltre fanno sì che siamo quelli tradizionalmente esclusi dalla politica.

Così come accaduto anche in altri paesi, quest’esclusione è dovuta a diversi fattori. Certo non sono un incentivo alla partecipazione le parole dei vari ministri che si sono succeduti in questi anni, che a turno ci hanno definiti “bamboccioni”, “choosy”, “sfigati”, fino ad arrivare alle dichiarazioni dell’attuale ministro del lavoro Poletti che ha affermato, in riferimento a chi è costretto ad emigrare, che “alcuni meglio non averli tra i piedi”. I giovani vengono additati come colpevoli della loro stessa condizione di esclusione e di crisi. Per di più, la politica tradizionale utilizza registri linguistici e strumenti di comunicazione ormai obsoleti e assolutamente incapaci di parlare a noi. Con Potere al Popolo, invece, grazie al lavoro di questi ultimi anni di tante delle strutture di base che fanno parte del progetto, parliamo una lingua che è la stessa di tantissimi giovani, utilizziamo gli stessi mezzi, in particolar modo i social network. E non rinunciamo ai momenti ludici, a quelli che permettono di costruire socialità e comunità. Perché, checché se ne dica, siamo tutti alla ricerca di luoghi – fisici, ma non solo – che permettano costruzione di identità, di appartenenza. Inoltre, contro una politica che è stata declassata al rango di mera attività amministrativa, rivendichiamo altro: la possibilità di sovvertire tutto, di “sognare”, di costruire orizzonti radicalmente diversi da quelli che ci vengono prospettati.

 

Noi giovani siamo paradossalmente quelli che avremmo più da dare, proprio perché – da esclusi – sappiamo cosa vuol dire includere. Il nostro programma parla di questo. C’è bisogno di rottura e rinnovamento, di levarsi di dosso il “morto” di questo paese. Non è facile, noi pensiamo di aver solo iniziato. Abbiamo ancora migliaia di persone da coinvolgere, per far tornare a fare della politica uno strumento e non una cosa sporca, una possibilità di trasformazione e di riappropriazione della propria vita.

 

E proprio l’esperienza napoletana dell’Ex OPG – Je so’ Pazzo ci dimostra che è possibile coinvolgere i giovani nelle attività politico-sociali, capovolgendo in un certo senso il rapporto tra militante politico e masse popolari. Infatti tramite le nostre attività sociali nei diversi ambiti del lavoro, dell’immigrazione, dello sport popolare, del doposcuola popolare, delle attività di contrasto alla povertà etc., non si tratta di riprodurre l’approccio classico e problematico del militante che spiega ed insegna al lavoratore le sue condizioni e i suoi problemi. Con il mutualismo ed il controllo popolare siamo capaci d’invertire questa tendenza e di costruire percorsi comuni di apprendimento, di formazione politica, di autorganizzazione e di autogoverno di queste attività. Così diamo sì una risposta concreta ai bisogni quotidiani delle masse popolari, ma allo stesso tempo creiamo momenti di lotta e di solidarietà che ci hanno permesso, nel piccolo, di vincere. E proprio queste piccole vittorie ci danno la spinta per cambiare passo, per coinvolgere sempre più persone nelle nostre attività e per dare una prospettiva politica più ampia alle nostre attività. Ecco, pensiamo che proprio questo metodo radicato nel sociale sia la strada da percorrere per allargare la partecipazione alla politica delle masse popolari.



  1. Come capite/spiegate lo straordinario sviluppo di un’alternativa a sinistra che nasce dal Sud della Penisola?

 

Questa domanda dà spunto a molteplici riflessioni, e vi si può rispondere in tanti modi diversi: si può citare l’esperienza amministrativa degli ultimi anni, che ha comunque aperto un canale con i movimenti sociali della città; si può citare – perché no – l’esperienza dell’Ex-OPG „Je so‘ pazzo“ che come spazio sociale ha avuto una risonanza nazionale importante, ma queste risposte sono parziali e in fondo tengono conto solo di Napoli, non di tutto il Sud. La verità è da cercare altrove: il paradigma storico di un nord Italia pronto alla lotta operaia, e di un Sud arretrato popolato da contadini proni alle esigenze del padrone di turno, è falso. Non neghiamo che in Italia esista una questione meridionale; è esistita ed esiste tutt’ora. Oggi l’economia del Sud Italia presenta delle caratteristiche molto diverse da quelle delle regioni centrali e settentrionali del Paese. Basti pensare al fatto che in alcune regioni meridionali la fonte maggiore di profitto è data dall’indotto creatosi attorno all’emergenza migranti… Tuttavia, e questo non deve stupirci, una situazione così critica, fatta spesso di emigrazione, disoccupazione, mancanza di strutture e di servizi, può diventare una vera e propria polveriera. Non è strano che qui, prima che altrove, abbiamo trovato associazioni e gruppi che già avevano l’esigenza di praticare quelle esperienze di mutualismo che nell’esperienza dell’Ex-OPG hanno trovato un megafono e – ci piace pensare – un punto di riferimento. Oggi quelle esperienze sono la spina dorsale di Potere al popolo, e trovano ascolto in tutta Italia, e non solo.

8. A sinistra, o la cosiddetta tale, si mormora che PaP sta dividendo i voti che sarebbero potuti andare a Liberi e Uguali che alcuni vedono come un alternativa di sinistra. Cosa rispondete a tale critica?

 

Che non condividiamo questa critica, innanzitutto perché noi siamo ambiziosi e guardiamo ben oltre quelli che gli addetti ai lavori considerano una sorta di “riserve indiane” dei partiti esistenti. Potere al Popolo non è semplicemente alternativo a LeU: noi siamo alternativi a tutte le liste esistenti.

In secondo luogo crediamo che non puoi cambiare le cose con chi è parte integrante del sistema. Liberi e Uguali è un PD2: ci sono D’Alema, Bersani, tutti quelli che hanno gestito gli ultimi venti anni di potere, che hanno votato il Governo Monti, il Governo Renzi e le peggiori schifezze, dalla partecipazione alle guerre alla liberalizzazione degli orari di lavoro, dal Fiscal Compact a riforma Fornero, Jobs Act, Sblocca Italia e Buona Scuola… Per non parlare di Grasso, che è andato, fino alla fine, d’amore e d’accordo con Renzi, non ostacolando mai la sua azione. Che credibilità avremmo se per cambiare le cose ci associassimo a questa gente? Che alternativa potremmo mai praticare?

Noi, per età, per genere, per appartenenza sociale, siamo un’altra cosa. Per contenuti e metodi politici, Liberi e Uguali è la continuità con tutto un mondo che ha portato avanti politiche antipopolari. Noi non vogliamo unire il ceto politico della “sinistra storica”, di cui ormai si salva poco o nulla. Noi vogliamo unire le persone, chi sta in basso, le associazioni, i collettivi, i comitati territoriali e ambientali, le reti di solidarietà, le esperienze di lotta sui posti di lavoro e nel sociale. Il nostro problema prioritario non è tanto eleggere qualcuno, ma far partecipare le persone, ricostruire una comunità, un senso di appartenenza, un sentire di essere dallo stesso lato della barricata. Essere utili al nostro popolo, diffondere la pratiche che funzionano, mettere in connessione le competenze e metterle a disposizione di chi ne ha bisogno, per migliorare la loro vita.

Questo è un lavoro che non è iniziato ora, che dentro la crisi è enormemente cresciuto, adesso si tratta solo di farlo vedere a milioni di persone e di organizzarlo sempre meglio. Tutto questo potrebbe produrre anche l’elezione di parlamentari, espressione di un movimento che sta davvero dalla parte del popolo. Ma non abbiamo ansie da prestazione: se anche così non dovesse essere – e sarebbe comprensibile: abbiamo solo due mesi di vita, le persone sono molto disilluse, i nostri mezzi per raggiungerle sono pochi, non abbiamo soldi o grandi nomi… – non è decisivo ai fini del progetto, perché dal 5 marzo continueremo ugualmente, a federare, a crescere, a stare nei territori e nelle strade. E quando le persone vedranno che non eravamo un cartello elettorale, ma una comunità e un’idea di società, non potranno che partecipare, contribuire, e far crescere. E i risultati, anche sul piano della presenza nelle istituzioni, non tarderanno ad arrivare.



  1. PaP ha subito avuto un grande impatto all’estero (in Gran Bretagna ma non solo). Come ve lo spiegate? Quali sono i vostri legami con i movimenti « fratelli » in Europa o negli Stati uniti?

 

Il fatto che Potere al popolo abbia avuto un grande impatto all’estero ce lo spieghiamo in maniera molto semplice: c’è un enorme spazio vuoto ovunque. Chi oggi non solo è di sinistra, ma pensa che il comunismo possa essere effettivamente un’alternativa da costruire, può occupare quello spazio. Alcuni prima di noi ci hanno provato: le reti di mutualismo in Grecia da cui poi ha tratto forza Siryza, per esempio, sono stati per noi un esempio estremamente positivo; così come il tentativo di Podemos… è a loro che abbiamo guardato negli anni scorsi. Sappiamo che la storia di Tsipras non è una storia a lieto fine, se ne intravedevano i limiti, ma dal punto di vista della mobilitazione popolare e della ripresa di una politica di massa, quel momento, fino al referendum, è servito e a prescindere dagli esiti rimane comunque un segnale.

Dal punto di vista dei contatti, siamo riusciti a stabilire un dialogo con Momentum in Inghilterra e anche con la CUP in Catalogna. La relazione più stretta, al momento, è quella con France Insoumise. Siamo riusciti a incontrare Mélenchon, e crediamo che questa relazione possa essere costruttiva. Ma guardiamo anche al di là dei confini europei. Osserviamo, studiamo e ci confrontiamo con esperienze vivissime nel cuore dell’impero o in America Latina, ad esempio.

Al di là dell’elenco, però, o della risonanza che abbiamo avuto sulle riviste europee e americane, crediamo che un’organizzazione come la nostra debba sempre porsi in un’ottica internazionalista. Per questo stiamo organizzando e abbiamo organizzato numerose assemblee e gruppi che lavorano all’estero, per ora dove abbiamo più contatti. Sono momenti di confronto preziosi, perché ci permettono di capire quanto siano collegati i problemi dei popoli europei. Abbiamo sempre rifiutato di guardare alle cose solo per come avvenivano in casa nostra; ci siamo sempre posti nell’ottica di ragionare su un piano più vasto. Oggi, questo, è vero più che mai: la globalizzazione e l’intrecciarsi delle relazioni europee (per quanto instabili esse possano essere) ci impone di recuperare un terreno importante. Vale a dire, ricompattare nel modo più largo possibile gli interessi delle masse popolari, che sono gli stessi in Italia, in Grecia, in Inghilterra, in Spagna, in Francia in Germania  e negli Stati Uniti. Questo vale anche come auspicio: intessere relazioni e legami con i movimenti che si pongono il nostro stesso scopo è fondamentale. Anche perché se ci limitiamo a giocare nella nostra area di rigore, mentre l’avversario spazia a tutto campo il massimo che potremo ottenere sarà un pareggio o una sconfitta dignitosa. Se vogliamo vincere – e questo è il nostro obiettivo ultimo – dobbiamo imparare a giocare su tutto il terreno di gioco. Fuor di metafora, in tutto il mondo.


  1. Quali sono le vostre previsioni non solo nell’ambito delle elezioni ma più fondamentalmente per ricostruire una vera alternativa a sinistra ? Come vedete il vostro sviluppo dopo il 4 marzo prossimo?

 

Un paese lo si cambia innanzitutto se si è presenti in ogni aspetto della società. Se si sa rispondere ai bisogni materiali ma anche costruire un immaginario, fare musica, teatro, cinema. Se si sanno sviluppare pratiche che modificano il funzionamento delle istituzioni. Noi andremo avanti perché non basta un’elezione a fare tutto questo, ma è un lavoro che va portato a fondo, per anni. Le elezioni sono un passaggio che ci permette di fare “massa”, di iniziare a contarci, di uscirne rafforzati. Poi dopo si continua sui territori, a costruire un “partito sociale”.

Qui il mutualismo ha un’importanza fondamentale. Se lo Stato non è in grado di risolvere i nostri problemi, perché ostaggio di interessi di pochi e strutturalmente pensato per difenderli, noi cominciamo ad agire subito con un metodo d’intervento che parte dalle necessità del popolo e che, insieme al popolo, sviluppa coscienza e partecipazione. Mettere su un doposcuola sociale, uno sportello contro il lavoro nero, una palestra, ti permette di fare tante cose: inchiestare la realtà, avvicinarti a soggetti non politicizzati, non fornirgli solo un servizio ma spiegare i motivi, imparare con loro e lottare insieme, sviluppare quindi quegli embrioni di coscienza e di autogoverno senza cui la democrazia non si regge. Non facciamo assistenzialismo, ma protagonismo. Il mutualismo, come il controllo popolare, ci permettono di uscire da quella terribile retorica da eterni sconfitti di cui siamo stufi: ci dimostra che se ci si attiva in maniera intelligente e creativa si può vincere, si può dimostrare materialmente che le istituzioni non fanno abbastanza e quindi possono essere sostituite dal popolo che si organizza, vigila e propone. Chi meglio di chi vive le condizioni di lavoro, di chi usa un servizio, di chi abita un territorio, può dire come intervenire e come migliorare quel servizio?

Queste pratiche non sono solo utili, sono anche molto divertenti. Tirano fuori il meglio delle persone. Le spingono a riflettere e a fare comunità. Ecco, in chiusura possiamo dire che la nostra principale differenza con tutto lo scacchiere politico sta tutta qui: anche se siamo esclusi, poveri, e ancora deboli, noi ci divertiamo, sappiamo ridere e gioire, sappiamo pensare e sognare.

Lascia un commento